Anni di niente


“2005/2021: anni di niente”, così recitava uno striscione che ho adocchiato l’altra sera in programma televisivo. A manifestare erano studenti, o almeno credo. Le manifestazioni non andavano di moda già da un po’, figurarsi ora in tempi di covid. Però quell’anno, il 2005, mi ha portato alla mente qualcosa; un sentimento, forse una reminiscenza. Gli anni che vanno dal 2005 al 2008 segnarono un possibile cambiamento per l’Italia. Fu un’epoca caratterizzata da un certo fermento nelle piazze, nelle università, nella politica locale. E’ possibile ormai parlarne in chiave storica visto che ci separa ormai un quindicennio da quel periodo. La società italiana stava vivendo una fase di transizione che avrebbe portato ad una ibridazione della politica, iniziata nel 1994 e conclusa, si può dire, ai giorni nostri. Ibridazione tra la classica versione ingessata e ampollosa della politica e il suo contraltare, ossia qualche cosa che con il Palazzo non ha nulla a che vedere, chiamiamola pure società civile o come ci pare. Prima il berlusconismo con i manager di Fininvest e poi l’antisistema grillino non ancora pentastellato con il suo esercito di vari ed eventuali presi dalla strada. In comune, lo stesso orizzonte: diventare sistema. Prima con Forza Italia e poi con i Cinque Stelle. L’antipolitica che entra nel sistema e si fa politica esattamente come tutti gli altri partiti. Il detonatore culturale di quella breve temperie fu - strano ma vero - la pubblicazione di un libro inchiesta di due giornalisti, Stella e Rizzo, intitolato La casta, un modo di dire che per qualche anno entrò prepotentemente nel lessico collettivo, un po’ come resilienza al giorno d’oggi. 

La casta era un saggio di denuncia contro gli sprechi e gli scandali corporativi del Potere che tutti citavano e che quasi nessuno aveva letto; un robusto lavoro giornalistico che metteva il dito nella piaga dello scialacquio sistemico italiano, qualcosa che tutti conoscevano benissimo ma che nessuno si era sognato fino a quel momento di mettere in discussione. Le rivoluzioni degli italiani di solito si risolvono con un barrito al bar.

La casta mise in evidenza un dato di fatto: l’Italia sta in piedi non si sa come, la classe politica è screditata, servono rigore e responsabilità, ma sembra che nessuno, tanto per cambiare, sia disposto ad assumersene l’onere. Si consumava in quegli anni lo scollamento definitivo tra l’ideologia politica e la prassi governativa, un dittico che fino agli anni Novanta nessuno si sarebbe mai neanche so
gnato di mettere in discussione. E così come un’altra rivoluzione mancata - quella del 1992 - portò al governo quella strana restaurazione che fu il berlusconismo, allo stesso modo i bollori sociali del 2005/2008 ebbero come conseguenza il contrappasso della democrazia, cioè la tecnocrazia dei così detti governi tecnici, esecutivo Monti in primis. 

Da allora le linee tendenziali della politica che mi pare di intravedere sono sostanzialmente due: da un lato il naïf come categoria neo culturale e dall’altra la tecnocrazia come supposta risoluzione razionale delle controversie. Improvvisazione magari anche di buona volontà da un lato, esecuzione di un piano finanziario dall’altro. Detta così all’ingrosso, mi sembra sia questa l’evoluzione dello stato di cose degli ultimi quindici, sedici anni. 

La cultura politica, che tanto imperversava negli anni Sessanta e Settanta, non ha lasciato traccia. Quella che un tempo si chiamava ideologia ha lasciato posto ormai da molti anni a questo strano ircocervo, fatto di due opposti che non si attraggono per niente ma che hanno colto nella convivenza un fattore di crescita per entrambi. L’uomo della strada e l’uomo della finanza si sono alla fine trovati a gestire il sistema paese in un rapporto di disequilibrio dichiarato che però garantisce a entrambi una sembianza di civiltà: quella democratica offerta al tecnocrate dall’uomo della strada e quella della competenza offerta all’uomo della strada dal tecnocrate. Non proprio un patto, ma un mutuo soccorso in nome del vitalizio da una parte e delle mani libere sulla cosa pubblica dall’altra. 

In mezzo, c’è tutto ciò che la classe politica non si sforza più nemmeno di fare finta di rappresentare: porzioni di paese anonime, vasti appezzamenti di intellighenzia per nulla valorizzati, interi settori di società reale che non hanno alcuna corrispondenza parlamentare a nessun livello. Il mondo della ricerca non ha rappresentanza, il mondo intellettuale che non si riconosce in un certo club non ne ha. 

Anche per questo la definizione “anni di niente” significa qualcosa. Significa che negli ultimi vent’anni non abbiamo avuto alcun tipo di avanguardia così come non abbiamo avuto uno straccio di qualcosa che renderà questi decenni degni di essere ricordati, se non in negativo, per crisi, pandemie, pochezza culturale. Ed è quindi difficile per me non fare i conti con una generazione - la mia - che letteralmente non ha avuto alcun peso nella definizione dell’alfabeto contemporaneo. Un vuoto che è al tempo stesso una responsabilità e un segnale inquietante: non c’è stata alternativa politica di qualità ma soprattutto non c’è stata alcuna forma di pensiero in grado di sostenere quella richiesta di rinnovamento tanto auspicata a parole quanto inattesa e probabilmente non voluta nei fatti. Per fare le rivoluzioni bisogna sporcarsi le mani e in Italia una vera rivoluzione non c’è mai stata. Nel 2005 non c’erano premesse culturali, non c’era niente. Tante università, tanti indirizzi, tante facoltà ma nessuna capacità di dare spessore alla protesta, di darle una forma e una direzione che potesse poi produrre qualcosa anche sul piano pratico. C’è poco da incolpare la politica di questo visto che il Potere di ogni tempo non fa che difendere disperatamente se stesso.