visite

Con tutte le persone che un paese potrebbe invitare in visita ufficiale, noi scegliamo Gheddafi. E mica una volta, siamo già alla seconda, ad ogni occasione con il suo seguito da circo, il frizzi, i lazzi, i nani e le ballerine. L'aneddoto basterebbe da sé a descrivere in quale situazione versiamo, con quali personaggi abbiamo a che fare e con che tipo di finalità. Gli italiani in Libia, e in genere nelle trasferte coloniali, non si sono certo coperti d'onore, come del resto tutti gli altri paesi europei che hanno succhiato risorse dal continente africano. Ma a noi le scuse non bastano: sentiamo il bisogno di farci prendere in giro da questo personaggio, padrone indiscusso di un regime dittatoriale che va avanti da svariati decenni, con buona pace della libertà, di cui noi dovremmo essere campioni indiscussi, a giudicare dal nome del nostro partito di maggioranza. Ma d'altra parte ogni popolo segue il suo leader, e noi, anche in questo, abbiamo ciò che ci meritiamo: un presidente che si fa amico di chi può o di chi gli riesce: Putin, Gheddafi, tutti campioni di libertà e democrazia con i quali ci copriamo di ridicolo nella speranza di combinare qualche affarucolo o di ridurre i flussi migratori. E' una pagliacciata senza ritegno la visita di questo dittatorello da operetta nella capitale; la vanagloria di un piccolo uomo che non si fa troppi problemi a usarci come volano per alimentare la macchina della propaganda di casa sua. I cavalli, le amazzoni, la conversione fuffa all'Islam dopo una sua lezioncina di infimo livello: lo spettacolo vomitevole di una democrazia che si abbassa ad un ruolo giullaresco in nome dei vantaggi di qualcuno. Se ci fosse stato qualcun altro al governo le cose si sarebbero svolte in modo diverso? Saremmo riusciti a farci amico di qualcun altro o a fare perlomeno una figura più dignitosa? Difficile da dire. Se guardiamo i fatti e chi li ha causati però, scopriamo una straordinaria continuità: di modi, di pensiero, e anche di orizzonte politico. Uno dei molti cantori di regime finirà per dire che è stata una prova di "eccezionale coerenza".

passionaccia

Ma sono veramente così bravi i giornalisti italiani? A parte le inevitabili eccezioni statistiche, siamo sicuri che ci siano davvero utili e che servano a smuovere in avanti di un solo millimetro il nostro orizzonte? Ho forti dubbi. Il giornalismo è una pratica sempre più arroccata sulla difensiva, un universo chiuso, ad alto tasso di specializzazioni fuffa, con tanto di scuole e scuolette che rilasciano attestati, pergamene varie e altri ammennicoli che stabiliscono a tavolino chi può e chi non può dirsi del club. Ma a parte ciò, basta vedere come la maggioranza di cotale mondo non sia servita a niente quando c'è stato da mettere gli attributi sul tavolo: tra un gossip e una cagnetta incinta, tra una pinzillacchera sul caldo estivo e il freddo invernale, il senso stesso dell'inchiesta e di un mestiere sono andati persi in via definitiva, tanto che il nostro tragicomico paese annaspa in posizioni miserevoli in quanto a libertà di stampa. Che da un lato (quello del padrone) non è data, ma dall'altro (quello del giornalista) spesso nemmeno è richiesta. Non parliamo poi degli eroi che dalla carta stampata o dalla redazione di un tg balzano in politica: basta controllare su wikipedia: i giornalisti impegnati nei vari parlamenti nazionali e regionali sono un'infinità. Con quali risultati di grazia? Ma soprattutto: come possiamo accettare la commistione tra indipendenza di giudizio e la discesa in campo al fianco di un partito? Altro controllo: quanti degli appartenenti all'albo svolgono effettivamente attività giornalistica? Sono sicuro che le sorprese non mancano. In ultima analisi la professione del giornalista potrebbe dirsi ampiamente assorbita dall'attività dei blogger, gente quasi mai pagata che diffonde idee, che fa circolare notizie senza censure di partito. Tempo fa avevo ancora qualche riserva, ma ora sono giunto alla conclusione che il giornalismo vero ha cambiato faccia e anche luogo di diffusione: salvo rare eccezioni (penso a Report per esempio) ormai si sa dove trovare le notizie. Dove non c'è puzza di potere forte.

