ministroni


Negare il finanziamento pubblico alle opere cinematografiche. Facciamo in modo che la cultura (il cinema di qualità è cultura con buona pace del Ministrone) si confronti con il mercato. Perdincibacco, aggiungiamoci. Ma qualcuno dovrà pur dire che la cultura non è parte del mercato e che se uno Stato degno di questo nome vuole avere un senso deve finanziare anche ciò che è economicamente improduttivo. Siamo al casino semantico prima che logico. Potrei dire che Van Gogh era economicamente un disastro (non vendette un quadro in vita) ma sarebbe troppo facile. Diciamo allora che la confusione tra qualitativo e quantitativo sta producendo mostri (e ministroni) incapaci di cogliere questa differenza, semplicemente perché ineducati all'estetica e a quella particolare facoltà umana che consente ad una persona di fare qualche cosa senza pensare necessariamente di venderla e di specularci sopra. "La qualità delle cose diventa, da essenza, manifestazione accidentale del loro valore", citazione da Minima moralia di Theodor W. Adorno. Il costo di un oggetto non è il suo valore. La matematica risolve a suo modo l'ignoto, ma sarà sempre una soluzione parziale e quindi insufficiente, perché questo tipo di incognita non è risolvibile entro i termini di un'equazione. Ma sto divagando. Un film è prima di tutto un'esperienza estetica, specie se è un film difficile, che quindi difficilmente troverà grossa accoglienza presso il vasto pubblico. Basta per rinunciare alla qualità? E' una sciocca domanda retorica. E che Roberto Rossellini venga lasciato riposare in pace.

Le città invivibili


Dalle città invisibili di Calvino alle città invivibili. Le prime opere di fantasia, costruzioni della mente e visioni mutuate dal vero e dal non vero; le seconde palpabili brutture. Grandi centri, ovviamente, ma anche piccoli porzioni di territorio, un tempo aree agricole o luoghi di vacanza per i nobilastri del tempo che fu. Oggi ricche cittadine, amministrate così così, più con il forcone che la bacchetta. La popolazione acclama. Ho provato a filmarne tempo fa, ma non devono avermela perdonata: dire di no (dux docet) è una forma di intollerabile disfattismo per queste persone. Criticare l'abbattimento di verde pubblico, la costruzione indiscriminata di palazzi e palazzacci inguardabili è considerato un modo per remare contro. Gli arguti commenti: "Oh, rovini una città!", come dire che sono io a rovinarla, o ancora il miracoloso: "Un po' di progresso ci vuole." Mi viene da dubitare delle potenzialità del dialogo. Un po' di progresso ci vuole. Quanto ce ne vuole? Un chilo e mezzo? Sradicare qualche pianta secolare per costruire un altro autosilo è una forma di progresso? Intendiamoci. L'educazione al bello è un'altra cosa, trova poca cittadinanza nella negazione delle ragioni dell'altro, nella dimensione quantitativa della vita, il Pil, che ormai non è considerato più da nessuno come indice di qualità. C'è una logica violenta che sottende alla violenza praticata all'ambiente. La logica dei concretoni in salsa brianzola: cristianissimo diritto dell'uomo di sfruttare fino all'ultimo grammo di terra. Terra di fede e di lavoro questa, mica un qualunque lembo disgraziato della Sodoma scioperata e puttana.

ecco, il ministrone per esempio...

La questione dell'Unità nazionale. Dopo centocinquantanni, siamo qui con la questione dell'unità. Tutti divisi. Nessun "crogiolo" paventato da Mussolini nel '17, sotto il rombo delle armi. Niente di niente. Il ritorno dei dialetti santissimo cielo. Vogliamo dire una volta tanto che le cose buone che questo paese ha prodotto sono nate sotto la spinta cosmopolita? Vogliamo dire Rinascimento? Diciamolo, ma è solo un esempio. Difficilmente un qualche regionalismo ha fatto fare qualche passo in avanti. La colpa è anche della ggggente. Il pubblico sovrano che parla il proprio vernacolo con orgoglio: io parlo così e me ne vanto, qualche sperduto sugli scranni europei fa altrettanto, discetta in napoletano dribblando gli sconcertati traduttori. Va di moda sostenere l'identità, ma l'identità italiana è un dessert variegato di influenze: residui greci e romani, celtici, bizantini, arabi, nuragici. Di quale identità stiamo parlando, ma soprattutto come possiamo pretendere di salvarci da quella continua decomposizione e ricomposizione che è la Storia? Non basterà un ministrone della Res Publica a salvarci. Non basterà un decreto a preservare la virginale purezza della nostra identità. Vogliamo parlare dei nostri santi valori? Si bruciavano vive le donne chiamandole streghe fino a pochi secoli fa, e lo si faceva con la Bibbia in mano, come dire: meno male che cambiano i valori. Anche il modello geocentrico era un valore. Anche le vergognose leggi razziali sono state promulgate per difendere un presunto e abominevole valore. Ogni fase della storia ha il suo altarino di dei e di idoli che esigono un tributo. Dei che non esistono, idoli che ci inventiamo da soli, ci mancherebbe. Abbiamo la fortuna di avere in dote una lingua meravigliosa, perfetta sintesi della nostra storia comune: uno scrigno di suoni e sfumature, una lingua nobile, non serve aver letto Foucault per capirlo. Ma urge una legge, almeno un decretino. E se non si rispetta la legge, via in gabbia. Dura lex sed lex, avrebbero detto i latini, che nel novero delle loro leggi prevedevano la croce, ma è tanto per dire, figurarsi se mi permetto di discutere i valori.

