malissimi culturali

Se i beni culturali danno tanto fastidio, io una proposta ce l'avrei: eliminiamo il ministero dei beni culturali. Non è una provocazione, o come si dice in questi casi per pararsi le spalle. No, è una proposta seria: eliminiamo ogni tutela del patrimonio culturale italiano. Tanto, chi se ne frega. Privatizziamo dove si può privatizzare, vendiamo se c'è qualche compratore. Totò vendeva la fontana di Trevi, e la vendiamo pure noi, ma sul serio. Vuoi mettere? Niente spese di manutenzione, niente tutela, niente assicurazioni vandaliche. Gli Uffizi? Una bella carrettata di roba, chissà che da qualche parte non ci sia un qualche imprenditore disposto ad accollarsi tutto sto imbracchio di quadri e non ne faccia, che so, un bel locale per eleganti brunch e aperitivi molto trendy. I siti archeologici? Ottime aree per ipermercati in cui stipare le famiglie il fine settimana. E così via: si può vendere tutto, facendo una paccata di soldi ed eliminando ogni spesa corrente. Chiusi gli enti culturali, chiuso qualsiasi festival, privatizzato ogni singolo scarabocchio: risparmio immediato, problemi finiti. Meglio un'onesta stagione di saldi piuttosto che la patetica foglia di fico di un ministero che non serve a nulla, se non a prendere atto del disinteresse più completo della classe dirigente di questo paese. In Italia ci sono un terzo dei beni storico culturali del mondo. Del mondo. Ma forse per noi è troppo: meglio sbattere tutto al discount e buona notte. Si potrebbe creare un unico, immenso ministero dello svacco: una specie di ministero del turismo (che già c'è) ma elevato all'ennesima potenza, dove concentrare tutta la follia modaiola e tardo capitalistica di questa classe politica. Già immagino: una sconfinata colata di cemento che unisca tutti i centri commerciali d'Italia, con discoteche, aperitivi sulle chiappe del David, spritz, cocktail, mignotte, cubiste, tronisti, tutto insieme, tutto permanente. Finalmente una Puttanopoli come si deve, senza più nessuna finta remora, senza ipocrisia, dove la gggente può "essere se stessa" e allo stesso tempo aiutare l'economia e stimolare gli investimenti esteri. Era questo che volevate? Basta dirlo.

lettura di Stato

Leggere è importante, lo dice la pubblicità progresso. In decenni di scuola dell'obbligo, di cultura massificata, di programmi didattici e riforme e riformine non siamo riusciti a veicolare un concetto così semplice. Questa tristissima pubblicità non è un segnale di ripresa: è il simbolo del nostro fallimento, di una politica culturale che in Italia non esiste e che non è in grado di accettare la lettura per quello che è, un'esperienza estetica, ma si sente in obbligo di inserirla in una logica produttiva: leggi, così poi diventi più sgamato e guadagni di più. E questo Stato che entra nelle nostre case per comunicarci l'ovvio, è rappresentato da un governo al cui vertice c'è un uomo che in più occasioni si è vantato di non leggere da anni. La scuola, con tutto il suo carico istituzionale, salvifico, santificato, ha fallito miseramente il compito primario della sua missione: quello di educare al bello, di fornire gli strumenti per permettere a ciascuno di crearsi un percorso culturale e di apprendimento. Se abbiamo bisogno di una funerea pubblicità progresso per ricordarci che la lettura è il tramite principale della nostra formazione, allora siamo fottuti. Lo dico veramente: siamo fottuti. Perché finora ci siamo raccontati un sacco di frottole, un sacco di scemenze. Il grembiule a scuola, il modulo, il tempo pieno, la laurea triennale, l'Erasmus, l'informatica, perfino l'impresa, in un crescendo cretino, privo di forma, di senso, di buon gusto che ci ha portato non solo a non essere competitivi in niente, ma che è riuscito tutt'al più a renderci più scemi, più manovrabili, assolutamente inadeguati ad affrontare ragionamenti complessi. Perché la lettura è un piacere che va conquistato, sofferto. Bisogna imparare a leggere al di là dell'alfabeto: bisogna entrare nella logica della lettura. E non perché in questo modo diventeremo più ricchi o aiuteremo il Pil o daremo ossigeno alle imprese. Ma perché saremo persone in grado di pensare, di fare collegamenti, di entrare in contatto con il pensiero, di farlo nostro, di ampliarlo, di deformarlo in modo creativo. Perché la scuola questo non lo insegna?