ma sì, polemica

Caro professor Lodoli che scrive per il sito di Tiscali, lei ha pienamente ragione: l'autodisciplina è importante. Gli artisti veramente grandi sono quelli in grado di costruire se stessi nel dolore e nella costanza dell'impegno. Tutti i più grandi hanno seguito questa via crucis: da Michelangelo, che immolò la schiena e la mobilità articolare per la Cappella Sistina, a Proust, che sacrificò vita e salute mentale alla composizione della Recherche. Ma la prego, non ce lo dica in questo modo. Metta da parte l'essere un professore e ci parli alla pari, da scrittore a lettore, da persona a persona; non ci faccia sentire in colpa per colpe che magari non abbiamo, ci esponga se può la sua opinione in modo chiaro e anche energico, ma senza quel tono cattedratico che ha avvelenato il sangue a tanti, che la fa apparire con il registro in mano e la penna rossa, pronto a segnare chi è buono e chi è cattivo, chi è bravo e chi merita un due secco. Perdoni la mia insistenza, ma sento la profonda necessità di farlo: quando lei scrive un post non è a scuola, non ci sta impartendo una lezione, e non tutti hanno la pazienza o il giusto grado di paternalismo per poterla approvare. Opinione di un lettore, per carità. Asino, per di più, e a suo tempo pessimo studente. Per colpa mia, per colpa anche dei suoi colleghi, mi creda. Sulla sostanza di ciò che dice, poi, sono completamente d'accordo. O quasi. Che male c'è a divertirsi per la competizione in sé? Che male c'è se uno non vince ma ottiene un risultato che lo soddisfa? Lei, per esempio, che sembra saperla molto lunga, che cosa ha vinto di importante? Mi creda, e glielo dico con tutto il buonumore che lei forse non approva, siamo già cazziati da tutte le parti anche senza le sue prediche, ancorché benefiche, ancorché impartite con spirito pedagogico. Vede, forse il problema è proprio questo: sono stanco della pedagogia, specie di questo colloso e saccente piglio con cui lei e tanti suoi colleghi mi hanno avvelenato il sangue e le idee. Fino a che non ho realizzato che la sua penna rossa era niente, e poteva essere spezzata in qualunque momento.

coccodrillo

Il panegirico, la rievocazione post mortem nostalgica, agiografica, assolutoria e chi più né ha più ne metta è uno spettacolo deprimente. E' anche un genere letterario, per carità, ma ciò non toglie che sia un genere ignobile. Il saluto al caro estinto ha in sé qualcosa di insopportabilmente cattolico popolano, da buon senso delle nonne, in cui il sano "non parlare male di chi non c'è più" è stato sostituito dall'esatto opposto, ovverosia il parlarne bene a forza, il rievocare, il reinterpretare, e nel peggiore dei casi l'ergersi a esegeti unici, autentici, ammiccanti, come quello al bar che la sa lunga e te la racconta lui la storia vera. In questa abnorme sviolinata cadono tutti. Cantanti, politici, uomini dello spettacolo. "Tutti dicevano: io sono stato suo padre purché lo spettacolo non finisca" diceva una canzone. Non conta più chi sei stato, che cosa hai fatto, come ti sei comportato, che cosa lasci dopo di te, conta solo quanto il telegiornale è in grado di incensarti, impalcando per te l'altarino votivo a cui tutti devono versare lacrima e obolo, pensierino da "si stava meglio quando si stava peggio" e un mazzo di fiori. Ma anche questo, a pensarci bene, fa parte della spettacolarizzazione commerciale a cui ci ha ridotto l'attuale sistema televisivo: un mercimonio senza ritegno, dove anche un feretro può servire a piazzare una televendita in più, e dove le parole non hanno più senso e ci si può permettere di dire qualsiasi cosa, certi dell'oblio, garantiti dal velo di ipocrita dimenticanza che ha avvolto più o meno ogni residuo di critica. Ma d'altra parte il tanto desiderato processo di involuzione mentale che vede protagonista il popolo italiano necessita anche di questa tappa. Che non è peggiore o più umiliante di tante altre: è solo una fisiologia conseguenza.