antefatti


Mi ripropongo spesso di scrivere qualche cosa di compiuto in merito all'opera di un grande come Francesco De Gregori, un uomo, un artista (per brevità chiamato...) al quale devo molto. Quello dell'approccio critico nei confronti della sua opera è un progetto che ancora non riesco a realizzare. Non ci riesco forse per troppo pudore. Al massimo, come in questo momento, posso abbozzare qualche nota, ma ancora niente di più. Il fatto è che ieri era ho riascoltato, dopo un po' di tempo, una carrellata dei suoi brani e ogni singolo passaggio riesce sempre a farmi pensare. Ho cominciato ad ascoltare la sua musica a dodici anni, forse anche prima, visto che ha cominciato mia madre a cantarmi le sue canzoni, ma è stato a dodici anni che ho cominciato a realizzare il potere immaginifico della sua parola. La parte della sua parabola a cui sono maggiormente legato è quella anni Settanta, e non sono il solo, ma non sarebbe giusto relegare il resto della sua produzione ad un esercizio commerciale. Il famigerato disco della pecora, che in realtà si intitola Francesco De Gregori, è forse quello a cui più sono legato. Ci sono canzoni come Bene, Dolce amore del bahia, Informazioni di Vincent. Lo stesso Principe dice di ritenerlo il suo album peggio riuscito, e va bene così, fa parte del gioco e del diritto ad avere delle preferenze. Ma mi permetto di non credere fino in fondo alle sue parole. Forse è stato solo uno dei più sofferti, chi lo sa.
La canzone d'autore è o no poesia? Non lo è: è canzone d'autore, il che non significa sminuirla o relegarla ad un sottogenere: semplicemente parliamo di due codici espressivi diversi. Diffidare dai commenti estasiati alla youtube: questa è vera poesia, meraviglioso, magico e tre milioni di puntini di sospensione. Non è così, con buona pace del popolo ecumenico. Il testo di una canzone non è autosufficiente, ma queste sono cose già dette milioni di volte. In assenza di una cultura poetica su vasta scala, la musica autoriale si è trovata, al di là delle sue stesse intenzioni, a supplire ad una carenza, a colmare un vuoto emotivo. Questa è un'altra storia ad ogni modo. Del resto gli stessi cantautori da De André a Guccini fino allo stesso De Gregori hanno sempre rifiutato l'etichetta facile e un po' scontata di poeta. La lunga parentesi cantautoriale ha comunque rappresentato uno dei vertici della canzone italiana, l'ha nobilitata, l'ha evoluta da un punto di vista culturale. Cultura, una parolaccia. Va di moda dire di parlare "come la gggente", di scarnificare il vocabolario per farsi capire. Uno sfascio dal mio punto di vista: la semplificazione che coincide con la banalizzazione. "Sono una ragazza semplice" male accidenti, molto male. La canzone d'autore si è sforzata di rompere il cortocircuito, e ci è anche riuscita per un certo periodo (Sanremo nei profondi settanta era una manifestazione fallita) salvo poi arrendersi all'evidenza di un'estesa mediocrità. Amen.

