lettera aperta a Moloch


Trovo sempre più improbabile qualsiasi grande svolta che non abbia come termine ultimo l'uomo. Non è un umanesimo di ritorno o qualche altra diavoleria dialettica. E' una semplice necessità, che avverto come cittadino prima che come tutto il resto (figlio, scrittore, giovane e via con le etichette). Riforme di tipo economico che non tengono conto o tengono conto in minima parte la persona (usiamo questo termine giuridico un po' spaventoso) e la sua interazione con i suoi simili sono destinate a fallire, o a farci regredire.

Come società, come democrazia, forse anche come civiltà. Non a caso sono decenni che la politica si riempie la bocca di parole come "svolta", "riforme" e via dicendo senza essere riuscita anche solo a sfiorare il problema. Che è un problema di formazione principalmente, al quale la scolarizzazione di massa non è riuscita a dare una risposta. D'altra parte i percorsi culturali che dovrebbero portare un individuo a completarsi sono spesso solo pastoie burocratiche, trappole in cui si perdono tempo e voglia di fare: trappole, ostacoli che un certo, perverso senso della realtà pretende di elevare a prove necessarie per dimostrare il proprio grado di maturità. Perdere tempo non è solo o non è tanto una questione burocratica, ma di assimilazione dei concetti.

Se non partiamo dall'assunto che ciascuno è fatto in modo diverso e che i modi e i tempi dell'apprendimento non possono passare attraverso delle scadenze di segreteria non possiamo nemmeno capire il grande perché che sta dietro a chi rinuncia o si chiama fuori da quel gigantesco controsenso dell'istruzione italiana. Un Moloch, un mostro fatiscente, il tentativo più riuscito di omologazione dei contenuti che sia mai riuscito nella storia del nostro paese. Un tentativo tanto più fallito nelle cifre tanto più riuscito nell'ottica del controllo delle masse, dove la personalità è risucchiata, umiliata, trattata come impiccio dalle regole ministeriali. Di questo dovremmo parlare, e di quanto la politica non vuole e non può fare: rendere l'individuo veramente libero di formarsi e di esprimersi. Per questo i diktat del potere sono nulli nel dibattito culturale del nostro tempo. E' un dovere confutarli, e con energia.

Io non riconosco l'orgia del potere e la sua gerarchia: non riconosco il modo subdolo con cui prova a scaricarsi di dosso le responsabilità di un fallimento epocale (quello dell'istruzione) addossandolo a terzi. E con che arroganza poi. L'arroganza dei garantiti contro i non garantiti, degli iscritti al club contro chi non ha tessere, né padrini. Ma nemmeno padroni, per fortuna. Ma il padronato che cosa ha insegnato finora? Ad essere servi. Dei professori, dei presidi, di chiunque eserciti uno sputo di potere. Il meritevole non è chi sa, ma chi si mette meglio a disposizione. Potrebbe essere sintetizzata così la grande lezione dei viceministri di ogni tempo: chi pensa è un perdigiorno, chi traffica un uomo degno di lode. Tutti trafficanti allora, nel solco dell'esempio che la politica e tutto il suo squallido sottobosco ci hanno fornito in questi anni: la parola d'ordine è brigare. La moralità degli atti verrà dopo, visto che la moralità verrà comunque giudicata in base a leggi che premiano la produttività e non la necessità o la qualità del prodotto; regole dettate dalla classe egemone che vanno a senso unico, nell'unica direzione che il potere conosca: quella del consenso e della moderazione, intese come massimi artifici del controllo.

Un uomo ridotto a numero, sintetizzato come numero, è molto più facile da gestire che non un uomo nel pieno della propria coscienza, determinato a pronunciarsi come unità libera, e non come suddito di un principio dominante, di un principio di massa, di una dittatura dei maggiorenti che occupano i posti chiave. Basta vedere a che cosa si è ridotto l'essere studente oggi: un compilatore di libretti, un matematico delle medie aritmetiche. E nel peggiore dei casi il primo difensore dei suoi censori, il pretoriano dell'establishment.
Io non so come andrà a finire questa brutta storia. Ma vedo tanti segnali che mi inquietano: se non ci sarà una presa di coscienza collettiva e intransigente da parte dei giovani intellettuali allora sarà dura venire fuori da questo pantano. E bisognerà prepararsi sempre di più alla selezione su base ministeriale: sulla base dell'accettazione delle regole del più forte, del più garantito.

