ciao, Mario




Stavo lavorando all'impaginazione di Inverno al Blocco 1, ieri sera, quando mi è arrivata la notizia della morte di Mario Monicelli. Non è stata una bella sensazione. A 95 anni, mi sono detto, ci può stare di andare all'altro mondo per un nonnulla. Solo qualche ora dopo, scartabellando su internet, ho saputo che si era gettato dalla finestra di un ospedale, dove era ricoverato, molto ammalato. Un temperamento come il suo, lucido fino alle estreme conseguenze, non poteva tollerare un finale del genere. Ha deciso del suo destino, come ha sempre fatto. La sua morte mi ha ricordato quella di un altro grande, tra l'altro della sua stessa generazione: lo scrittore ceco Bohumil Hrabal. Monicelli ora entra a far parte della Storia di questo paese, ci entra di diritto, spero con il minimo possibile di retorica, spero con pochi fronzoli e tanto affetto; spero entri a far parte della nostra memoria, e non di qualche manuale di scuola, spero che ciò che ci ha lasciato rimanga patrimonio fruibile dal pubblico, e non carne da macello per il corso magistrale di qualche professorino. Non sarò certo io, adesso, a stendere uno tra i tanti e inutili elogi funebri che sicuramente ingombreranno la nostra stampa nei giorni a venire; credo che il maggior rispetto che si possa portare a questo gigante dei nostri tempi sia l'affetto silenzioso di chi non si dimenticherà della sua lezione. Per questo motivo credo che il migliore omaggio che possa fargli sia quello di riproporre, qui di seguito, una recensione scritta anni fa in occasione del suo ultimo lungometraggio, Le rose del deserto.

SPERDUTI NEL DESERTO DELLA LIBIA
Finalmente un cinema vecchio stampo. Uno di quelli con 270 posti, non uno di più, con le sedie di velluto rosso, gli altoparlanti del dolby aggiunti posticci e già alquanto instabili, le lievi scrostature dei pannelli insonorizzanti.
Sono qui per vedere un film infrasettimanale, un film che parla degli italiani, con attori italiani firmato da un regista che più italiano non si può: Mario Monicelli. Il titolo dell’opera è tutto un programma: Le rose del deserto, epopea umanissima e ingloriosa di un gruppo di militi italiani nel deserto della Libia, durante la campagna d’Africa della Seconda guerra mondiale.
È un sollievo sapere che è ancora possibile vedere qualche scampolo di cinema di casa nostra, toccare con mano come una certa perizia artigiana non sia andata perduta: nel film di Monicelli si apprezza la cura dei dettagli, la ricerca della verità umana che supera e anticipa quella storica. Si nota soprattutto un’arte che è in via d’estinzione: la capacità di dirigere gli attori, di plasmare cioè i volti, le voci e i corpi sulla propria idea di film, di dare al corso dell’opera la propria firma.
Le rose del deserto non è la scontata agiografia di un pezzo di storia, né tantomeno la scontata satira di costume su un capitolo già ampiamente dibattuto e talvolta a torto sbeffeggiato. No, qui lo sberleffo non c’entra; Monicelli dimostra un grande affetto per i suoi soldati, che, salvo un caso, si trovano in guerra per motivi tutt’altro che patriottici o di regime: c’è il giovane che approfitta della chiamata alle armi per visitare il sud del mondo, c’è il maggiore stralunato che si illude di avere una moglie perbene, ma soprattutto ci sono tanti capitati per caso che non vedono l’ora di tornarsene a casa, dalla ragazza, al proprio lavoro, ai propri affetti familiari.
La riflessione non scade mai nella banalità o nel già sentito dire, ma si snoda su un percorso fatto di ricordi, di desideri mancati, di promesse che sembravano immense e che si sono risolte in nulla: c’è l’Italia che è andata a dormire Impero e si è risvegliata italietta, prigioniera della paura, mai cattiva, ma pervicacemente furba, provinciale, dedita al proprio orticello e in larga parte ostile al richiamo guerriero. Si potrebbe aprire un dibattito sugli episodi di eroismo comunque palesati dalla compagine italiana, mi viene alla mente la battaglia di El Alamein (ritratta tra l’altro nel bel film di Enzo Monteleoni, La linea del fuoco) piuttosto che Cefalonia (ridotta invece nell’ignominioso e offensivo Il mandolino del capitano Corelli, indecente irrisione di marca americana).
Menzione speciale per gli attori: bravissimi e credibili, in particolare Alessandro Haber, un attore che mi è sempre piaciuto molto, in uno dei rari ruoli da protagonista che abbia ricoperto in carriera. Da citare anche Michele Placido, impegnato in un personaggio, quello del prete di frontiera, che sembra tagliato su misura per lui: forse la sua migliore interpretazione dell’ultimo decennio.
Provo un grande dispiacere a notare come questo film sia assente dai palinsesti di molte sale cinematografiche, è un vero peccato, perché per una volta c’era la possibilità di promuovere una pellicola italiana, con un regista italiano, attori italiani e una produzione italiana.
Caratteristica di un certo ambiente cinematografico pare sia quella di farsi del male da solo, adducendo come causa strani complotti e oscure trame di sabotaggio spionistiche. Salvo poi lamentarsi se non esiste più un cinema de noantri.