rileggendo Céline

L'odiato Céline, lo scrittore controverso, il medico alla deriva, l'antisemita senza ragione. Mille facce, mille guai. Esistono opere critiche che provano a catturarne lo sguardo acuto e disperato, ma senza grande successo: nello scrittore francese c'è sempre una lacuna, sempre un riporto che non torna, come se la somma degli addendi fornisse sempre un risultato diverso, ora attendibile ora assolutamente improbabile. Céline è il senso del popolo letto dal suo interno, come notò Sebastiano Vassalli, e per questo motivo la sua scrittura si fa tanto più feroce tanto più inserita negli eventi, come una macchina dotata di ragione che capisce, interpreta ma non può sottrarsi al movimento meccanico. E' sostanzialmente un narratore dell'infamia umana: la sua ragione è presente dove il contesto è più turpe, in una girandola di sensazioni (fisiche e di riflesso linguistiche) sempre più degradate, per così dire sfilacciate: alla fine, in Rigodon, la lingua di Céline è un palpito o poco più, un aggregarsi precario di significanti, di allusioni, che nulla hanno a che vedere con il metalinguismo di Joyce o Gadda, ma con una materia meno ingegneristica e più calda, frutto non tanto di una scelta stilistica, quanto piuttosto di un obbligo emotivo. Céline vive di questi soprassalti: rabbiosi, onirici, completamente straniati. Eppure ad alta gradazione comica. Comica, sì. L'analisi spietata della realtà diventa amaramente divertita proprio dove l'immondo si confonde con il futile e il terribile. L'orrore, in Céline, è smitizzato, ridicolizzato. Perché immerso nell'umano. Non c'è un Dio cattivo, e, forse, nemmeno persone cattive. C'è solo un'umanità ottusa, stupida, che nella sua smania di cose inutili, di orpelli, di un distorto senso della dignità, calpesta, uccide, tracima da sé. Viaggio al termine della notte, ma anche Morte a credito sono questi affreschi lividi e opprimenti: sono grandi metafore di un caos casuale che possiede la natura degli uomini. Ecco perché il Céline narratore è fatalista e assolutore: c'è rabbia in lui, ma anche disincanto. Sa che è così, che non potrebbe essere altrimenti. "Di noi se si conserverà la parola merda sarà già una gran cosa." La sua bestemmia non è urlata, ma sommessa, e quindi tanto più sentita.

i bei vecchi tempi

Si scriveva qualche tempo fa delle formulette iterative, così frequenti nel linguaggio comune di politici e giornalisti ("tornare a crescere, ritornare ai tempi in cui, ricominciare a correre, ritrovare, recuperare..."). Un altro tic che penso sia altrettanto in malafede riguarda l'esaltazione delle patrie glorie, ovverosia persone illustri e istituzioni. Siamo sicuri che tutta questa pletora di vecchi arnesi e consunti drappi sia davvero qualcosa di cui bearsi e vantarsi? A potersi permettere un'adeguata difesa legale, sarebbe divertente fare nomi e cognomi: non potendo si può invitare ad andare a spulciare su wikipedia qualche biografia eccellente: presidenti, alti funzionari, grand commis. L'esercizio potrebbe rivelarsi più salutare del previsto: tolta la retorica che ci ammorba, scopriremmo pochezze umane e sottoumane veramente notevoli. Sua eccellenza militesente che si vede conferire gradi (ancorché onorifici) da ufficiale, un vetusto signor nessuno che ha più stelle di latta che capelli, un altro che colleziona titoli ad honorem, un burocrate venerando che si scopre non ha mai ottenuto una nomina per concorso. Ma non solo: c'è l'insigne economista laureato in lettere, quello che è diventato magistrato a 21 anni, quello che ha avuto una cattedra universitaria a 23, e via discorrendo. Un poco alla volta viene a galla un panorama minuto, di piccola gente alle prese con vanità personali, amicizie, favori. Il fatto che personalmente mi ha colpito è che quasi tutti questi campioni patrii, stringi stringi, nella loro vita non hanno fatto che occupare sistematicamente il potere. Si sono nutriti di potere, lo hanno preteso, lo hanno usato. Monumenti viventi, istituzioni appunto. Tra un osanna e l'altro mai nessuno che ricordi la situazione in cui viviamo, che per buona parte è dovuta ai mali mai risolti di ieri, quando il debito pubblico dilagava e i soldi di tutti finivano nei buchi neri del malaffare. Quando in sella c'erano le venerabili vecchie glorie appunto.