simulacri

In edicola fa bella mostra di sé una rivista patinata, sulla cui copertina troneggia l'immagine di una cantante pop, Lady Gaga. E' un'immagine irreale, artefatta. Non siamo più di fronte alla rappresentazione di un'idea e nemmeno di una persona: quella fotografia è l'immagine di un prodotto. Una figura in serie, perfettamente intercambiabile, aggiornata, con impeccabile tecnica di marketing, ai gusti ambigui di questo scorcio di secolo. Ho osservato la fotografia per non più di qualche minuto; me ne sono rimasti impressi i tratti postmoderni, tratti che avevano sostituito la personalità con un'ipotesi di personalità non più consistente di un fumetto o di un film di animazione. Quella non è la foto di una ragazza, ma la raffigurazione di uno stereotipo, di più: la spersonalizzazione compiaciuta di una persona che ha come risultato un tipo umano nuovo, ma non sorprendente. Lady Gaga, cantante, cessa di essere la sua anagrafe, la sua storia, la sua personalità, per diventare un modello di riferimento comodo, a portata, che si impone nell'immaginario non per la sua unicità ma per il suo esatto opposto: ossia per la propria facoltà di sostituirsi e scambiarsi con qualsiasi altra figura. "Sono tutto corpo e nulla all'infuori di esso" diceva Nietzsche. Qui potremmo tranquillamente ribaltare l'affermazione sostenendo che sono tutto all'infuori del mio corpo, sempre ammesso che il corpo sia ancora testimonianza del sé e della propria personalità, e non piuttosto una sorta di proiezione virtuale e algida di fantasie sessuali ormai raffreddate, depurate di qualsiasi elemento passionale e restituite ad una dimensione tecnologica, dove l'immagine ha definitivamente invaso i campi di tatto e olfatto, ma anche di affetto e sensualità. Immagine sterile, meccanica, truccata. Quali sono i veri tratti di Lady Gaga? Nessuno può dirlo con certezza. E' una maschera di trucco, di lustrini, di photoshop. E' una dea contemporanea, o per meglio dire il simulacro di una dea: la perfetta combinazione di superficialità e consumismo. Rende sul mercato perché è la negazione di un'idea, così come la sua posa truce in fotografia è l'esatto opposto del carattere umano. Rende perché è concupiscenza senza più desiderio, perché il desiderio, come spiega meravigliosamente Spinoza, è "la tristezza che riguarda la mancanza della cosa che amiamo", e non c'è traccia d'amore sotto lo spessore di tutto quel trucco.

eroe

Leggo su Repubblica un'Amaca di Michele Serra in cui si sostiene che l'allenatore dell'Inter ha deciso di andarsene dall'Italia per una sorta di rivalsa nei confronti del nostro paese, che ormai fa troppo schifo per poter essere abitato. E' vero, le cose vanno maluccio. Per essere più precisi: stiamo andando a rotoli. Certo che però risulta difficile accettare il paragone che Serra fa tra gli italiani che nel loro paese non vedono un futuro per mancanza di prospettive, di adeguate soluzioni economiche e di trasparenza e le scelte di un ricco multimilionario che per puro capriccio si diverte a dare scandalo (che scandalo poi?) alle conferenze stampa. Uno stramilionario che allena una squadra di calcio, che ha intascato senza battere ciglio i soldi italiani e che adesso ha anche la pretesa di passare per un eroe mentre in realtà è solo un maleducato e uno sbruffone di piccolo cabotaggio. Serra parla di "talento da sperimentare ovunque". Ma quale talento? Stiamo attenti a non confondere l'oro con il piombo, a non tentare di giustificare quella che è una di per sé onesta attitudine (quella di allenare), con il talento, che è un'altra cosa. Un'attitudine puramente commerciale, che in virtù della sua spropositata eco mediatica fa cadere denaro a pioggia: denaro ingiustificato, insensato, che non ha ragione di essere. Ecco fatto, ci sono cascato anche io. Con una manovra finanziaria da 24 mld di euro, un casino che non finisce più, un'economia al collasso, un governo bugiardo che ha mentito fino adesso sullo stato delle cose, mi sono messo a parlare dell'allenatore dell'Inter, di cui, tra l'altro, mi importa meno di niente. Mi fa solo girare le scatole, ma al pari di un semaforo rosso, di una stringa delle scarpe che si rompe, niente di più.