strettamente riservato

Le rivelazioni fornite da Wikileaks non sono rivelazioni, almeno per quanto riguarda i protagonisti di casa nostra: sapevamo già tutto da tempo, con dettagli e controdettagli. Penso che un sentimento analogo tocchi anche i sudditi di tutti gli altri regnanti citati nell'interminabile serie di cablogrammi che sta squassando le cancellerie di mezzo mondo. Nessun sussulto dunque. O forse sì: Wikileaks sta squarciando per la prima volta il velo untuoso e talvolta ipocrita della diplomazia internazionale, quella che per intenderci organizza di tanto in tanto dei summit sui massimi sistemi che puntualmente non risolvono una cicca e che si concludono con le immancabili fotografie e strette di mano che più convenzionali non si può. Nelle note stilate dagli addetti alle ambasciate americane sparse nel mondo, c'è il ritratto di una società molle e alla deriva, dove i potenti sono alle prese con fisime, isterismi, affari del tutto privati che nulla hanno a che vedere con la sorti dei paesi di cui devono difendere gli interessi. E' la prima volta, in altre parole, che l'ovvio suscita tanto interesse, perché un conto è la chiacchiera da bar, il segreto di Pulcinella che tutti sanno dandosi di gomito e ghignando, e un conto è vedere questo ovvio nero su bianco, in quei dispacci confidenziali che servono a ritrarre un paese più di tante cerimonie. L'inconfessabile è venuto a galla: l'Italia sullo scacchiere internazionale conta meno di niente. Ennesima, scomoda verità risaputa e negata a oltranza che ora ci viene sbattuta in faccia, come una torta rancida: ma veramente qualcuno si era illuso che la politica delle pacche sulle spalle e delle feste servisse davvero a qualcosa? Per contro c'è da dire che anche l'immagine che ne esce dell'America risulta un poco imbarazzante: isolata, chiusa in se stessa, priva di referenti politici, diffidente e sospettosa di tutto e di tutti, sempre pronta ad aggredire e mai o quasi mai a rimettere in discussione le proprie scelte. In ultima analisi verrebbe da dire che nessuno ci fa una bella figura, e forse proprio per questo alla fine non se ne farà niente, seguendo la logica molto italiana (almeno questa) del tutti colpevoli nessuno colpevole. D'altra parte una crisi diplomatica internazionale tra quasi tutti i paesi del mondo non servirebbe a niente, se non a logorare ulteriormente le già sfibrate risorse strategico/politiche globali. L'importanza di Wikileaks non sta tanto nella rivelazione in sé, quanto piuttosto nella nuova fase che apre: il riservato non è più così riservato. Le informazioni sono potere, e sono sempre più difficili da mantenere segrete, ogni decisione è monitorata soppesata, pronta a sfuggire di mano e a costituire un potenziale vantaggio strategico per i diretti avversari. Ma la parola avversario presuppone anche quella di alleato, e da quanto si legge sembra piuttosto di assistere ad un desolante tutti contro tutti, dove lo scontro si consuma sulla base di ripicche, parlarsi alle spalle, diffidare l'uno dell'altro. La nuova frontiera delle controversie internazionali.

divagazione

La maggior parte degli autori che amo sono morti, qualcuno anche da migliaia di anni. Detta così, in effetti, suona male. Messa in un altro modo, possiamo dire che la loro voce, la voce di questi scrittori, poeti, pensatori, è rimasta intatta, tanto che ancora oggi possiamo entrare in contatto con il loro mondo come se fossero nostri contemporanei. Ma allora è vero che la letteratura ha questo potere, quello meraviglioso e terribile di tramandare un pensiero? Sì e no mi viene da rispondere. Ci sono autori che non moriranno mai, come Platone o Kant, tanto per fare due nomi, e altri che non hanno superato l'uscio di casa, e sono stati dimenticati. Qualcuno giustamente, qualcun altro per puro capriccio del contesto storico. Ora, nella brevità di queste note, non vorrei ampliare eccessivamente il discorso includendo personalità estinte già da parecchio tempo (i tempi della letteratura sono lunghissimi), ma preferisco limitarmi alla contemporaneità, a quegli autori, cioè, che hanno condiviso una porzione di tempo molto prossima alla nostra, quelli che per intenderci, hanno esaurito la propria parabola esistenziale nel novecento. Tanto per dire, sto leggendo Giuseppe Berto, classico esempio di grande scrittore finito in soffitta, la cui biografia si intreccia nel profondo con la sua opera: guerre, conflitti interiori, stravolgimenti culturali, alienazione; tutti ingredienti tipici del novecento. Leggendolo mi sono reso conto di entrare in contatto con la natura più privata della sua psiche, o se vogliamo della sua esistenza, e ne ho provato quasi imbarazzo, nonostante che Berto sia trapassato ormai più di trent'anni fa. Anche questa è potenza della letteratura: questa forma di disagio che ho avvertito è una forma emotiva che il potere delle parole ha avuto la capacità di evocare, al punto che leggendo Berto vengo a contatto con un mondo sotterraneo che ha a che fare anche con me, e che riesce a urtarmi, come se mi stessi guardando allo specchio e, inaspettatamente, scorgessi qualche tratto insopportabile di cui non mi ero mai accorto, o che mi ero ostinato a negare. La letteratura, allora, diventa il tramite di una sensazione fisica. L'immateriale si materializza in uno stato d'animo che, come diceva Carver, si manifesta con una leggera variazione dei battiti o della temperatura corporea: solo allora la letteratura ha raggiunto il suo scopo, che poco o nulla ha a che vedere con l'emozione d'accatto, quella millantata nei talent show tanto per intenderci, ma con una sfera molto più delicata e autentica, quella che coinvolge lo "spazio emotivo", il territorio sconosciuto in cui il gesto smette di confrontarsi con lo spazio e il tempo e diventa patrimonio universale, atemporale, in una sola parola: condiviso.

la coscienza di Zeman

Il solito Report, capitanato dall'indomita Milena Gabanelli, ha ricordato ieri sera un grande del nostro calcio, Zdenek Zeman, tecnico boemo ma italiano di adozione che ha scompaginato il mondo del calcio negli anni novanta, con il Foggia dei miracoli prima, con Lazio e Roma poi. Fu il primo, una dozzina di anni fa, a combattere la buona battaglia contro il doping nel calcio, ottenendo come risultato quello di essere fatto fuori dal grosso giro. In molti avrebbero ritrattato, avrebbero corretto il tiro, avrebbero parlato di "parole travisate"; lui no. Zeman è andato dritto per la sua strada: un percorso lungo, difficile, fatto di cadute e di rivincite, sempre e solo con la forza delle proprie gambe. Zeman fu il primo (e anche l'unico) a ledere il velo di reticenza che da sempre avvolge il mondo del calcio con una semplice constatazione: un atleta sano che assume farmaci al fine di migliorare la prestazione sportiva commette doping. Una verità semplice e quasi ovvia che è stata sufficiente a fruttargli l'ostracismo a vita, perché l'ovvio, si sa, non lo controlla mai nessuno. Il risultato, penoso, è quel misto di omertà e connivenza a cui assistiamo oggi, perché niente, nonostante Zeman, nonostante calciopoli, è cambiato. Sì, forse c'è meno strafottenza di prima da parte di certi padreterni, forse c'è meno sicumera, ma la mentalità di fondo è rimasta uguale. Anzi, si è ampliata, se vogliamo, anche in senso lato: siamo arrivati a parlare di doping amministrativo, visto che molte squadre di calcio sono indebitate fino al collo e restano a galla solo in virtù di strani giochetti finanziari. Mi ricordo di quel periodo, una dozzina di anni fa: ricordo benissimo l'alzata di scudi contro questo eretico, colpevole di aver infranto il patto non scritto tra i potenti e i meno potenti, tutti uniti nella conservazione del sistema, sano o marcio che sia poco importa; una miniera da cinque miliardi di euro annui, un patrimonio sconfinato, un metodo di distrazione delle masse senza eguali. E ricordo il dileggio a cui è stato sottoposto il tecnico boemo: vittima ante litteram di quella macchina del fango che in seguito si sarebbe perfezionata in altri ambiti. Come ciliegina siamo alle porte della solita amnistia all'italiana: sotto chissà quali spoglie gli ex padroni del vapore torneranno più forti di prima, con tante scuse, riabilitazione e un mazzo di rose in mano, mentre Zeman, l'uomo contro, è tornato in lega pro, alla guida di una piccola squadra dal grande cuore, la squadra che tutti quelli che vogliono un calcio decente dovrebbero tifare: quel Foggia da cui tutto è partito. Per chi crede nel destino è un segno, per chi crede nella schiena dritta delle persone, una logica conseguenza.