fine giornata

Più che teorizzarla la scrittura bisogna praticarla. La ricerca della storia, dell'intreccio, del lessico, non sono operazioni banali, perché scrivere, con buona pace del Ministero, è un lavoro, e un lavoro difficile e bistrattato per di più. Pubblicherò, dopo immani sforzi e immani umiliazioni, un libro per il mese di novembre. Non significa nulla, beninteso. La realizzazione di un prodotto è sempre un fenomeno parziale a ben vedere: è una propaggine di sé che si esterna da sé come un corpo diventato ormai estraneo, e questo, per quanto mi riguarda, è veramente tutto. Nessuna missione salvifica, nessuna chiamata ultraterrena. Ci sarebbe parecchio da discutere sull'abuso di parole come "sentimento" "emozione" "anima" nel lessico dello scritturame, di quelli cioè che abusano della pazienza e della lingua italiana offrendo al massimo una caricatura della letteratura, una sua sgangherata parodia che fete del peggior dialogo da soap opera.
Qui finisce la tirata. In fondo è tirata per me e non per altri. I post galleggiano sul web, sopravvivono per un po' a chi scrive e tanti saluti. Chissà che fine fanno dopo. Metabolizzati da un inafferrabile apparato digerente digitale, assommati al resto dell'inutile, ai miliardi di caratteri battuti per niente da miliardi di miliardi di falangi. Questo blog funziona un po' così del resto. Propongo gli avanzi di una giornata di scrittura e lettura, le schegge impazzite della mia vanità che premono per avere anche loro uno sfogo. Spero che sia il più possibile mediato dal buonsenso, ma mai dire mai.
Il quaderno sepolto, già... Citazione ungarettiana più che palese, diciamo pure un omaggio. A proposito: è uscita una nuova edizione dei Meridiani Mondadori con tutte le sue poesie, inclusi alcuni inediti. Ho quella precedente e credo che me la farò bastare, tenendo comunque conto che i Meridiani sono la collana di classici indiscutibilmente più prestigiosa del panorama editoriale italiano e non solo. Sono Mondadori, certo. Si sa di chi è la Mondadori, e si sa che cosa rappresenti. Ma i Meridiani sono un punto di riferimento. Ereditato da gestioni precedenti c'è da dire, ma meglio fermarsi qui.
Meno male che non dovevo più dare troppo spazio alla politica mi viene da dire. Ma qui siamo in presenza di un vero spettacolo, che credo vada vissuto come tale.

