i perché democratici

So che non sono affari miei, ma spero davvero che i repubblicani americani non vincano le prossime elezioni. Mi viene da dire così, senza grandi studi sociologici alle spalle, senza grandi sondaggi demoscopici, senza troppe analisi politiche. Spero che vinca Barack Obama, l'attuale presidente degli Stati Uniti, perché è una brava persona, perché ha dimostrato coraggio, perché non è ricco (non sarà politicamente corretto dirlo, ma sono stufo dei bizantinismi), perché non ha conti cifrati nei paradisi fiscali, perché non è razzista, perché è colto, perché ci crede, perché non crede che la terra sia piatta, perché lui Galileo non l'avrebbe costretto all'abiura, perché rispetta chi non la pensa come lui, perché crede che anche chi ha di meno abbia diritto a vivere. In sintesi, perché è meglio della media degli esseri umani. So che questo dettaglio non giocherà a suo favore. E allora la domanda parte automatica: come fa la gente a votare la destra conservatrice? Guerrafondaia, protezionista, che ha prodotto mostri come Sarah Palin e compagnia, che difende l'uso delle armi oltre ogni ragionevolezza, che ha in spregio lo Stato come garante della vita pubblica, che sogna un far west dei più forti, furbi e ricchi? La domanda è ingenua, ma le risposte non lo sono altrettanto. Puntare sull'intelligenza di massa è sempre un rischio, una sfida. Solleticare le paure e i pregiudizi è molto più comodo. Basarsi sulla naturale diffidenza della media della popolazione significa andare sul sicuro: un po' di populismo, un po' di sorrisi finti, dosi da cavallo di retorica e la ricetta è sempre valida. Dire di essere il popolo migliore, di togliere le tasse, di far galoppare non si sa come l'economia (e si è visto come è andata a finire) è paccottiglia; aprire un dibattito sulla sanità pubblica, rimettendo in discussione gli errori del passato e la vecchia legge della giungla, ha tutto un altro spessore. Da una parte la solita tiritera qualunquista e retrograda, dall'altra uno sguardo al futuro partendo dal presente (dal presente, non dal Boston Tea Party). Un piccolo gioco che forse può a aiutare a inquadrare la questione può essere il confronto tra le first ladies: Michelle Obama rispetto alle Barbie parruccate un po' massaie un po' amiche del circolo del bridge che si sono succedute al fianco dei vari presidenti repubblicani. Ci pensino gli elettori a indovinare le differenze. 

provincia capitale

Girando per la provincia, che qualcuno non a torto ha definito "la vera capitale morale d'Italia", anche il più sprovveduto dei passanti capisce come gli italiani, in realtà, non abbiano tanto problemi con l'inglese, quanto con l'italiano, nel senso che la lingua di Dante, quella con cui i professori si baloccano e che le istituzioni sviliscono, è un retaggio formale. La lingua viva è un'altra: è il dialetto italianizzato, sporcato da qualche incursione esterofila, agitato come il vessillo della propria vera identità. E con il dialetto in bocca alle madri e ai bambini - succhiato con il latte, irrorato dal sangue - si capisce la vera dimensione italiana, che non è quella della Roma statalizzata o della Milano bene, ma che è quella dell'utero locale e dello strapaese. La cultura ufficiale, quella delle scuole di massa e del centralismo, non ha in fondo nemmeno scalfito il tratto fondamentale del DNA italiano, che su un altro versante, in sintonia quasi perfetta con la profezia pasoliniana, ha ceduto il passo solo all'omologazione commerciale, ai prodotti della grande industria, che ci ha messo d'ufficio le stesse scarpe e le stesse magliette, ma che nulla ha potuto con alcuni meccanismi intimi dell'italianità, quali per esempio il familismo, l'accento pesante usato come una clava contro il forestiero o la suddivisione in clan. Ad una omologazione dei comportamenti (i vestiti, gli aperitivi, le auto, le vacanze, i tatuaggi e via dicendo...), della cultura (la scuola come spacciatrice di sapere standardizzato), e della lingua franca (l'italiano medio della televisione e delle istituzioni), non è corrisposto, per il momento, il livellamento della lingua privata, di quella che si sente sulla pelle, e che resta sempre il gergo, il gesto intraducibile, la grammatica degli iniziati. Fino ai risultati comici delle ragazzine che cantano il pop anglofono con l'accento veneto, tanto per buttare lì un esempio. Che cosa accadrà in futuro è ancora tutto da vedere. L'italiano medio trionferà nella forma privata come ha già fatto nella forma pubblica? Probabile, ma resta da vedere in quanto tempo otterrà il risultato. Ci sono zone d'Italia dove l'assorbimento linguistico anche delle generazioni più giovani chiederà tempo e sforzi immani, sforzi che nemmeno i brutti programmi televisivi degli ultimi vent'anni sono riusciti a mettere in campo. 