lo strano effetto che fa

Non riesco proprio ad appassionarmi ai temi di attualità. Credevo, insieme a molti altri per la verità, che la dimensione del dibattito pubblico potesse ampliarsi ed evolversi una volta uscito di scena il precedente governo, ma nei fatti non è stato così. La fase di stallo rimane, come una cappa, o una condanna a lungo termine. Nessun argomento che vada oltre l'aspetto economico/monetario, nessuna riflessione un po' più ad ampio respiro su chi siamo e su cosa vogliamo essere. Eccezion fatta per le volgarità di qualche viceministro (in perfetta assonanza con il vicesindaco della supercazzola di Tognazzi) c'è stato veramente poco. Chiamiamolo vuoto culturale: con laurea e dottorato, ma vuoto. Ricolmo di carte e attestati dati e ridati in un circolo vizioso che ha dell'incredibile, ma pur sempre vuoto, incapace di andare oltre se stesso. Questo tecnichese, questa serietà eletta a slogan sa di interpretazione di dubbio gusto, di parodia che nel disperato tentativo di prendersi, ancora una volta, sul serio, sbanda e si accartoccia su se stessa. E' una pagina che ha poco dell'austerità e molto della tristezza, poco della dialettica e parecchio della mancanza di grammatica. Forse la società italiana di questi anni dieci non merita niente di meglio che essere a rimorchio di una classe dirigente che non ha scelto né eletto ma che si vede costretta a giubilare, un po' per la cattiva coscienza di aver votato chi c'era prima, un po' per l'evidente imbarazzo di non avere niente di meglio. Abbiamo confuso il dibattito pubblico con le parolacce di un viceministro e la cultura con il prendersela con i fuoricorso; la serietà con la depressione; il rigore con uno Stato invasivo e iperprotagonista; il tanto peggio con la contingenza della Storia. E ne paghiamo le conseguenze, molto semplice. Con l'aggiunta, crudele ma a questo punto meritata, di dover pure sorridere e dire che adesso le cose funzionano.

foto ricordo

Posano, armati di telefonini, smartphone, fotocamere, tablet. Posano e sorridono. Alle loro spalle il relitto della Concordia. Non un panorama da cartolina, non il sole al tramonto. Ridono, anche, sorridono, si abbracciano. In fondo è anche questa una cartolina: l'istantanea dell'epoca che viviamo. Un popolo minuto, un po' inconsapevole, armato di tecnologia da ipermercato che grazie a un po' di megapixel in offerta, certifica la sua presenza al mondo. C'ero, c'eravamo. Eravamo lì, dove si sta consumando uno dei reality più tristi che la cronaca degli ultimi anni abbia registrato. E del resto, visti gli altri fatti di cronaca degli ultimi anni, non è la prima volta che ci troviamo di fronte al turismo macabro, alla foto ricordo sul luogo di un massacro o, come in questo caso, di fronte ad una vera e propria tomba galleggiante. E' un effetto collaterale che raccapriccia, insieme alla morbosità compiaciuta del cattivo giornalismo italiano, che riesce a fare carne da macello anche e soprattutto di vicende umane che meriterebbero solo rispetto e silenzio. Ma è anche l'esatta conseguenza dell'involuzione antropologica dell'italiano medio, vittima della scolarizzazione di massa e della televisione, delle mode e della propria indomita superficialità, esaltata da un regime mediatico che non solo ha reso la piccolezza un valore e la mediocrità un vanto, ma che ha anche convinto i più di essere i protagonisti di uno spettacolo televisivo. Spettacolo del dolore che tocca agli altri, dove la massa mediatica un po' si fa fotografare sorridente di fronte al relitto, e un po' impugna il forcone (o il telecomando, vediamo) per vendicarsi del mostro. Scriveva Elias Canetti in Massa e potere: "Anche oggi ognuno partecipa alle esecuzioni pubbliche attraverso il giornale. (...) Nel pubblico di lettori di giornali è sopravvissuta una massa aizzata più moderata ma più irresponsabile per la lontananza degli avvenimenti. Si sarebbe tentati di dire: la forma più spregevole e al tempo stesso più stabile." L'unica riforma finora riuscita.