i templari erano alieni

Non so se la trasmissione Voyager abbia successo o meno. Visto che l'unico metro di giudizio dei programmi televisivi, oltre alle veline di governo, sono i dati dell'auditel, dovrei concludere che non sono negativi. Ma non è questo il punto. La questione per quanto mi riguarda è piuttosto grossa: Voyager è ufficialmente l'unico programma televisivo che guardo. Non c'è una vera ragione. Sono perfettamente consapevole che si tratta di un format alquanto lacunoso: l'indagine storica è a livello di Dylan Dog, le basi scientifiche sono confuse, raffazzonate, dette e non dette. Dal punto di vista giornalistico spesso e volentieri vengono infrante le regole minime del chi cosa quando, visto che non di rado i servizi partono in medias res, dando per scontate un mucchio di cose che rendono ogni servizio praticamente campato per aria, privo di qualunque contesto. I temi di partenza sono interessanti: il rituale del "confine della conoscenza", ripetuto come un mantra, offre qualche buono spunto, qualche volo della fantasia, che però viene puntualmente banalizzato dall'entrata in scena dei templari e degli alieni. Insomma, Voyager ha tutte le carte in regole per essere definito un programma fuffa, come si direbbe dalle mie parti. Eppure ha un suo fascino. Non va vissuto come un manuale, ma come un fumetto; non come un saggio ma come un raccontino fantasy, di puro intrattenimento, dove si possono perdonare le numerose approssimazioni, le insensatezze, il sistematico ricorso a parole chiave e temi bolliti come, appunto, templari e alieni. Non siamo nel genere scientifico, ma nemmeno in quello divulgativo: siamo nel territorio della letteratura di genere. Quella che intrattiene, senza alcun'altra ragione. Non c'è né capo né coda, ma la forza di Voyager è proprio questa: sedicenti esperti che sostengono l'insostenibile, conclusioni improbabili gettate con noncuranza dal conduttore in chiusura di servizio: "L'arca dell'alleanza? C'è chi sostiene sia un nocciolo nucleare." Chi sia questo qualcuno, però, non lo sapremo mai. Meno giustificabile, invece, la produzione libresca scaturita dalla costola del programma, ma questo è un altro discorso. Godiamoci il brivido dell'improbabile, senza fare troppe domande.

