rimpatriate

La gioia delle rimpatriate cinematografiche è qualcosa di coinvolgente. Li guardo e mi sento uno di loro: gaudente sul tappeto rosso, in vena di dichiarazioni, di disperazioni, di proclami. Contro la violenza, contro la fame, per la pace, per i poveri, contro la caccia alle marmotte. Attori, registi, produttori. Si abbracciano sul tappetone, questa lunga lingua di feltro che non si decide mai a risucchiarli. Due registi obesi e sorridenti. Pancette di lauto adipe e larghi sorrisi per i fotografi. "Caro collega, ho criticato altri tuoi film, ma questo... questo è veramente un capolavoro." Mi sarebbe piaciuta anche una citazione colta, non so, magari un'esaltazione del "montaggio analoggico" di fantozziana memoria. E poi: ma sarà possibile che sono sempre gli stessi? Gli stessi registi, gli stessi attori che si premiano addosso senza risparmio, oggi a me domani a te, in un crescendo di festival, kermesse, sfilate di varia natura. Forse è per questo che nel tempo ho cominciato ad ammirare al di là di ogni ragionevolezza Werner Herzog, uno che davvero ha vissuto l'esperienza cinematografica, e artistica, sulla propria pelle, rischiandola e maltrattandola, la pelle. Ne parlerò più diffusamente in seguito probabilmente. Ma viene da riflettere ogni volta che si pensa a quanti modi esistono per fare cinema: con i pruriti delle massaie o trasbordando un battello (vero) da un capo all'altro di un guado senza effetti speciali, come il regista tedesco in Fitzcarraldo. Non credo vedremo mai Herzog su certe lingue di panno. Lui infatti è magro, molto più magro della media dei registi, di norma assai pasciuti. No, per carità, va tutto bene. Non sono loro i fessi.

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