per Carlo Fruttero

Articolo per Reader's Bench

idee per la testa

Mi viene da parlare di politica solo per constatare che di politica si può dire ben poco. Che cosa ha a che vedere questa fase con la polis e la sua vita? Di più, che cosa ha a che vedere con la società se non nel reticolato di grafici e di cifre che ci vede sempre più schiacciati da un modello economico iniquo e forse anche fallimentare? Troppo poco. Non si può dire niente, perché le scelte economiche degli ultimi anni hanno fatalmente determinato il collasso attuale, ma si può ripetere: troppo poco. Troppo poco con la qualità della vita, con la qualità del tempo, con la possibilità di costruirsi un futuro. E' stata una politica da poco che si è ridotta ad essere politica del niente, banale amministrazione di beni e merci, di cifre e rendiconti. Scrive Aristotele nella Politica: "E' chiaro che c'è una scienza cui spetta di cercare quale sia la migliore costituzione: quale più di ogni altra si adatta a soddisfare i nostri ideali quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica." Passino gli impedimenti esterni, che qualunque giurista in malafede può impugnare come giustificazione, ma quando mai la politica degli ultimi anni ha mai anche solo sfiorato il concetto di "soddisfare i nostri ideali"? Ognuno ha la sua risposta, che può essere cercata non solo nel giardino di casa, ma anche nei corridoi della madre Europa, così distante e algida, così iniqua e talvolta ipocrita nell'imboccare la strada sbagliata salvo poi mordersi il labbro e accusare tutto e tutti fuorché il proprio impianto ideologico (perché anche il capitalismo sfrenato è un'ideologia). Abbiamo avuto a che fare con impedimenti esterni continui e duraturi, con contingenze sempre sbagliate, con momenti sempre difficili, con sacrifici sempre onerosi. Con cambiali in bianco, firmate da padri spendaccioni, che dovranno saldare i figli. Fino al paradosso del governo tecnico, dove la tecnica, cioé un non meglio precisato strumento imparziale, dirige la politica, con buona pace di Platone, che per contro aveva già individuato la politica stessa come "tecnica regia", tecnica che deve guidare tutte le altre per il bene della comunità. Questa ennesima inversione, questo spaventoso equivoco, non è solo uno scambio di ruoli dettato dalle esigenze economiche (ne esistono altre?) del momento, ma un grande smottamento a valle della facoltà di un popolo di autodeterminarsi, e di scegliere. E di scegliere anche in base ad ideali e soprattutto ad idee.

provinciali

Adesso scoprono che l'Italia è un paese fatto di province, e la mettono sul piatto come se fosse una novità. La frammentazione culturale, linguistica, antropologica del nostro paese viene da tutto un sottobosco di usi e costumi millenari, sovrapposti, talvolta carsici. Fa un po' specie apprendere che il giornalismo di massa scopra solo ora questa grande verità: articoli, inchieste, indagini per ricavare qualcosa che assomiglia molto all'ovvio. C'è qualcosa che non quadra però: il tentativo, alquanto capzioso, di sovrapporre la provincia culturale con la provincia politico amministrativa, perché qui sorge più di un dubbio. Se da un lato il preservare la tradizione italiana è cosa buona e giusta (specie in contrapposizione all'omologazione consumistica occidentale) un altro discorso è il difendere le piccole patrie sparse per lo Stivale. Perché qui non ci siamo. Le province vanno chiuse. Sono enti ingarbugliati, interposti tra comuni e regioni, in predicato di essere smantellate da più di quarant'anni; sono il prodotto di una fase storica risorgimentale che oggi non ha più senso di essere mantenuta in vita, un controsenso che troppo spesso è stato ed è il terreno fertile per prebende, regalie, scambio di favori. Lo snellimento dell'apparato burocratico passa proprio dalla loro abolizione. Che quasi tutti i cittadini auspicano, tra l'altro. L'iperlocale, per dirla alla Trota, non può essere ancora l'inciampo burocratico grazie al quale la cattiva politica espande il proprio potere, frammentando il territorio - spesso alla cavolo - e moltiplicando le poltrone. Tra l'altro, questa cattiva politica delle specificità del territorio se ne è sempre abbondantemente fregata, detto per inciso: l'obiettivo è sempre stata la vacca elettorale da mungere. Come mi disse un giorno un mio amico: e che c'è di male ad essere dei provinciali? (P.s.: delle letture che mi vengono in mente: Viaggio in Italia di Piovene, Un week end postmoderno di Tondelli, Il provinciale del grande e compianto Giorgio Bocca).