in piazza

La povera Piazza del Duomo ridotta ad un ipermercato a cielo aperto, non è certo una novità. La grande piazza dei milanesi ridotta a stand pubblicitario permanente non fa più notizia neanche volendo: sono anni che la situazione si trascina così. Nemmeno la presunta indignazione del sindaco, tardiva e improbabile, serve ad allentare questa sensazione da mercato delle vacche che aleggia da troppo tempo su tutto ciò che è pubblico. Vediamo di ricapitolare: no alle panchine, no all'aggregazione nei luoghi pubblici; sì all'orgia di marketing, auto di lusso, gioiellerie, colazioni da Tiffany, ferraglie varie di fronte a Palazzo Reale. E così il capolavoro è completato: lo spazio di tutti viene appaltato a delle marche, ossia a dei privati, che nel terreno squallido della compravendita e forti del consenso dell'autorità, fanno quello che vogliono. E mica solo in periodo natalizio (tra parentesi manca più di un mese alla natività e sono già due settimane che scassano i cosiddetti con luminarie e ammennicoli vari) ma ormai nell'arco di tutto l'anno: pubblicità sulla facciata del Duomo, mercato permanente in piazza, dove per mercato non si intende, o si intende solo in minima parte, legittima attività artigianale, ma stand futuribili (e dunque kitsch) di supermarche di superlusso, con modelle (poveracce con finti sorrisi in preda agli agenti atmosferici) promoter, prestiti lampo per farti comprare ciò che non ti puoi permettere. E' Milano, bellezza, verrebbe voglia di dire. Ma sappiamo che non è così: questa è solo un'immagine cialtrona e parziale della città; una visione di parte, dove guardacaso la parte è quella che detiene il potere economico, non certo culturale. E' una parte arrogante, come sempre, del resto, sono i soldi. Un'arroganza miope, che nemmeno si accorge del danno che fa. Panchine no, perché sono ricettacolo di perdigiorno e barboni. Tutto il resto sì. E se mettessimo le panchine a pagamento? Sarebbe forse più accettabile? Ho già lo slogan: Goditi un momento di pace nel cuore di Milano con La Panchina Esclusiva!

veri o presunti

Comica iniziativa editoriale della Bompiani, che spoglia di ogni pudore ha dato alle stampe i diari del Duce, lectio dellutriana. I diari che tutti gli storici del mondo giudicano una patacca? Quelli in cui il Duce sbaglia a scrivere la propria data di nascita? Quelli in cui il dittatore si definisce amico del popolo ebraico all'indomani delle leggi razziali? Proprio quelli. I diari che girano da un mezzo secolo abbondante, tra una smentita seccata e l'altra, tra una serata di letture in compagnia di Lele Mora e il cestino di un filologo, ritornano con prepotenza, nel quadro di un'operazione al di là dell'incredibile. Con un sottotitolo, grottesco: veri o presunti. Come dire: state al gioco se proprio non ci credete. In fondo anche il manoscritto che introduce i Promessi sposi è un escamotage letterario, perché non potrebbe esserlo anche questa riproposizione nostalgica? Peccato che una casa editrice così gloriosa si sia lasciata andare a questa iniziativa; peccato, perché a rimetterci sono tutti: lettori, editori, scrittori, storici. Mascherare con un velo di storicità ciò che invece è un acclarato falso (confermato, oltre che dai più autorevoli addetti al settore anche dal filologo Canfora e dalla figlia di Mussolini, Edda) è un abuso che va molto al di là della libertà espressiva: è un trucco con il quale si tenta, non senza una notevole ingenuità, di riabilitare la figura del Duce in un contesto storico in cui il fascismo ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare (dall'alleanza con la Germania nazista all'entrata in guerra) e ha macchiato d'infamia l'Italia con le leggi razziali, credo il punto più basso che questo paese abbia mai raggiunto. Il capo supremo di tutto questo era uno solo: il Duce, che dalle pagine del diario però pare un'altra persona, dispiaciuta, affranta per le sue stesse decisioni. Un tipico italianismo? Un tentativo patetico di confondere le acque durante la Rsi? Dimenticanze, errori, date di avvenimenti cruciali ancora una volta sbagliate, non ultimo persino un vaticinio (i carri armati tedeschi Tigre entrati in servizio nel 1942 sono citati nel '39) sembrano suggerire che nemmeno questa ipotesi sia corretta. E così torniamo al principio: siamo in presenza di una strenna natalizia per qualche nostalgico in vena di fantasie. Dal mio punto di vista, c'è un elemento che mi ha dato la certezza che questi diari siano un falso: l'elogio di d'Annunzio. I due si odiavano. Informarsi meglio la prossima volta che si tarocca.

parola mia

Un annetto fa polemizzavo su questo stesso spazio in merito ad una frase, secondo me infelice, pronunciata da Roberto Saviano nei confronti della città di Milano. Ora sono qui per dire non tanto che il suo monologo di ieri sera mi ha tecnicamente convinto (concetti chiari, esposizione essenziale ma mai sciatta) e politicamente interessato, ma per sottolineare una differenza: quella tra la trasmissione di Raitre Vieni via con me, e il Grande Fratello di Canale 5. Confronto impietoso, improponibile, ci mancherebbe. Ma non siamo noi a proporlo: sono stati i palinsesti televisivi a dividere in due la teleutenza, offrendo, nello scacchiere precotto di una serata (ex) catodica, un suggestivo anche se non del tutto voluto raffronto tra due modelli estetici e, insieme, morali e culturali: l'ambizione del programma di Fazio e Saviano e la regressione del Grande Fratello. La tensione civile da una parte, l'abbandono di qualunque contegno dall'altra; la memoria e la dimenticanza; l'individuazione e la dispersione. Potremmo continuare ancora a lungo con questo giochino. Ciò che conta è che in questa singolare tenzone hanno avuto sfogo due istanze molto precise: quella popolare sana e quella popolare becera. Due mondi, due stanze separate, due vasi non comunicanti; se proviamo a convincere ciascun utente delle due fazioni della bontà del suo opposto, falliremo in partenza, ciascuno rimarrà della propria opinione. Con buona pace del politicamente corretto. In altre parole la proposta di Fazio e Saviano non è innovativa in termini di comunicazione, né tantomeno di messa in onda: è interessante perché ci pone di fronte al potere della parola, alla sua funzione corrosiva e riflessiva, introspettiva e politica; la parola, in una serata come quella di ieri, ha dato fastidio al Palazzo, che ha avuto paura e ha cercato di ostacolare il programma in ogni modo, sia adducendo improbabili cavilli burocratici sia adeguando le altre reti con una massiccia controprogrammazione, di cui il Grande Fratello fa parte. La notizia è che la parola ha vinto su tette e culi; la notizia è che la parola è ancora l'antidoto più potente all'anestesia delle coscienze.

pizza, mandolino & Co.