Via Gemito di Domenico Starnone

Via Gemito è una strada di Napoli. In una palazzina anonima si svolge la vita di una famiglia come tante. La voce narrante è il figlio maggiore, Mimì, che ormai adulto racconta la sua saga familiare, incentrando gli eventi attorno a Federì, suo padre, "principe della strafottenza", figura ingombrante e patetica, tenera e violenta. Tra le mura del piccolo appartamento si snodano le vicende tutt'altro che eroiche di una famiglia nata dalle ceneri della guerra, tra povertà e difficoltà di ogni genere. Federì è un pittore, sente dentro di sé la vocazione dell'artista, e in ragione di questa supposta superiorità vessa la moglie Rusiné, donna semplice, accusata dal marito di essere un freno al suo luminoso destino artistico. Le conseguenze di questa tensione cadranno sui figli, in particolare su Mimì, il più sensibile. La trama, molto sommariamente, potrebbe essere questa. Eppure, in Via Gemito, c'è anche molto di più: è un romanzo di detti e contraddetti, di passioni brucianti e non dette, di parole trattenute, di rancori maturati a lungo e mai confessati. Mimì matura negli anni una vera e propria ossessione nei confronti dell'odiato padre: è la pietra di paragone per ogni suo ragionamento, il suo antimodello che a tratti, inconfessabilmente, diventa l'esempio da seguire. Dopo libri incentrati sulle vicende scolastiche, Starnone produce un romanzo molto importante, forse il romanzo della vita: si destreggia tra tematiche diverse, registri diversi (il colto del suo italiano e il dialetto nelle sue forme più brutali) senza per questo diventare dispersivo. La storia si svolge su due piani: Mimì adulto che cerca, senza quasi mai trovarle, tracce del suo passato nella Napoli di oggi, e il Mimì bambino che rievoca quegli anni tremendi, segnati da scoperte dolorose, da privazioni più psicologiche che materiali, in quella casa troppo piccola, stretto tra i litigi dei familiari e le vanaglorie del padre, le sue fisse, le sue paranoie. Via Gemito è un romanzo senza speranza. Una voce composta, analitica, che disseziona infanzia e adolescenza fino a rivelarne il misero midollo, depurando il discorso della memoria da ogni fronzolo ed eliminando con gesto rabbioso qualsiasi aura mitica. Non c'è niente di mitico nell'infanzia; di più: non c'è niente di mitico nella famiglia, luogo isolato e sperduto in cui accade di tutto e in cui si consumano le abiezioni e le vigliaccherie che segnano per tutta la vita. L'autore riesce a tratteggiare una figura imponente nella sua sguaiataggine: quella di Federì, in bilico tra l'eroismo della propria ostinazione (riuscirà a diventare un grande pittore) e il suo carattere iniquo, fanfarone, apertamente violento nei confronti della moglie. Via Gemito è lo sguardo sconsolato di un figlio che raccatta i cocci della propria infanzia senza riuscire a ricomporli, senza trovare altro che qualche macchia di serenità sulle incrostazioni di una vita vissuta male, rifiutata. Il mondo di via Gemito è un microcosmo dolente, dove i bambini, per quanto vezzeggiati, non contano. Sono nutriti, sbandierati, ma non ascoltati. E il Mimì adulto ricorda tutto, annota, ricerca, pur sapendo bene che il ricordo "è il primo stadio della menzogna". A fare da contraltare allo strapotere chiassoso di Federì, la placida e mansueta Rusiné: animale sacrificale, predestinata al martirio e all'incuria, incapace di imporsi nella memoria del figlio se non per la sua colpevole mansuetudine, e per il persistente senso di pena che le ispira la sua ingenua e rassegnata accettazione, visto che nonostante le botte e le umiliazioni ama il marito. Il romanzo, per quanto corposo, è ambientato in quattro mura, come in una tragedia da camera. Scritto con il sangue, ma anche con la ragione, scorrevole quanto basta, colto, ma con un retroterra popolare che l'autore, giustamente, non fa nulla per nascondere. Non so dire se Via Gemito sia il romanzo italiano più importante degli ultimi vent'anni. Di sicuro è uno dei più significativi che ho letto io negli ultimi dieci. Lo è per la sua forza compressa, per la sua straordinaria capacità mimetica. Si sente l'influenza di Proust, ma in termini rovesciati, senza redenzione finale, senza comprensione né perdono; forse c'è anche il Controcorrente di Huysmans, per la sensibilità rivolta al disagio interiore.

vent'anni dopo

Se non rimarrà Alberto Moravia nella storia della letteratura europea del novecento, mi chiedo chi rimarrà. La riflessione mi è venuta in margine all'articolo di un giornalista che di solito si occupa di cronaca giudiziaria e che senza molti argomenti si è lanciato in un tentativo di analisi critico letteraria il cui valore non è degno nemmeno di una burla. Moravia rimarrà perché è stato uno scrittore puro, che ha attraversato il novecento dal versante letterario: lo ha sublimato e ne ha tratto alcune impressioni fondanti che riguardano non solo il nostro passato ma anche il nostro futuro. Ha capito per primo il disfacimento del mondo borghese (Gli indifferenti), è stato tra i primi a captare due temi eminentemente logici e psicologici e a travasarli in letteratura, come la tautologia e la coazione a ripetere (La noia). In generale nella sua opera c'è una grande lezione esistenzialista: l'uomo post industriale è una creatura lontana da sé. Alienata, come preconizzò Marx. Ma al di là dell'esistenzialismo Moravia è stato un genere a sé; imitato, copiato, emulato. Soprattutto, il suo italiano è stato ed è ancora uno dei migliori che siano stati espressi nelle lettere contemporanee: essenziale, preciso, ma al tempo stesso ricco di suoni e sfumature. Lo scrittore ha raccolto grandi successi, ma è anche stato trafitto da numerosi giudizi ingenerosi. Nessuno gli ha perdonato il suo successo, specie internazionale, visto che è uno di pochi italiani che abbiano varcato i confini e che si siano imposti in panorami difficili come quello francese e anglosassone. Non ha lasciato eredi; del codazzo cortigiano che lo seguiva in vita non è rimasto quasi nessuno. Tra le biografie è preferibile quella più rara ma meno agiografica di Renzo Paris: Una vita controvoglia. Meglio della lunga intervista di Elkann.