PER ÀLVARO MUTIS

I poeti sudamericani hanno una formazione solitamente diversa rispetto a quelli di schiatta europea. Non serve chissà quale indagine per scoprirlo: basta leggere Neruda piuttosto che Ernesto Cardenal o Mario Benedetti accorgersi di come il fare poetico dello spagnolo d’oltreoceano sia legato a stilemi che qualche volta risultano difficili da comprendere subito; siamo in presenza di una poesia barocca che non ha conosciuto il barocco, lastricato di sensazioni misteriche e naturalistiche che ha avuto il destino di svilupparsi in un ambiente con influenze diverse da quelle europee (che pure si riscontrano comunque). Inutile dilungarsi su questo aspetto, che porterebbe molto lontano.
Un esempio di poesia ricca ma non ridondante, in piena continuità con la tradizione sudamericana ma al tempo stesso dotato di una sensibilità propria, individuale e individuata, è quella di Alvaro Mutis, di cui in Italia a dire il vero si ha ben poco: solo la pregevole e comunque illuminante antologia di Summa di Maqroll il Gabbiere, edita da Einaudi.
Qui sta l’essenza del poeta colombiano, qui stanno i suoi dolori o per meglio dire la sua trasfigurazione del dolore, perché di questo si parla alla fine: la caratteristica del lirismo di Maqroll è proprio il suo gioco di rimando ad un odore, ad un colore, ad una sensazione; il viaggio di Maqroll – figura marina, acquatica, polimorfa – è anche il viaggio di chi legge, che alla fine familiarizza con i caratteri esotici della poetica di Mutis: estetismo, natura mortifera, malattia, ma anche una sensualità insieme sacra e prosaica che riemerge qua e là. Il verso è lungo, prosastico, e talvolta sfocia nella prosa poetica senza mediazione metrica, mentre il lessico scivola lento, avvolgente, descrittivo attorno all’immagine, seducendola fino a restituirla in tutta la sua fragranza.
Mi è difficile parlare in modo neutro di Mutis, perché Mutis è un pezzo della mia vita: lo è nella misura in cui le sue parole hanno la facoltà quasi sciamanica di trasporre la mente di chi legge da un luogo ad un altro luogo, di influire sugli umori, di plagiarli fino a stordire i sensi e a confonderli. Letta la Rassegna degli ospedali d’oltremare si fiuta il dolciastro della selva, del mare un po’ guasto e verdognolo che porta con sé sale e malattie anziché abbondanza e vita.
Accade che tutta la poetica di Mutis sia un enigma insondabile: le allocuzioni sono qua e là troppo profonde, connotate dall’umore della terra da cui provengono, per essere comprese ad una prima lettura o alla luce della cultura che l’Europa, ancorché colta e preparata, è riuscita a sfornare. Credo che valga, mutatis mutandis, lo stesso discorso che vale per la narrativa di Garçia Marquez: ci troviamo di fronte ad un percorso iniziatico che può essere letto a diversi livelli, solo il primo dei quali accessibile, in chiave di pura intuizione poetica, al lettore che non sia anche iniziato. Come dire: la poesia è poesia, ed è di altissimo livello per giunta, ma appare anche chiaro all’orecchio attento come questa sia il rimando ad un retroterra culturale che è anche “magico”, sfuggente. La celebrazione della morte, in Mutis, è appunto una forma di rito, di ricomposizione antropologica prima che letteraria che serve per evocare qualcosa: uno spirito musicale, un alone misterico. Il metro, come si diceva poc’anzi, non c’è, oppure è posto in secondo piano: si sa che la letteratura latinoamericana mal sopporta le costrizioni di metro e di verso, e in questo Mutis si adegua, pronunciandosi con continui enjambement che tracimano dal verso per riversarsi in quello successivo e così via, fino a perdersi in una chiusa senza soluzione che conduce in un fiato fino al punto finale. C’è coordinazione e subordinazione nel suo verso. C’è gusto per il suono intrinseco della parola, e c’è dunque rispetto supremo per la parola, a scapito invece del suono più artificioso e insincero della rima, della figura di suono imposta. La parola si presenta invece come suono naturale: Un aire frio pasa sobre la dura concha de los crostàceos. Siamo oltre l’onomatopea, e siamo più propriamente nella figura di suono.
Non so se Mutis abbia letto Foucault, o se addirittura lo abbia anticipato senza saperlo, ma in Maqroll si dà esattamente la resa in poesia di quanto asserito dal linguista francese: “Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono” e poco prima: “[Il poeta] assolve alla funzione allegorica; sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate, si pone all’ascolto dell’”altro linguaggio”, quello, senza parole né discorso della somiglianza.” In questo breve assunto c’è tutto: prima della parola, che rappresenta già una fase concettuale, c’è un richiamo per così dire primitivo che risiede nel suono della parola. Il poeta pertanto segue un processo inverso a quello del linguista puro: scava nel suono per rendere l’idea senza bisogno di contestualizzarla, rende un pensiero senza la mediazione del concetto. Mutis è poeta in questo senso, perché mette da una parte la retorica, e assume su di sé il ruolo di mediatore tra il significante e il significato, privilegiando il primo dei due, e lo fa perché ritiene che sia questa la sua partita. Mutis è soprattutto un grande naturalista della parola, lo è specialmente nelle marine, e in questa operazione non c’è bisogno di rappresentare un’ideologia, perché l’idea è già contenuta nel soggetto – oggetto della poesia, ed è l’immagine naturale stessa.
Maqroll, secondo un’interpretazione un po’ arbitraria ma a cui mi è capitato di pensare, è all’opposto di tanta cattiva poesia per così dire politica che ha funestato ampi tratti del novecento: una poesia che metteva in primo piano una tesi, un messaggio a cui i versi servivano come sostegno per inculcare meglio la lezione. Non è di certo il tipo di poesia che preferisco. Mutis in questo senso inventa una terza via, ignorando gli accenti più insopportabilmente amorosi ed evitando qualsiasi genere di cascame per concentrarsi su un aspetto in particolare: la possibilità dell’uomo di vivere in un ambiente naturale che lo considera con indifferenza. Non c’è provvidenza, non c’è un logos, ma più semplicemente si vive in un ambiente che ci costringe ogni volta a misurarci con la nostra nullità, con la nostra totale impossibilità di sfuggire alle spire della nostra fragilità intrinseca.
“Tutto svanirà lentamente nell’oblio / e il grido di una scimmia, / lo sgorgare biancastro della linfa / dalla corteccia ferita del caucciù, / lo sciabordio delle acque contro la chiglia in viaggio, / saranno argomenti più memorabili dei nostri lunghi / abbracci.” La poesia è Un bel morir, e dice praticamente tutto sull’insignificanza per noi fondamentale che chiamiamo vita.

un modo per iniziare

L’ennesimo blog, e sono proprio io a farlo. Ennesima pagina inutile, per dare sfogo alla vocazione da giornalista di terza, o altrimenti detto commentatore culturale, opportunità che non riuscirò a realizzare e che pertanto surrogo in questo modo. Ne ho appena salutato uno, di blog, quindi questo Quaderno sepolto rappresenta una specie di discontinuità, un modo per riaffermare il diritto di cambiare, mio e di chiunque altro. Ho già pronti alcuni post che ho scritto durante l’estate ma che non mi sentivo di proporre sulla vecchia pagina: appartenevano già ad un’altra fase. Niente diario pubblico ovviamente, solo un quaderno di appunti e di commenti più o meno lunghi. Non intendo rispettare limiti di spazio, nemmeno in quanto a brevità.
Qui c’è nichilismo, iniquità, faziosità, bile nera. Passione culturale ovviamente, ma questa è una moneta che non paga.