sulla pelle

E' notizia di questi giorni che L'Esercito Italiano sta dando un giro di vite sulla presenza di tatuaggi tra i militari. Cosa resterà tra un po' di anni della distesa di pelle disegnata, colorata, spesso solo imbrattata dall'italiano contemporaneo? Forse un affare per i professionisti che decideranno di specializzarsi nella rimozione dei tatuaggi, come insegna il mio previdente dentista. O forse solo il segno tangibile di un'epoca di raro conformismo, dove perfino il segno, il marchio che un tempo serviva a rendere unici, ora vale come certificato di omologazione. Non è un caso, credo, che gli italiani siano il popolo più tatuato d'Europa, e non per l'appartenenza ad una élite marinara o ad una società segreta, ma per il più puro dei narcisismi: quello di ipotecare persino la propria pelle pur di essere notati, di essere qualcuno in una terra in cui tutti ci provano e quasi nessuno è qualcosa. Non lo dico per fede aristocratica (io, poi), ma per lo sconforto di vedermi circondato da un'estetica da supermercato dove tutti hanno deciso di stamparsi l'uniforme addosso, casomai non fosse sufficiente la già copiosa dotazione vestiaria e oggettistica che già si è premurata di rendere l'uguale ancora più uguale. E poco importa se l'intenzione era quella di esternare una parte privata di sé: nel momento in cui la parola passa all'epidermide il sé si stempera fatalmente nel brodo tiepido in cui tutti sguazzano, nella volgarità del pensiero unico, nella falsa ribellione di una pratica che non è più contro qualcosa, ma in conformità di qualcosa. Quasi un certificato di adesione incondizionata, e perlopiù inconsapevole, visto che temo che per i più il fatto di scarabocchiarsi addosso ragnatele, date di nascita (la propria!) in numeri romani e melensaggini in inglese costituisca ancora un motivo di vanto, di affermazione del proprio io. Un mio conoscente, qualche tempo fa, si è lasciato tentare, e, superata la trentina, ha pensato bene di imprimersi sul costato una specie di incongruo codice a barre. Alla mia domanda su che cosa significasse cotanto arabesco ha risposto: "Mah, nel linguaggio Maya dovrebbe essere forza, potenza, risveglio... e questa roba qui in basso non me la ricordo". 

target Schwazer

E così da oggi l'Italia del livore, del pettegolezzo, dell'insulto da commento youtube ha un nuovo, comodo bersaglio: Alex Schwazer, campione decaduto, vittima di se stesso, ragazzo allo sbando che voleva vincere a tutti i costi; tanto fuori rotta da non capire che quell'oro, lui, che lo aveva già vinto, avrebbe potuto conquistarlo ancora, e senza artifici chimici. Ed è come se l'Italietta buffa e pantofolaia non aspettasse altro che dare contro a qualcuno, perché c'è gente, e internet ne è piena così come ne è piena la società, che non vive se non può fare a pezzi uno che è già in ginocchio, stremato, sul fondo del barile. E' l'ora dei commentatori da yahoo notizie: che se lo godano questo momento in cui possono sentirsi finalmente migliori di qualcun altro. Quanto al resto, si sa, questo paese viaggia a corrente alternata: se ne fregano tutti dell'atletica, per quattro anni, poi, all'improvviso, tutti atleti, critici, arguti osservatori; tutti esperti di tattica e di etica sportiva, come resistere all'opportunità di un massacro a basso costo? E lui, Schwazer, in mezzo. Indifeso, e molto solo. Definito da alcuni giornalacci un "giuda", proprio da quei giornalacci che hanno difeso le puttane di palazzo. Scaricato da tutti, anche da quei vertici sportivi che quando un calciatore sputa addosso ad un avversario pagano gli avvocati difensori. Perché il problema è un po' questo: c'è chi vince campionati con l'ago ancora in vena e tutto va bene, e c'è il singolo, che fa una fesseria, e i farisei impalcano la croce. Ha sbagliato Alex Schwazer, ha commesso un errore tremendo. Ma non si è venduto una partita e non ha nemmeno frequentato tabaccai. Aveva paura di perdere. Umana, troppa umana paura di scendere dall'Olimpo, e si sa che la paura, unita alla debolezza, fa fare le peggio sciocchezze. Sciocchezze rimediabili se hai un padrino alle spalle, fatali se sei solo. E Alex Schwazer (oggi, ma forse anche ieri, chi lo sa) è soprattutto un uomo solo, nello sprofondo in cui si è cacciato da solo. Non voglio qui mettermi a discutere sul fatto che in un mondo in cui la performance è tutto il doping rischia di essere il solo carburante possibile per il corpo umano: non lo voglio dire, perché credo non lo meritino le migliaia di atleti che giocano pulito. Ma forse per spiegare la caduta di Schwazer serve qualche argomento un po' più complicato dei soli insulti, qualcosa che serva a rimettere in discussione anche noi, noi tutti, e quella parte della nostra coscienza che ora scappa, con la coda di paglia. 