power

In questo placido e mansueto agosto, con l'informazione di Stato che sta tirando i residui remi in barca e si sta affrettando a insabbiare scandali e scandaletti (leggi P3 e altre derive poco romantiche sparite dai palinsesti dei tg) mi viene spontanea una riflessione: chi sono questi poteri occulti? Leggendo i giornali e scartabellando internet il ritratto che ne emerge è da un lato inquietante, perché si tratta di un potere immenso, ingiustificato e incontrollato, ma dall'altro riserva anche una certa dose di grottesco degno del teatro delle maschere. Il Potere in Italia, infatti, è irrimediabilmente buffo. E' un potere vecchio, con la pancetta, tinto in modo improbabile, arroccato in ville damascate e quindi irrimediabilmente pacchiano, confusamente kitsch. E' un potere gestito da salumieri o poco più: gente furba, incattivita, avida, ma quasi mai intelligente e meno che mai colta; queste consorterie amministrano soldi e beni dal tavolaccio di una trattoria, davanti ad un abbacchio fumante, leccandosi le dita e ruttando. Anche le intercettazioni disponibili non fanno che rimarcare i tratti di questo universo minuto, lontano anni luce da qualsiasi dubbio etico, da qualsiasi senso della responsabilità o anche di un più basico senso del pudore, dove questi signori fanno sfoggio di un italiano sgangherato e gergale, che insieme alle discussioni da bar dello sport serve anche a muovere danari e commissioni, appalti e favori. Ma in torto, evidentemente, sono tutti coloro che si dannano l'anima a rivendicare fondi per la ricerca scientifica, per lo sviluppo culturale, per la valorizzazione del patrimonio artistico: non tengono conto di chi ha in mano i cordoni della borsa, squali attempati che se ne sbattono di tutto, assestati con non poco orgoglio agli antipodi di qualsiasi cultura.

letture estive

Il venerabile Sole 24 ore ha chiesto ad un po' di gente a caso di consigliare letture estive. Mi autoinvito all'evento, in quanto elemento non meno casuale degli altri.

Improvvisi per macchina da scrivere, di Giorgio Manganelli: nella costosa edizione Adelphi, gli articoli, gli elzeviri, le improvvisazioni calcolate dell'intellettuale milanese apparse su riviste e quotidiani nel corso di una dozzina d'anni. Da leggere per capire il valore della parola, della polemica appassionata e costruttiva. Ma anche per gustare il piacere sottile del paradosso, della presa di posizione antirazionalista eppure perfettamente plausibile.

Racconti, di Guy de Maupassant: io ho una consunta edizione Garzanti, essenziale ma con un apparato critico più che accettabile. L'estroso scrittore francese dispiega i suoi mezzi d'artista in una cavalcata attraverso i temi a lui più cari: la casualità, la morte, la follia. Basterebbero forse solo questi lampi narrativi per definire l'autore di Bel Ami un mostro sacro della letteratura. Satiro stanco e amante del compromesso, scettico nato ancora disposto a provare pietà per il generale squallore della vita.

Poesie, di Sandro Penna: nella consueta collana Garzanti, l'intero corpus dell'autore romano. Un intreccio di sentimenti minimali eppure complessi, densi e leggeri, fatti di sensazioni a pelle, derive mistiche e bruschi ritorni ad una sensualità ora lieve ora grezza. Poeta della sofferenza e della negazione, Penna è rimasto confinato, nonostante la robusta produzione critica a suo favore, in un ambito minoritario, sul limitare della poesia che conta. Misteri dell'editoria. Ma la vita di un poeta è sempre dominata dal mistero. Diffidare di quelli che hanno avuto un'esistenza comoda.

Il ponte sulla Drina, di Ivo Andric: romanzo lento, avvolgente, descrittivo. La vicenda del popolo bosniaco raccontata attraverso le vicende di un ponte, luogo strategico e di passaggio per eccellenza, crocevia, zona di scambio. La Bosnia alle sue radici, in un crogiolo culturale ed etnico in bilico tra oriente e occidente, tra Cristianesimo e Islam. Una lettura non facile, forse poco da ombrellone, ma alla lunga seducente, capace di contagiare con la sua ambizione ma anche con la straordinaria carica umana che diffonde. Edizione Mondadori per tutte le tasche.