Il libro di fresca uscita di Tom Rachman, giornalista americano con il vizio dell'Italia, si intitola Gli imperfezionisti, narra le vicende di una testata immaginaria a stelle e strisce pubblicata a Roma, raccontandone i meccanismi interni, i tic, le caratteristiche. Inutile dire che il ritratto che esce di casa nostra e dell'impatto che la nostra informazione ha nei confronti del giornalismo internazionale è penoso. Rachman, da buon anglosassone, sintetizza così: "L'Italia non è potente, si punta sulle storie di colore: Berlusconi, pizzaioli, immondizia." Teniamo bene a mente questa triade, perché le conseguenze di tutto questo potrebbero rivelarsi molto, molto pesanti. Un paese come il nostro, che non riesce a conquistare il rispetto degli altri nemmeno per sbaglio, è un potenziale territorio di sciacalli, di speculatori provenienti da tutti gli angoli della terra. E' un paese sfilacciato, in preda alla pancia, nuova meta per orde barbariche in giacca e cravatta, e tutto questo perché l'amministrazione della cosa pubblica, e quindi anche dell'immagine pubblica della nazione, non è stata in grado di debellare gli stereotipi che ammazzano e soffocano la nostra immagine all'estero. Pasta, mandolino, mafia, oggi anche Berlusconi e pattume sono tutto ciò che riusciamo ad esportare. Il fatto sconcertante non è tanto la disgustosa superficialità dei tanti cronisti esteri (e segnatamente anglosassoni) che mangiano, bevono, scopazzano all'ombra del Colosseo per poi andare a raccontare ai loro connazionali che siamo un branco di pulcinella senz'arte né parte. Questo tipo di trattamento (vergognoso e disonorevole per chi lo pratica) non è una novità. Lo scandalo vero è che non abbiamo fatto niente per invertire il trend, per rompere questo circolo vizioso che ci vuole inetti, fanfaroni, buoni a nulla, traditori, furbi, piccoli e con i baffi. Il fatto che nemmeno il governo più conservatore e reazionario della storia repubblicana abbia mosso un solo passo nella direzione della dignità, dovrebbe dirla lunga. Mentre noi viviamo nel nostro piccolo mondo di puttanelle e corruzione, di bizantinismi democristiani e secessionismi mascherati da federalismi, c'è tutto il resto del globo che ride di noi, che ci snobba, che ci considera meno di niente. Certo, gli stereotipi sono duri a morire. Su milioni di italiani perbene emigrati nel corso dei secoli è bastata una limitata percentuale di canaglie per marchiarci a fuoco come una genia di sottouomini, e questa, purtroppo, è la Storia: ingiusta, infame, ma incontrovertibile. Ora però, sarebbe cosa buona e giusta, soprattutto da parte di chi sbandiera i presunti valori nazionali, cominciare a usare l'artiglieria pesante: smentire punto per punto, fare la voce grossa, dimostrare con i fatti che non siamo terra di conquista per nessuno, che c'è un'Italia con gli attributi, che sa valorizzarsi. Che sa dimettersi quando l'indecenza, ancorché penalmente irrilevante, bussa alla porta. Il crollo della Casa dei gladiatori, il generale dissesto del patrimonio culturale nazionale non è ovviamente il migliore dei viatici, ma l'antitesi di tutto questo, ossia la rivincita della parte buona del paese, potrebbe essere il punto di partenza.

La carta e il territorio di Michel Houellebecq

La carta e il territorio è sbarcato sul mercato librario dopo una trepidante e giustificata attesa; il suo autore infatti può essere annoverato tra le maggiori personalità letterarie viventi, in Europa e non solo. Michel Houellebecq è uno dei pochi, grandi cantori del disfacimento contemporaneo: da analista, osserva il corpo che si sgretola, la memoria che non c'è più, l'organismo sociale che scende a patti con tutto e con tutti pur di sopravvivere nel nome del benessere acquisito. Va da sé che la critica dello scrittore nasce da una notazione tanto semplice quanto per certi versi illuminante: l'accumulo, nella società tardocapitalistica, è presagio di morte; l'insaziabile e ingordo arricchimento di cose prefigura un crollo verticale, perché la produttività spinta all'estremo, la competizione senza senso nel nome degli oggetti e della prevaricazione quantitativa può risolversi solo in un processo autodistruttivo.

Volendo aprire una piccola digressione, ho notato una specie di doppio binario in Houellebecq: se da un lato la sua adesione al principio di alienazione individuato da Marx è evidente (l'uomo non è più consapevole di quello che fa, non sa perché lavora né ha coscienza di ciò che produce se non i un'ottica di quantità), dall'altro si avverte un distacco netto dalla visione materialistica della storia, per cui il progredire storico dell'uomo non può essere assimilato alla sua produzione di beni, né dal punto di vista del come né del quanto. Dire forse che Houellebecq tenti di recuperare il senso hegeliano del processo spirituale della Storia, sarebbe forse eccessivo: di certo, una volta presa coscienza della propria condizione alienata, l'uomo narrato dallo scrittore francese ha un moto di ribellione interiore, fatto non sempre sufficiente a salvarlo, ma quasi sempre necessario nell'ottica del riscatto personale. Esemplare, sotto questo profilo, il bellissimo finale della sua prima prova romanzesca (o se si vuole narrativa), Estensione del dominio della lotta, quando il protagonista oppone al moderno, al contemporaneo, il perdersi letteralmente nei meandri di una foresta: si ritroverà, si smarrirà? Non lo sappiamo, non è compito del narratore dircelo. Ciò che conta è la descrizione della presa d'atto, culmine di un vero e proprio processo di autocoscienza.

La carta e il territorio si pone generalmente nel solco di questa convinzione. Dico generalmente perché quest'ultimo romanzo segna una piccola frattura rispetto alla produzione precedente dell'autore: gli ingredienti tipici di Houellebecq ci sono tutti, ma dosati in modo differente, come se certe tendenze – la malinconia, la solitudine, l'intima consapevolezza che ognuno è abbandonato al proprio destino – fossero sempre presenti, ma giocate in modo meno rabbioso. Il disincanto, in questo romanzo, ha la meglio su tutto. Anche il vitalismo precario e insufficiente rappresentato dal sesso, altro grande topos dello scrittore, qui è del tutto assente: l'umanità di cui ci parla è in balia delle cose, dei soldi, ma anche qui senza la carica dirompente del rampantismo o della scalata sociale: la macchina economica non è che l'ennesimo meccanismo, innescato dal bisogno e alimentato dall'abitudine.