medioman sul Sassolungo




I primi a capitalizzare la voglia di montagna dell'italiano medio sono i marchi della grande distribuzione. Scarpe tecniche con doppio rinforzo, impermeabilizzate in Gore Tex, improbabili pantaloni allungabili a lampo, zaini tipo trasloco con borracce pendenti, imbragature, moschettoni da svariati Newton, calze impermeabili, occhiali antiriflesso, berretti che neanche Indiana Jones.
Li vedi a bassa quota. Arrivano in macchina (la macchina è il primo, grande segno distintivo degli italiani) fino all'ultimo spiazzo disponibile, i bambini frignano già.
Pance rilassate, deretani abbondanti. L'altra caratteristica distintiva dell'italiano medio in montagna è che fa molto chiasso. Urla, strepita, si agita. L'accento è di solito pesante, come l'attrezzatura da esploratore Tobia che si porta appresso.
Ad occhio e croce l'allegra brigata viaggia sulla media dei trecento euro a persona per agghindarsi come neanche Messner al Polo, bambini in testa, ai quali il mercato offre di tutto, compresi zainetti in scala griffati dalle grandi marche, zainetti che per bene che vada serviranno a trasportare il lucidalabbra di mamma.
Poi, una volta bardata, la famiglia consuma una colazione pantagruelica (si fa così nel continente), in vista di intrepide escursioni e spericolate ascese. Che verranno surrogate dallo struscio nel centro del paese, ormai ridotto a prodotto di consumo per il gonzo che non chiede di meglio di lasciare per strada qualche altro soldo in gnomi da giardino vestiti alla tirolese. Con lo struscio, esatta replica di quello domenicale a casa propria, l'italiano medio esaurisce gran parte della propria sete di avventura. Al massimo una qualche risalita con gli impianti, una bella polenta in quota, e la vacanza può dirsi ben riuscita.
I più temerari tenteranno l'escursione fuori porta, salvo pentirsene nel giro di qualche centinaio di metri. Donne in deliquio, uomini arrancanti, bambini che se prima si divertivano a tirarsi rami in testa ora piangono a vanvera, dimentichi ormai anche del perché dei propri capricci.
I tedeschi saranno quel che saranno, ma quando sono in montagna hanno un aspetto molto dignitoso. Tecnici sì, ma funzionali. Camminano, scalano, macinano terreno come dei rulli compressori. Uomini, donne e bambini. Hanno le galosce consumate e gli zaini logori, e la giacca Ferrino, se ce l'hanno, non ha il cartellino ancora attaccato. Non ho mai visto un bambino teutonico gettare la carta del Mars per terra, né lagnarsi di non riuscire ad andare avanti, né fare un capriccio per essere preso in braccio. E non sono filogermanico, e lo so bene che tutta questa educazione spesso va a farsi friggere quando si tratta di visitare Roma o Firenze, con le fontane rinascimentali buone per farsi un pediluvio.
Ma in montagna dev'essere diverso. Forse è più congeniale allo spirito teutonico che non a quello italico, anche se gli alpinisti italiani sono tra i più grandi scalatori di vette del mondo; ma qui non stiamo parlando di iscritti al Cai. Stiamo parlando dell'italiano medio nel blu dipinto di blu, ed è tutta un'altra storia.
La vera, grande discriminante della montagna resta l'altitudine. Unita all'assenza di impianti di risalita, segno che se vuoi salire, devi camminare. Allora si opera una naturale scrematura. Ci si trova in pochi. Ci si saluta, con cortesia, perché si sa che si potrebbe aver bisogno dell'altro. Ci si scansa quando qualcuno giunge dal basso: ci si ferma, si cede il passo quando si proviene da una discesa. Le pance spariscono, o se ci sono, sono supportate da polpacci che fanno impressione.
Ha l'aspetto sano la gente che si ritrova in quota. Anche gli anziani, perché talvolta se ne trovano, non hanno ventri sformati, non inveiscono, non rimpiangono un mondo che non c'è più, o che c'è stato solo nella loro fantasia.
In quota si sviluppa una nuova forma di convivenza se non proprio di fratellanza.
I rumori si abbassano, si dissolvono. Lo spread è una cosa che non esiste. Gli aperitivi, gli arredatori d'interni, le chiacchiere, le ricette, di colpo perdono peso e consistenza. La verità è un mondo diradato fino alle sue ossa, fino al suo midollo di roccia e vento.
Mi hanno chiesto se sono paesaggi che meritano: sei tu che devi meritarteli, e non è uno slogan. Dopo cinque, sei ore di cammino, il corpo non è più la vetrina delle proprie vanità o la discarica della propria incuria, ma noi stessi che pensiamo, agiamo, siamo nel mondo, ed è più facile parlare di mondo quando la realtà della terra non è solo l'artificio irreale sotto cui l'uomo ha deciso di seppellire se stesso. Anche se vestito da trecento euro.