per Roberto Baggio



Quando non sanno più che pesci pigliare, e quando hanno voglia di una scarica di pubblicità gratuita, chiamano sempre lui, Roberto Baggio. Non so se in federazione gli lasceranno le mani libere e la possibilità di realizzare il progetto che ha in mente, ma so per certo che Baggio lascerà non appena avrà la sensazione che i conti non tornano, che il suo è un ruolo meramente nominale e non operativo. Perché Roby è stato questo lungo tutta la sua carriera: un puro. Lo si sente, lo si vede, anche adesso che non è più un ragazzino e gli anni gli hanno imbiancato le tempie. Non è stato solo il più forte calciatore italiano degli ultimi vent'anni: è stato un campione generoso, di quelli, pochissimi nella storia del calcio, capaci di rendere migliori anche gli altri, di trasformare dei buoni elementi in campioni, di far girare le squadre intorno a lui come un maestro l'orchestra. Baggio il mito, Baggio il bistrattato: brutalizzato dalla sorte che non gli ha dato tregua sotto forma di infortuni a ripetizione, dagli allenatori che lo hanno utilizzato poco e male, da tutto un ambiente calcio che per troppe volte si è illuso di poter fare a meno di lui. Ma per spiegare la mitologia del Codino non bastano le gesta sublimi in campo, serve anche altro: serve una panoramica sull'uomo. Come disse Mazzone: "Un ragazzo educato" che con il calcio ha guadagnato tanto, ma briciole al confronto di certi grandi speculatori multimilionari di questi anni e che sul finire di carriera ha avuto il coraggio e l'entusiasmo di accettare l'ingaggio di una piccola squadra, quel Brescia dei miracoli che puntava alla salvezza e che lo vide regalare le sue ultime giocate d'autore prima di congedarsi, con onore, con dignità, da un mondo che senz'altro gli aveva dato tanto ma a cui lui aveva dato veramente tutto. Ho seguito Roberto nell'arco di tutta la sua carriera, quando ancora ero un appassionato. Non ci voleva molto per capire che non era come tutti gli altri, che ogni suo gesto, ogni sua movenza in campo era un atto di libertà che si fondeva con la gioia di giocare, e quindi di essere al mondo; era un messaggio di speranza il suo, e un profondo atto d'amore nei confronti dello sport e della vita. Questi valori emanavano da lui in modo percepibile: forse per questa ragione è stato uno dei calciatori più amati di sempre. Era chiaro che non era solo una questione di ingaggi e di vile moneta, quelle squallide contropartite che hanno avvelenato il sangue a questo sport e che lo hanno reso frivolo, inutile, sempre più banale.

intellettuale militante

L'intellettuale militante è l'uomo di pensiero che non appartiene all'accademia. Milita, come dice la parola, in territori pericolosi, al margine del mondo autoreferenziale di toghe e buffi copricapi. Ha un rapporto diretto con i lettori e con altri intellettuali, perché è un'anima esposta, che non ha protettori, padrini, sindacati, guardaspalle. Non ha nessuno, se non la sua coscienza e la sua libertà d'azione: che è teoricamente illimitata, ma che si scontra quasi sempre addosso ai muri delle consorterie, delle lobbies, delle trame di potere. L'intellettuale militante appartiene ad una specie in crisi. In Italia ne abbiamo avuti di grandissimi, oltre a Calvino, Moravia e via discorrendo, ci sono stati Flaiano, Manganelli... Oggi penso a Goffredo Fofi, ma insomma, la carica si è via via sfoltita, falcidiata dalle entrate a gamba tesa di uno stato ipertrofico, che anche quando si dichiara liberale non fa che aumentare carte bollate, certificati, specifiche e in generale steccati su steccati. La cultura parcellizzata, la cultura dei corsi e degli attestati di frequenza è un modo come un altro di estendere i controlli e di imporre un pensiero unico e inamovibile. Sarà sempre peggio perché gli intellettuali di domani non sapranno più nemmeno distinguere una cultura di stato da una cultura libera e creativa: e l'intellettuale diventerà sempre più spesso cortigiano, o semplicemente automa, incapace di pensiero autonomo, di elaborazione personale e critica delle informazioni. E il bello è che nessuno fa niente: non una voce che si levi, reclamando dignità ed elementare diritto di esistere, non una voce dissonante. Sono tutti perfettamente nel coro, ammaestrati a ripetere la loro parte e solo quella, magari accarezzati dalle lusinghe di un rettore o di un qualche potente. In questo ragionamento una mano mi viene offerta curiosamente da un accademico: uno di quelli illuminati però, tant'è che è morto e sepolto da un pezzo. Scrive Isaiah Berlin nel suo saggio Le idee politiche del ventesimo secolo: "... gli scettici, i liberali, gli individui che amano ritagliarsi uno spazio privato e seguire modelli di comportamento propri, interiori, se non si preoccupano di identificarsi con qualche movimento organizzato sono temuti o derisi o perseguitati da entrambe le parti ed esecrati o disprezzati da tutti gli eserciti in campo [...] Nel mondo di oggi la stupidità e la malvagità sono perdonate più facilmente della mancata adesione a un partito o a un atteggiamento riconosciuto, o del mancato conseguimento di uno stato politico, economico o intellettuale accettato." Eravamo nel 1950.