La carta e il territorio ci parla di un artista, Jed Martin, talentuoso pittore fotografo che ha successo grazie all'intuizione (qui veramente geniale) di elaborare graficamente le carte geografiche della Michelin; il romanzo ci parla della sua vita, dei suoi incontri, dei suoi ripensamenti artistici: il passaggio dalla fotografia alla pittura, le mostre, il rapporto difficile con il padre. Martin è il classico personaggio alla Houellebecq: solitario, insofferente, alla ricerca di un senso che intuisce impossibile da trovare; anche stavolta si tratta di un uomo ricco, un ricco quasi per caso: la fortuna economica arride in abbondanza, all'improvviso, senza peraltro risolvere quasi nulla. Spesso in Houellebecq i protagonisti hanno molto denaro: liberi dagli obblighi formali, possono affrancarsi dalla macchina della produzione per osservare il mondo dall'esterno: sono degli ex alienati in un mondo di alienati, uomini senza catene in un panorama di schiavi. Il denaro serve per intraprendere una nuova perversione: quella dell'autoisolamento dal mondo, nella convinzione, mai smentita ma sempre in bilico, che la vera ricerca sia quella dentro di sé.

Tra i personaggi con i quali Martin si confronta ce n'è uno in particolare: Michel Houellebecq stesso, l'autore che si fa attore della propria scrittura, l'autore che interagisce in prima persona, in un salto mortale all'interno del genere metaletterario. Trovata letteraria di pessimo gusto? Colpo di teatro di uno scrittore alla corda? La presenza di Houellebecq, possiamo dirlo subito senza rovinare nulla della lettura, non serve a niente. Ripeto: non serve a niente. I paragrafi dedicati al rapporto di Martin con il suo “creatore” avrebbero potuto essere risolti con qualsiasi altro personaggio: non ci sono ragioni specifiche per cui l'autore abbia voluto mettere in scena se stesso. Le cause, ammesso che abbia senso cercarle, si trovano da un'altra parte: nel territorio impervio della psicologia di Houellebecq, nel suo narcisismo decadente, ora vellutato, ora, come in questo caso, decisamente morboso. Se nelle prove precedenti, soprattutto ne Le particelle elementari, la scoperta andava di pari passo con la decomposizione, ne La carta e il territorio siamo in piena necrosi senza riscatto: l'artista è nelle cose negli eventi, e tutto ciò che può opporre è la sua arte, il suo tentativo, generoso ma destinato a fallire, di dare una forma al mondo, di cristallizzarlo in una paradossale visione tangibile. Martin è un uomo che “funziona nonostante tutto”, come quella caldaia che procede a singhiozzo, quella caldaia riparata in qualche modo che scalda troppo o troppo poco, metafora finanche facile dell'incompletezza dell'individuo, che vive, ma solo in mancanza di meglio.

Stupisce, come si diceva sopra, l'assenza dell'elemento sessuale, da sempre presenza ingombrante ed esagitata dell'immaginario houellebecquiano: quell'estremo anelito di ribellione, cercato spesso e volentieri nel rapporto mercenario, qui lascia spazio ad una elegia rassegnata e quasi indifferente: le donne, e in generale i rapporti con gli altri, passano nell'impossibilità di afferrare l'istante. Le donne, in un'altra metafora (questa volta ostica e quasi odiosa), percorrono una via parallela a quella del denaro e delle amicizie: capitano. L'unico incontro, decisivo e sofferente, è quello con il padre architetto: ma qui siamo nel mondo dell'incomunicabile. I due avrebbero molto da dirsi e tutta la buona volontà per farlo, ma la differenza di alfabeti rende impossibile ogni scambio, e persino la morte – convitato di pietra di ogni narrazione che si rispetti – non basterà a ricomporre il quadro.

Nel complesso, la prova di Houellebecq è, nella mia personale convinzione, al di sotto delle aspettative. Non trovo ne La carta e il territorio i motivi di entusiasmo che la critica di mezzo mondo ha riscontrato: il sangue, questa volta, è solo un coagulo, un residuo. La vita di Martin, alter ego dell'artista, non ha nulla di esemplare o memorabile, e anche in questo suo sostanziale anonimato, non riesce mai a farsi paradigmatica; non è uno Zeno Cosini tanto per intenderci, e il suo travaglio interiore, questa volta, lascia a tratti perplessi. E questo perché Martin non è un tipo umano, ma solo un tipo economico: un artista anche troppo compreso, inserito in una girandola produttiva di cui lui si limita a coglierne, a tratti addirittura passivamente, i frutti. Non è né antipatico né simpatico, né coraggioso né inetto: la sua figura si inserisce in una zona che è grigia a tutti gli effetti e che non ha la forza, non ha la caratura per imprimersi nella memoria.

A conferma di questa tesi, la mania di Houellebecq per la citazione di marche e caratteristiche tecniche esonda, senza controllo, senza più alcun freno: l'intero romanzo è un'orgia di apparecchi, libretti di istruzione, citazione a più non posso di marche e prodotti. Logica commerciale, sicuramente, ma anche pericolosa tensione iperrealista dell'autore, che se spesso lo salva dal melenso e dal patetico (due malattie da cui Houellebecq è assolutamente immune, onore al merito) da un altro punto di vista lo condanna ad una spirale di puro utilitarismo, di minimale funzione didascalica che non gli rende francamente giustizia.

Ne risente la lingua: in ribasso. L'impianto propriamente linguistico segna un passo indietro rispetto agli altri scritti. Quella lingua così tersa, chiara, logica, si è deteriorata fino a diventare poco più di uno standard narrativo o, se si vuole, una traccia semantica di qualità medio bassa, incapace di farsi realmente personale, come avvenuto in altri casi (Estensione del dominio della lotta o Le particelle elementari). Anche la pessima e approssimativa traduzione di questa prima edizione Bompiani, con ogni probabilità, ha contribuito a questa regressione. Tra i tanti esempi, non è accettabile ripetere l'aggettivo “ditirambico” per più di una volta, e non credo che il traduttore si sia preso la libertà di modificare la resa di un termine così particolare e così inutile.

