ciao, Mario




Stavo lavorando all'impaginazione di Inverno al Blocco 1, ieri sera, quando mi è arrivata la notizia della morte di Mario Monicelli. Non è stata una bella sensazione. A 95 anni, mi sono detto, ci può stare di andare all'altro mondo per un nonnulla. Solo qualche ora dopo, scartabellando su internet, ho saputo che si era gettato dalla finestra di un ospedale, dove era ricoverato, molto ammalato. Un temperamento come il suo, lucido fino alle estreme conseguenze, non poteva tollerare un finale del genere. Ha deciso del suo destino, come ha sempre fatto. La sua morte mi ha ricordato quella di un altro grande, tra l'altro della sua stessa generazione: lo scrittore ceco Bohumil Hrabal. Monicelli ora entra a far parte della Storia di questo paese, ci entra di diritto, spero con il minimo possibile di retorica, spero con pochi fronzoli e tanto affetto; spero entri a far parte della nostra memoria, e non di qualche manuale di scuola, spero che ciò che ci ha lasciato rimanga patrimonio fruibile dal pubblico, e non carne da macello per il corso magistrale di qualche professorino. Non sarò certo io, adesso, a stendere uno tra i tanti e inutili elogi funebri che sicuramente ingombreranno la nostra stampa nei giorni a venire; credo che il maggior rispetto che si possa portare a questo gigante dei nostri tempi sia l'affetto silenzioso di chi non si dimenticherà della sua lezione. Per questo motivo credo che il migliore omaggio che possa fargli sia quello di riproporre, qui di seguito, una recensione scritta anni fa in occasione del suo ultimo lungometraggio, Le rose del deserto.

SPERDUTI NEL DESERTO DELLA LIBIA
Finalmente un cinema vecchio stampo. Uno di quelli con 270 posti, non uno di più, con le sedie di velluto rosso, gli altoparlanti del dolby aggiunti posticci e già alquanto instabili, le lievi scrostature dei pannelli insonorizzanti.
Sono qui per vedere un film infrasettimanale, un film che parla degli italiani, con attori italiani firmato da un regista che più italiano non si può: Mario Monicelli. Il titolo dell’opera è tutto un programma: Le rose del deserto, epopea umanissima e ingloriosa di un gruppo di militi italiani nel deserto della Libia, durante la campagna d’Africa della Seconda guerra mondiale.
È un sollievo sapere che è ancora possibile vedere qualche scampolo di cinema di casa nostra, toccare con mano come una certa perizia artigiana non sia andata perduta: nel film di Monicelli si apprezza la cura dei dettagli, la ricerca della verità umana che supera e anticipa quella storica. Si nota soprattutto un’arte che è in via d’estinzione: la capacità di dirigere gli attori, di plasmare cioè i volti, le voci e i corpi sulla propria idea di film, di dare al corso dell’opera la propria firma.
Le rose del deserto non è la scontata agiografia di un pezzo di storia, né tantomeno la scontata satira di costume su un capitolo già ampiamente dibattuto e talvolta a torto sbeffeggiato. No, qui lo sberleffo non c’entra; Monicelli dimostra un grande affetto per i suoi soldati, che, salvo un caso, si trovano in guerra per motivi tutt’altro che patriottici o di regime: c’è il giovane che approfitta della chiamata alle armi per visitare il sud del mondo, c’è il maggiore stralunato che si illude di avere una moglie perbene, ma soprattutto ci sono tanti capitati per caso che non vedono l’ora di tornarsene a casa, dalla ragazza, al proprio lavoro, ai propri affetti familiari.
La riflessione non scade mai nella banalità o nel già sentito dire, ma si snoda su un percorso fatto di ricordi, di desideri mancati, di promesse che sembravano immense e che si sono risolte in nulla: c’è l’Italia che è andata a dormire Impero e si è risvegliata italietta, prigioniera della paura, mai cattiva, ma pervicacemente furba, provinciale, dedita al proprio orticello e in larga parte ostile al richiamo guerriero. Si potrebbe aprire un dibattito sugli episodi di eroismo comunque palesati dalla compagine italiana, mi viene alla mente la battaglia di El Alamein (ritratta tra l’altro nel bel film di Enzo Monteleoni, La linea del fuoco) piuttosto che Cefalonia (ridotta invece nell’ignominioso e offensivo Il mandolino del capitano Corelli, indecente irrisione di marca americana).
Menzione speciale per gli attori: bravissimi e credibili, in particolare Alessandro Haber, un attore che mi è sempre piaciuto molto, in uno dei rari ruoli da protagonista che abbia ricoperto in carriera. Da citare anche Michele Placido, impegnato in un personaggio, quello del prete di frontiera, che sembra tagliato su misura per lui: forse la sua migliore interpretazione dell’ultimo decennio.
Provo un grande dispiacere a notare come questo film sia assente dai palinsesti di molte sale cinematografiche, è un vero peccato, perché per una volta c’era la possibilità di promuovere una pellicola italiana, con un regista italiano, attori italiani e una produzione italiana.
Caratteristica di un certo ambiente cinematografico pare sia quella di farsi del male da solo, adducendo come causa strani complotti e oscure trame di sabotaggio spionistiche. Salvo poi lamentarsi se non esiste più un cinema de noantri.

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