il mio Calvino



Propongo la prima parte di un breve saggio su Italo Calvino che sto scrivendo


Come purtroppo accade di frequente, il peggior servizio ad un autore è il suo stesso pubblico a renderglielo. Giudizi acritici, citazioni non necessarie, elogi fuori contesto; così la massa di lettori spesso contribuisce a confondere le acque circa un autore e la sua reale dimensione, piccola o grande che sia, deformandola con parametri ora inadeguati ora semplicemente fuori luogo. E’ più o meno quanto accaduto a Italo Calvino, scrittore molto amato e poco letto, detentore di larga fama ma spesso a fronte di cattivi esegeti, falsi amici o peggio ancora lettori della domenica. Italo Calvino ho tardato a capirlo. Credo che la causa di ciò sia stata proprio l’aura zuccherosa e mediocre che i suoi agiografi gli avevano cucito addosso, cercando di fare di lui un mito, un ideale letterario quando sarebbe stato più utile, e probabilmente meno fuorviante, lasciare che la sua memoria si sedimentasse per ciò che era e che è: memoria di scrittura e di vita. La cattiva critica infatti rischia troppe volte di assumere su di sé anche il lavoro diretto sul testo, inducendo il lettore a fare a meno della comprensione diretta, per lasciare che sia il critico, o il cattivo critico in questo caso, a guidarlo in una visione intellettuale già confezionata, o perlomeno già inquadrata in un predeterminato orizzonte semantico.

La lettura di Calvino si presenta difficoltosa proprio per questa doppia lettura: quella già complessa e intricata della sua opera, e quella capziosa e quasi mai pertinente della sua critica, che ha amato inquinare le acque proponendo, di volta in volta, un Calvino strutturalista, poi avanguardista, poi ancora postmoderno. Fino alla beffa finale, quella che pretendeva di definirlo uno “scrittore matematico”. Il filtro dell’ideologia letteraria ha fatto il resto, ostinandosi a richiamare schemi e diagrammi con cui spiegare Calvino alla luce di un Verbo, di una Somma Chiave di Lettura. Niente di più sbagliato, specie con uno scrittore come lui, che ha imperniato la sua produzione letteraria sulla pluralità dei generi, anzi, di più: sulla completa e perfetta permeabilità testuale.

Calvino infatti non ha seguito un genere: lo ha plasmato, lo ha ricreato in una serie di frammenti che poco o nulla avevano a che vedere con il già visto o con lo sperimentato, pur non rinnegando mai del tutto l’origine stessa della sua scrittura: quel magma incandescente che rifluiva dalle ferite della guerra e che accomunò, seppure con esperienze e modi diversi, altri autori, da Fenoglio a Parise a Silone. E così lo scrittore nato a Cuba poté permettersi di spaziare tra i generi, senza mai legarsi a nessuno di essi. A partire dall’esordio, Il Sentiero dei nidi di ragno, fino alle ultime prose quasi intimistiche di Palomar Calvino ha percorso un sentiero che non prevedeva gabbie strutturali né tantomeno formali: il suo è stato un cammino libero, curioso, che ha preso spunto da ciò che riteneva meritevole di attenzione e che non è mai stato sfiorato dal pregiudizio o dal luogo comune.

Adesso posso dire di aver capito qualcosa di lui. Ora che, con attenta e paziente rilettura, sono credo riuscito a rimuovere quel velo di stantio, di bugiardo e di agiografico che aveva appannato il suo lascito umano e culturale. Si è trattato in fondo di una resa dei conti tra la mia visione dei fatti e quella imposta dall’industria culturale e scolastica, che spesso si affanna a imbrogliare le carte e a offrire ricostruzioni parziali o di comodo di realtà molto più complesse.