Intendiamoci, La carta e il territorio supera di netto la media qualitativa delle pubblicazioni di questi anni: è un romanzo che si interroga su temi ultimi, che cerca un'indagine psicologica e sociologica del mondo. Ma da un fuoriclasse sarebbe stato lecito aspettarsi di più. Ho difeso Houellebecq anche di fronte alle aspre critiche rivolte a La possibilità di un'isola, ma qui, di fronte a La carta e il territorio, il passo indietro è evidente: in termini di ambizione, ma anche di resa complessiva del meccanismo narrativo, ed è un giudizio difficile da esprimere, perché ci troviamo al cospetto di uno dei due o tre autori di questi anni destinato a rimanere, di uno dei pochi che siano stati in grado di dirci quello che siamo. Rispetto alla narrativa italiana a cui ormai siamo assuefatti, Houellebecq resta di un livello inaccessibile: confinato in un territorio di amara consapevolezza e disordine interiore che è prerogativa solo dei grandi autori. Ancora una volta, comunque, anche in quest'ultima prova, la capacità dello scrittore di tenersi al di fuori di qualsiasi tentazione consolatoria è ammirevole, e speciale. Proviamo ad immaginarci un autore italiano che non tenti in extremis di salvare il salvabile con amore, famiglia, religione o altri palliativi. Quasi un'utopia. Questa nettezza, questa lucidità estrema è di scuola illuminista, non materialista o peggio ancora positivista, ma illuminista: un campo in cui la ragione è costretta a misurarsi con l'assurdo senza ricorrere alle scappatoie dello scientismo. E in quest'arte, Houellebecq è maestro indiscusso.

crolli

Il crollo della Casa dei gladiatori di Pompei è una caduta fisica, assimilabile a quella di un corpo troppo vecchio per reggersi in piedi: un crollo concreto, ma anche metaforico, perché quel corpo malato e stanco ricorda da vicino il momento che stiamo vivendo, la società che smotta, frana, si indebolisce. Il risveglio, dopo anni di bugie e passi falsi, passa anche attraverso la lama gelida della distruzione e della rovina; e non per causa di guerre, terremoti o rivoluzioni, ma per pura e semplice incuria, come se anche in questi episodi si avvertisse il lezzo del disfacimento più che della scarica elettrica, di una pigra decomposizione più che di un'incendiaria rivolta. Incuria, ignoranza, menefreghismo: tutti quegli ingredienti che, insieme a una forte fortissima dose di ipocrisia sociale, hanno segnato gli ultimi vent'anni della nostra storia. Della condizione del patrimonio culturale e artistico italiano, si è tornati a parlare solo a causa di questo episodio, che può essere tranquillamente assimilato ad un lutto: si accorre solo quando scappa il morto. Viene da fare la più cretina delle domande: ma dov'erano tutti quando si poteva e si doveva fare qualcosa? Quanti altri crolli imminenti potrebbero essere evitati? In modo un po' meno scontato potremmo provare a coinvolgerci direttamente nell'accaduto: dov'ero io quando accadeva tutto questo? Che posso fare io in futuro? Potrebbe essere l'occasione per un generale esame di coscienza, un esame individuale, severo, in cui riprendere le fila del discorso partendo dalle responsabilità individuali, quelle che non possono essere demandate ad altri e che non ci consentono la solita, facile via d'uscita: quella di scaricare colpe e indolenze sulla classe politica. C'è una zona di intervento più vicina, sulla quale possiamo intervenire direttamente: siamo noi. C'è una meraviglia paesaggistica e architettonica che deve essere salvata, una ricchezza culturale che deve essere la base del nostro futuro. Solo uno stolto potrebbe decidere di mandare tutto questo alla malora. O un furbo che nelle macerie, come un sorcio, spera di trovare un guadagno.

senza terra

La mesta pagliacciata con cui si avvia a tirare le cuoia questa infausta stagione politica, porta con sé strascichi altrettanto gravi e penosi ma ingiustamente dimenticati. Oltre alla cultura infatti, anche il povero Ministero dell'Ambiente si appresta ad un drastico ridimensionamento, a fronte di una cifra investita già esigua. La così detta "legge di stabilità" taglia di due terzi il miliardo e mezzo di euro destinato al dicastero retto dalla Prestigiacomo. Così, a crudo. Quasi nessuno ne ha parlato, ma questa ennesima sciagura rischia di provocare danni a breve e lungo termine incalcolabili. Destabilizzazione del suolo, delle aree protette, del patrimonio verde che costituisce, unitamente a quello culturale, l'unica, vera risorsa economica dell'Italia: in termini di turismo, di immagine, di qualità della vita. Alla faccia della stabilità. Con una certa dose di cinismo, potremmo dire che non era lecito aspettarsi niente di diverso da questi signori. Certo, la grettezza morale, la miopia, l'incapacità di pensare anche oltre a se stessi lascia un attimo sconcertati; dove sono finite le decantate "libertà", le pluricitate "manovre di rilancio? E allora anche tutta la retorica impiegata nella "difesa del territorio", nella "preservazione delle tradizioni" si rivela un bluff, l'ennesimo di questo circo ambulante. Un modo per soddisfare le frustrazioni del bar del paese, ma non certo per guardare al futuro con quel minimo di decenza e di rispetto di sé che dovrebbe essere il punto di partenza di ogni nuova stagione. Ma il punto è proprio questo: la stagione sta morendo, il tempo della rinascita non è ancora arrivato; siamo in mano ad una generazione di vecchi arnesi, la cui educazione sentimentale, prendo in prestito un'espressione di Nichi Vendola, "si è svolta nei bordelli" e, aggiungo io, all'ombra di un'idea di mondo piccola, provinciale, arroccata nel ristretto campo del giardino di casa propria, un'idea da calcestruzzo e amianto, colate di cemento e irresponsabilità di fronte alla Storia. Un'idea da Rivoluzione industriale e saccheggio sfrenato del territorio, inadeguata, patetica, ormai decomposta sotto strati e strati di cerone.

