In morte di Diego Armando Maradona


La prima immagine che mi viene in mente è quella della fine: Diego che urla demoniaco verso una telecamera a bordo campo dopo un goal difficile e magnifico contro la Grecia, in un torrido pomeriggio americano, durante l’improbabile mondiale di Usa 94. Canto del cigno, cuore messo a nudo: in quell’azione martellante dell’Argentina forse più forte (e perdente) di sempre c’è tutta la parabola finale di Diego. Ubriacatura di tocchi di prima a squadernare la difesa ellenica e poi il suo sinistro: curvo appena il necessario, essenziale come la geometria euclidea. Un goal perfetto, semplicemente perfetto. Altro che doping. In quella necessità balistica c’è l’addio a un mondo, a un modo folle di intendere il calcio. Dopo saranno ritorni fugaci, in un triste entrare e uscire di scena ora obeso ora tatuato, ora allenatore di squadre strampalate ora uomo politico improvvisato amico di Fidel e Chavez. Senza mai trovare uno scopo e soprattutto senza mai trovare pace. Ma a che serve essere altro quando sei Maradona? Lui il calcio lo aveva come scienza infusa. Lui che era mancino e basta, che si allenava poco e male, che fu sempre invischiato con il doping, quando la cocaina si sa che serve solo a diventare più stupidi, non certo a migliorare le prestazioni sportive. Diego è un’emozione non inferiore a quella dei grandi artisti. Non lo giudico, perché forse non lo capisco neanche: gli voglio bene e basta. Diego non si può comprendere misurandolo con il metro del sarto. Quello che il genio calcistico argentino ha rappresentato e rappresenta non è calcolabile in una statistica, né tantomeno nei biasimi moralistici di qualche bacchettone che viene a insegnarci che una vita non si spreca così. Allora forse è vero che solo gli altri artisti e gli analfabeti sanno capire un artista, senza bisogno di farci la solita pappardella sul bene e il male. Un artista al massimo sa fare del male a se stesso e anche in questo Maradona è stato un maestro indiscusso. Pretendere di ingabbiarlo in una statistica significa non aver capito niente del calcio e forse della vita.

Lui è stato l’allegria del popolo e non ha mai chiesto di essere un dio. Il calcio è uno sport semplice, che fa felice la gente, ed è giusto e sacrosanto che il calcio sia così amato. Un calcio in crisi è segno di una società sofferente, di uno sport sofferente, visto che è grazie al calcio e alla sua popolarità che altri sport meno seguiti possono sopravvivere; non sarebbe male ricordarlo. 

E Diego di questo romanzo popolare è stato il massimo interprete. Nessuno con il suo carisma, nessuno con la sua genialità. 

Con Diego finisce l’era dei miti. La sua generazione era anche la generazione degli Ayrton Senna, dei McEnroe e dei Borg: personaggi omerici su cui era possibile scrivere un romanzo. Oggi non è che cronaca. Trafiletti di gossip, tatuaggi, scemenze su Instagram. Le starlette sportive di oggi non sono niente rispetto a questi titani tutto istinto e sangue. 

E allora la solita, retorica domanda: come è possibile scindere il demone del genio da quello della distruzione? Domanda retorica, ma di una retorica meno spregevole di quella dei sepolcri imbiancati che pretendono di vivere con il bilancino del farmacista. 

E allora mi viene in mente un’altra immagine. Diego su un campetto di fango e sterpaglia di Acerra, nel 1985. Gioca con dei ragazzini. Senza guardie del corpo, senza cordoni di sicurezza, senza sponsor, senza soldi. Diego è scarmigliato, infangato e bellissimo. Non ha bisogno dell’estetista né di un ufficio stampa: nella società ingorda ed evirata di oggi non vedrete mai nessuno sportivo, nemmeno di infimo livello, fare qualcosa del genere. Diego sì. 

Non c’è altro da dire.