La molteplicità delle istanze a cui Calvino si rifece non possono essere incluse in un metodo o in un’unica corrente di pensiero: la sua qualità maggiore era forse l’innata abilità combinatoria, che gli consentiva di rimescolare le carte e a proprio piacimento, attingendo da più fonti e da più generi: dalla fiaba (fu curatore de Le fiabe italiane) alla fantascienza apologetica de Le cosmicomiche, dall’impegno politico letterario della sua produzione saggistica alla minuzia descrittiva de Le lezioni americane e Palomar. La forma romanzo, insomma, non è ciò che lo caratterizza maggiormente. Non lo fa perché paradossalmente (ma non troppo) Calvino avvertiva come limitativa quella che sembrava essere l’unica valvola di sfogo di ogni pulsione letteraria e civile dell’Italia del dopoguerra. Non si accontentò, andò oltre, scavando e cercando nelle pieghe della narrazione storica de I nostri antenati o ancora, in epoca più tarda, dell’opera aperta di Se una notte d’inverno un viaggiatore, prosa a tratti cervellotica e spiazzante di ambizioni smisurate e però in misterioso e inspiegabile equilibrio.

Ma detta così potrebbe far pensare ad un alchimista della parola. Le cose non stanno esattamente in questo modo: Calvino era uno scrittore che rispettava la parola proprio perché ne conosceva il valore, sapeva come trattarla e come metterla a disposizione del lettore, accompagnandolo in un gioco di specchi continuo, di detti e contraddetti, di rimandi e di sottigliezze che sono, nella sua ottica, la vera impalcatura della letteratura. Un gioco di immensa serietà, ma anche un labirinto mendace, fatto per trarre in inganno e tendere trappole. C’è qualche somiglianza con l’ultimo Borges, almeno in questo. Ma non solo. L’intera opera omnia dello scrittore ligure viaggia su binari per così dire paralleli all’intera produzione letteraria novecentesca: ci sono rimandi al cosmopolitismo francese, alla scuola americana di science fiction ma anche ad una certa attitudine tutta sudamericana a ricreare mondi, pur senza cedere alle tentazioni dell’idealismo magico.

Ci sono anche dei grandi antagonismi nella vita di Calvino, per quanto la critica in merito abbia sempre adottato fin troppe precauzioni: il primo riguarda un quasi coetaneo dello scrittore: Beppe Fenoglio. Partigiano molto più di lui, eccentrico quanto lui ma su binari diversi, con ideali e aspirazioni che forse solo con il tempo si sarebbero rivelati per ciò che erano. Fenoglio morì troppo presto. La sua scrittura presenta solo un abbozzo di curva, di deviazione, di evoluzione verso un altro stadio: ne Il partigiano Johnny, in cui mette a punto uno stile interamente suo, sulla falsariga americana ma per così dire sporcato dall’attitudine sanamente provinciale dell’autore. Fenoglio e Calvino: il primo enigma che la critica dovrà sviscerare una volta per tutte. In che rapporti stanno le loro esperienze letterarie? Perché questa contrapposizione così evidente che pure parte da un dato comune: l’esperienza della guerra partigiana? Badogliano Fenoglio, comunista Calvino. Sanguigno e destrutturato il primo, multiforme e all’apparenza svagato il secondo. Anche Calvino cominciò tirando pugni allo stomaco, con Il sentiero, ma poi virò quasi subito verso una scrittura più di rimando, più indiretta, amante delle miscele e dell’analisi a freddo. Non fu così per lo scrittore di Alba, del quale però è difficile esprimere un giudizio completo e sereno, a fronte della sua tragica e prematura scomparsa.