la bustina di tè

Il sogno Obama, la sua carica di umanità e di valori sociali, sembra arenata sui soliti, vecchi scogli conservatori americani. Vecchi squali, vecchie mitologie del pioniere più tenaci della gramigna, più seducenti di un vecchio amore che tornano come un eterno castigo a punire qualsiasi tentativo di svolta. Il sogno è stato (ed è) grande, meno la congiuntura storica. La gente, dal canto suo, non trova di meglio da fare che rifugiarsi nella retorica, che in tempi di magra si presta come un rassicurante brodino da opporre allo shock del cambiamento e dell'eguaglianza. Due concetti, così apparentemente distanti eppure così affini, che proprio non vanno giù allo zoccolo duro di questo paese: così moderno eppure così sfacciatamente retrogrado, così materialista eppure così confessionale. A fotografare questo momento di involuzione, ci riesce meglio di un teleobiettivo il cosiddetto Tea Party, grottesca formazione dell'ultim'ora, agglomerato di falchi col forcone in mano, ultraconservatori impermeabili al ragionamento che hanno agguantato un risultato impensabile solo fino a qualche mese fa. I motivi di questo allegro ritorno alle caverne francamente non lo so. L'economia non va così bene come dovrebbe, perfetto. Gli americani sono allergici allo stato e alla solidarietà sociale, d'accordo. Ma non può bastare a spiegare la perpetua rinascita dei peggiori istinti repubblicani, del conservatorismo più bieco e bigotto ogni volta che le cose non vanno come si sperava; c'è qualcosa di insondato e di sconcertante dietro le brusche svolte a destra di un popolo che anche nelle sue fasce più basse non trova altro orizzonte oltre a quello del mercatismo. Il risultato? Una delle società più classiste del pianeta, più privatizzate, in mano agli squali della speculazione, proprio quelli che hanno causato il dissesto economico globale. Il grande sogno di Obama può già dirsi al capolinea, ed è un danno incalcolabile. Nelle pastoie del compromesso sarà quasi impossibile portare a termine i progetti epocali, importanti, essenziali del suo governo. E' un peccato, perché di uomini così ne nascono pochi. A fronte delle cospicue nascite di guerrafondai incolti e bigotti non è una bella prospettiva.

Incontro con Cioran


Pubblico di seguito un breve approccio critico/diaristico alla lettura di Cioran.

Non ricordo con esattezza quando ho conosciuto Emil Cioran. So che ad un certo punto è entrato nella mia vita, e lì è rimasto in pianta stabile, e che con minore o maggiore energia si è mosso in quello che pensavo e facevo. Dico così perché in realtà mi piacerebbe avere in mente una data precisa, o anche solo approssimativa, in cui il filosofo franco rumeno ha cominciato ad interagire e dialogare con me, perché ciò mi consentirebbe di chiarire alcune cose con me stesso, e stendere queste brevi note con una consapevolezza diversa. Purtroppo, al momento non mi è possibile trovare riferimenti precisi. Come tutte le grandi scoperte, si è trattato di un processo graduale, passato attraverso vari gradi di consapevolezza, dall’impatto iniziale alla meditazione più accurata.

Non ho avuto la fortuna di conoscerlo, e questo, insieme al non aver potuto assistere ad una messa in scena dal vivo di Carmelo Bene, è uno dei più grandi rimpianti che mi gravino sul cervello. Del pensiero di Cioran si sa tutto, di Cioran uomo poco o nulla. Doveva essere un tipo abitudinario e preciso, spartano e dedito al proprio lavoro, senza illusioni e senza pretese di gloria. Pietro Citati ce ne dà un bellissimo ritratto, in cui descrive con affetto il suo studio a Parigi, la sua routine semplice e quasi ossessiva. Me lo immagino come un uomo con cui fosse un piacere parlare, dal pensiero straordinariamente aperto e disponibile al confronto. Cioran non ha avuto niente delle vippaggini che hanno contraddistinto altri intellettuali del novecento, da Sartre a Heidegger, celebrato maestro il primo, venerabile professore il secondo. Cioran è andato oltre le etichette, non ne ha mai accettata nessuna: ha condotto un’esistenza fuori dal tempo, che era anche l’unica che potesse andare bene per un temperamento ombroso e incredibilmente sensibile come il suo. Era un apolide, non aveva più nazionalità. Nato in Romania, era riuscito a rimanere in Francia grazie a qualche innocuo sotterfugio, e lì era rimasto, eleggendo la Ville Lumiere a proprio rifugio e musa ispiratrice. Non si trattava di una brutta scelta: Parigi è sempre stata il centro del mondo, il termometro delle ambizioni di un’Europa che dopo la guerra annunciava già tutte le contraddizioni che l’avrebbero portata nei decenni successivi al dissesto economico e sociale. E poi in Romania c’era stata l’adorata infanzia, quel periodo felice e sereno concluso il quale si era scontrato con quel senso del vuoto e del precario che non lo abbandonerà più, fino alla fine dei suoi giorni. Nonostante il successo internazionale, nonostante schiere di ammiratori tenaci: Cioran non sapeva che farsene. Era un solitario, viveva in un piccolo studio che Citati paragona alla tana di un cane o a una gabbia per uccelli. Col tempo, si era accontentato di pochissimo, si era ritirato per una precisa scelta: si era ritirato per tutta la vita, ma allo stesso tempo la sua coscienza era avanzata fino a confini che un comune lettore può solo vagamente intuire. Si dichiarava ateo, ma aveva stretti rapporti con quel dio assente, quel convitato di pietra, quell’ospite muro: era una delle sue poche compagnie, in fondo. Per il resto c’erano le lunghissime passeggiate per Parigi, per le campagne, o anche negli amati giardini del Luxemburg. Verso la Romania provava sensazioni velate di tristezza e disapprovazione: nonostante sia stato uno dei suoi figli più illustri, le valutazioni sulla sua terra di origine variavano dalla rabbia alla compassione. Era un apolide, un uomo senza radici, scaraventato nel mondo e fuori dal mondo stesso.

Per quanto riguarda le sue idee, ci sono i libri che ha scritto. Non moltissimi per la verità. Sono pagine sanguinanti, frutto di un corpo a corpo con il mondo, la ragione e l’intelligenza, stilisticamente perfette, nitide come un’opera della classicità. Non era un pessimista, e neanche un nichilista, semplicemente era un uomo che non credeva più a niente, e che nonostante il peso di questo vuoto era in grado di guardare con gratitudine alle piccole cose, alle amicizie vere, alla bellezza di un paesaggio, alle parole rubate per strada dalla bocca di uno sconosciuto. Cioran era in grado di far prendere forma ad un pensiero anche da un tratto banale della quotidianità, rovesciando il punto di vista comune per ottenere una visione nuova eppure già essenziale: era un mago del rovesciamento di fronte. Come riesci ad afferrare un concetto, lui è capace di confonderti, di rivoltarlo completamente e di farti apprezzare una prospettiva che non eri nemmeno in grado di ipotizzare. Ma non era un sofista: era uno scettico, come lui stesso amava definirsi. Grande ammiratore di Epicuro, se non fosse che il filosofo greco avesse scritto tanto, raffinato conoscitore di Georg Simmel e Schopenhauer, ma anche cronista critico del pensiero, divulgatore del negativo sempre sul filo di una sottile e corrosiva ironia.

Non ha lasciato un sistema di pensiero, o, girando i termini, non ha mai costruito una filosofia sistematica, in cui teorizzazioni e procedimenti appaiano in sequenza, secondo una logica ferrea. Diceva di avere il frammento nel sangue, e questo è stato il suo lascito: aforismi, apologhi, brevi saggi in cui condensava una cultura e un’intelligenza senza pari; didascalie chirurgiche, lampi di genio improvvisi con cui demoliva un preconcetto o avanzava una riserva. In un gioco di associazione mentale, se dovessi scegliere un termine da affiancare all’immagine di Cioran opterei per “dubbio”: quest’uomo è stato divorato dal dubbio, dominato dall’incertezza, e per questo tanto più portato a denigrare e demolire tutti quei sistemi fondati su assiomi o verità assolute. Guai a definirlo ateo, però. In Cioran, per quanto possa sembrare paradossale, la tendenza al sacro è presente quasi in ogni frangente: una propensione spesso negativa, conflittuale e violenta, da cui però emana la sensazione di una ricerca ininterrotta. La parabola dolente dello straniamento lo porterà a rinnegare la propria lingua per abbracciare quella francese, scrivendo quella decina di capolavori o poco più che costituiscono la summa del suo pensiero: da L’inconveniente di essere nati fino a Confessioni e anatemi. Il primo e l’ultimo, due raccolte di epigrammi. Due modi di esprimere l’urgenza della vita che soccombe al Banale e al Caso. Due modi anche di dare sfogo a quella sua vena intrinsecamente orientale, che troverà conforto nella filosofia buddista e nella sua divulgazione, assimilata e acclimatata, in numerose tracce della sua prosa. In un certo senso, lo stesso percorso compiuto da Schopenhauer, ma sottratto al sistema, alla ritualità, alla ricerca della compostezza formale. In Cioran tutto è magma, risalita di materiale incandescente dal profondo della terra, impasto di segni e sentimenti che affondano in una cultura complessa e composita, la sua: mitteleuropea, francese, orientale.

Questo distillato finissimo troverà la sua maggiore espressione negli ormai mitici Quaderni, dove il tutto troverà finalmente la requie di un punto fermo, di un approdo: è quella pagina vergata quotidianamente, con pazienza e con sforzo, quella pagina che lo salverà tante volte dal suicidio e che conserverà la parte più privata e inviolabile della sua natura, quel nucleo vivente che poi si trasmette ai lettori di oggi, così potente e vitale ancora adesso. I Quaderni sono il suo ultimo lascito, la sua verità inconfessabile. Mai letto niente di così denso e disperato insieme. Nemmeno Kafka ha potuto tanto nei suoi diari. La descrizione di ciò che rappresentano questi scritti quotidiani porterebbe via molto spazio però. Siamo in un territorio troppo scosceso, troppo ricco di significati perché si possa anche solo tentarne un sunto.

Del resto è Cioran stesso che mal sopporta una collocazione critica definitiva o anche solo tentata: quando si ha a che fare con un sistema asistematico, con un fluire libero e rigoroso di idee, diventa difficile mettere ordine filologico prima ancora che filosofico: la mente di Cioran tende a dilatarsi in moti lunghissimi, così come cade spesso in brusche ritirate, di cui è difficile tracciare le coordinate e le ragioni. Ne sono un esempio le ricerche saggistiche sul popolo ebreo ne La tentazione di esistere, sorta di ricognizione privata e atemporale della storia di un popolo, di una cultura che “sconcerta la Storia”: l’autore discerne, medita, studia i materiali e propende per la sintesi divulgativa. Ma è solo un passaggio. Il movimento interiore di Cioran è troppo grande, troppo esigente perché possa essere messo a tacere: la sua voce è un soffio interrotto, un silenzio carico di senso. Caso curioso per un alfiere del non senso, della casualità delle cose, e della loro fondamentale inutilità. La spiegazione in questo caso potrebbe essere la più semplice: la sua è una filosofia della prassi, quella che un tempo si sarebbe detta empirica, e come tale non può sottrarsi al reale, all’immanente, agguantando l’essere per la coda, per un soffio, ma nondimeno cogliendolo. La sua linea di pensiero è come non mai viva, presente: non può limitarsi alla negazione (anche se di questa fu un vero, grande maestro). Detto in altre parole, Cioran non propone vie d’uscita (semplicemente perché non ce ne sono), ma in questo modo già ci dice qualcosa sulla natura umana che di per sé è molto più che una risposta: è la salvezza. Non contando nulla, non avendo nulla da chiedere e meno ancora da dare, l’uomo ha trovato la sua collocazione: in un limbo dove a vincere può essere solo il dubbio. Con uno sforzo di immaginazione, si potrebbe azzardare un parallelo con un altro grande della negazione: Albert Camus. Un filosofo che dicendo di no, già ci dice qualcosa, e non è detto che la natura di questo qualcosa sia per forza negativa: piuttosto un invito alla resistenza, al recupero del senso (o della sua parvenza, ma poco cambia) attraverso la resistenza nell’immanenza. Nel caso di Cioran anche attraverso gli espedienti più sconcertanti: come considerare l’idea di suicidio l’unica strada percorribile. L’idea, non il suicidio in sé, che comunque sarebbe sempre insufficiente. L’idea di eliminarsi è una soluzione a portata, buona per tenere a freno il proprio, devastante essere per la morte, tenendo il bilico l’esserci con la sua antitesi, in un equilibrio precario che però si presenta come l’unica e più dignitosa strada percorribile. Una scelta estrema e crudele, a cui però l’autore rumeno si atterrà sempre con straordinaria coerenza, come se in fondo tutto il suo io altro non fosse che l’estrema sintesi di questo gioco al massacro che alla fine non vedrà prevalere nessuno. Nemmeno la morte, perché, come Epicuro ci insegna, quando c’è lei non ci sono io.

Cioran non ci ha lasciato una dottrina, e nemmeno un credo. Non c’è traccia di progettazione, così come non ci sono tentativi di recupero in extremis nel suo dialogo con il mondo, e questo resta probabilmente uno dei suoi meriti maggiori: non ha cercato la consolazione, non ha voluto porre a suggello della sua opera una via di fuga, provando magari a ricorrere a qualche espediente retorico o sofistico. Il suo capolavoro sta nella teorizzazione della noia. Noia, o per meglio dire cafard, quella bellissima parola francese che descrive proprio quello stato d’animo ineffabile partecipe di malinconia e noia appunto. In questa dimensione rarefatta e dilatata il tempo perde del tutto di senso, e lo recupera l’io: cosa comunque piccola, misera, inadeguata per qualsiasi utilizzo. Ma, al contrario di quanto si possa pensare, questa ammissione di impotenza, di piccolezza, non costituì alcun tipo di sollievo, anzi: fu una dannazione per certi versi definitiva. La grande battaglia di Emil Cioran si consumò nella perfetta consapevolezza della sconfitta finale; la sua parabola è nel segno della più perfetta umiltà, laddove umiltà non significa falsa modesta, ma adesione al male del mondo, stoica accettazione, in un parallelo – etico, emotivo – con la grande tradizione moralistica francese.