Il secondo parallelismo è avvenuto vent’anni più tardi, e fu peraltro notato da un critico acuto e non schierato come Cesare Garboli, quello tra Se una notte d'inverno un viaggiatore e L’odore del sangue, di Goffredo Parise. Di quest’ultimo ho già scritto qualcosa, ed è inutile che ripeta che L’odore del sangue per me è una pietra miliare del romanzo italiano del novecento. Uscirono quasi in contemporanea i due libri, sul finire degli anni settanta, ed entrambi avevano alla base un sentimento comunque: quello della solitudine del singolo. Lo studioso di Calvino e lo psicologo di Parise. Sono due figure agli antipodi, che denunciano una differenza di carattere prima ancora che di modalità letteraria: poliedrica la prima, disperata la seconda. Qui Calvino e Parise sono agli antipodi di una forbice che taglia in due la storia letteraria contemporanea, che la recidono e al tempo stesso la risolvono, o tentano di farlo: attraverso la fantasia combinatoria per quanto riguarda Calvino, che ci suggerisce una volta per tutte quanto la forma romanzo sia in realtà un effetto visivo e con essa tutta la realtà di cui siamo soliti cibarci, e attraverso la cronaca psicologica Parise, che non fa più nulla per nascondere il mostro nichilista che aveva covato in sé per tutta la vita. I due romanzi sono due modi di vivere la letteratura, e al tempo stesso sono un testamento spirituale dei rispettivi autori: per entrambi è l’ultimo romanzo. Parise lo sapeva, Calvino probabilmente no, anche se dall’estremizzazione del canone che fa nel Sentiero si evince una certa sfiducia nella forma romanzesca, sfiducia affiorata qua e là nel corso della sua carriera che qui trova il suo punto conclusivo e la sua espressione più radicale.

In quel 1979 si consumò una piccola rivoluzione che fu compresa solo molto tempo dopo: due autori che si erano guardati con sufficienza nel corso di tutta la loro carriera si trovarono ad essere la cartina di tornasole di un’intera fase storica e storico letteraria italiana. Nessuna sfida, nessuna tenzone: solo un reciproco guardarsi allo specchio, in attesa che il mondo crolli.

Il discorso, naturalmente, andrebbe trattato in modo più ampio. Calvino può essere compreso anche attraverso il confronto e il dialogo che la sua opera ebbe con le opere degli altri, con i momenti storici in cui affondano le radici i suoi lavori. E’ un’operazione filologica che spesso è stata condotta con troppa superficialità o che addirittura non è stata nemmeno accennata. Solo così si potrebbe spiegare l’assurda sintesi con cui si presentava un pamphlet di qualche tempo fa: Calvino scrittore matematico. E tutto per via della passione astrofisica che colse un uomo e un autore, alla continua ricerca di materiale espressivo e di nuove forme entro cui dare sfogo alla propria vena immaginifica.

Calvino da un certo punto di vista è stato vittima di quella spiacevole moda, ancora presente nella critica di oggi, di dare un nome a tutto, di classificare con una qualche pretesa di scientificità quella che alla fine è materia narrativa, e quindi fluida per eccellenza. D’altra parte il talento combinatorio di Calvino sembra nato apposta per dare dei dispiaceri a qualche analista testuale, che in passato non ha trovato niente di meglio da fare che sezionarne i testi partendo da presupposti per così dire strutturali più che complessivi. Ma un’opera non è un trattato. Un’opera è un concentrato, una summa, o anche una sottrazione di elementi eterogenei, che si muovono, si scambiano, procedono per balzi e per negazioni, senza per questo incorrere in contraddizioni o in equivoci. La scrittura di Calvino ha cavalcato i generi senza rimanerne ingabbiata: li ha usati, ma al tempo stesso li ha analizzati, offrendo ai lettori delle interpretazioni ora nuove ora ironiche, e l’ironia, in Calvino, è un capitolo che deve ancora essere scoperto quasi per intero.

Il mio Calvino, si diceva. La chiave di lettura sta pressappoco in una parola: molteplicità. Di forme, di contenuti, di idee. L’opera è sempre aperta, si aggiorna ai gusti e ai tic del lettore, ma senza mai blandirlo, senza mai dargli quello che si aspetta, ma anzi pungolandolo, stimolandogli riflessioni e altri punti di vista. Non ho usato fin qui la parola sperimentalismo, perché credo sarebbe ingiusta, e soprattutto parziale: lo sperimentalismo in Calvino c’entra e non c’entra, allo stesso modo in cui l’autore ligure può dirsi alquanto eccentrico rispetto alla moda letteraria del secondo dopoguerra. In Calvino si può dire che tutto sia al tempo stesso ricerca, e quindi anche sperimentazione, ma ciò senza incorrere nell’uso corrente che si è fatto della parola, troppe volte citata con facilità nei contesti più diversi. Sperimentazione in Calvino è ricerca stilistica ed espressiva: è una conquista che si fa a scapito del luogo comune, attraverso un attento lavoro di analisi e di scomposizione. In questo sta tutt’al più la sua scientificità: in una costante rielaborazione dei modelli, siano essi cavallereschi come ne I nostri antenati, siano essi di natura fantastica come ne Le cosmicomiche.