l'istant fuggente

Gli istant book sono libri di poche pretese, di poche pagine risicate incluse in abbondanti copertine traslucide e cartonate, sul cui fronte campeggia di solito un serioso primo piano, meglio se con gli occhi in bella evidenza, come subdolo tranello per attirare l'attenzione dell'osservatore. Sono libri che non hanno genere: parlano di tutto e di più, con inevitabili concessioni ai temi più alla moda. Gli autori di solito sono noti o notissimi. La stesura e la confezione dei libri avviene a velocità stratosferica, editing compreso. I tempi di solito penosi e umilianti riservati agli altri scrittori sono sorvolati con la rapidità della folgore. Gli autori spaziano. Sono spesso politici, ma anche presentatori televisivi, attorucoli, cialtroni di ogni genere che vendono il proprio nome alla cassaforte di una grossa casa editrice. I nomi e gli occhi di copertina quasi mai corrispondono all'autore effettivo del testo, che è spesso un ghost writer, un forzato della penna cooptato da un barone dell'editoria per esprimere in una lingua il più elementare possibile concetti oltre la soglia dell'ovvio. Nessun pudore da parte del vip che si presta all'operazione, segnatamente squallida e commerciale, anzi. La vanità di entrare, seppure dalla porta del cesso, nel mondo del libro è una vanità alla quale è difficile resistere. Una comparsata in un programma televisivo completerà poi il tutto. La fine che fanno questi libercoli è nota, ma è meglio ribadirla: il macero. Dopodiché di loro non resterà più nulla. I loro presunti autori non si ricorderanno più nemmeno di averli pubblicizzati. L'editoria di massa passerà a qualche altro istant da promuovere. E il bello è che nessuno proverà nemmeno un poco di vergogna.

satyricon

Il tema della satira, a dire la verità, non mi ha mai appassionato granché. In un regime di libera circolazione delle idee e delle opinioni, la satira sarebbe accomunata a tanti altri generi d'espressione e la storia finirebbe lì. Il potere la contrasta, con esiti controproducenti, quando non apertamente ridicoli. La satira è un genere vecchio come il mondo, se ne hanno tracce anche nel mondo etrusco, prima che la satura lanx trovasse la sua definitiva consacrazione nel mondo latino. Con autori come Quintiliano, Orazio, Marziale, che non di rado si lasciavano andare a oscenità ed erano tollerati dal potere. Il giullare è sempre tollerato dal potere, perché le sue armi sono spuntate, generiche, offensive. Si dice che la satira veicoli informazioni che in bocca ad un intellettuale sarebbero passibili di denuncia, ma le rimostranze ridanciane di un comico sono lazzi, niente di più. Un intellettuale, un pensatore, persino un giornalista documenta, argomenta, mette nero su bianco, costringe il forte a misurarsi con la forza dei fatti e delle cifre. La satira strappa delle risate, accomuna la gente in un unico gregge che bela contro il padrone, facendo mucchio, ma allo stesso tempo deresponsabilizzando il singolo: la colpa non è mai del cittadino ma di chi lo comanda, come dire che la società si sviluppa a compartimenti stagni. Il gioco non solo non funziona, ma non ha mai funzionato: nessun giullare ha mai fatto cadere il re, così come nemmeno le penne argute di Marziale e Giovenale servirono mai a scalfire gli apparati di potere. L'importanza politica della satira è un fatto recente, ed è un destro offerto proprio dall'apparato politico stesso che, poiché debole, instabile, fondato su clientele, riesce e vedere pericoli anche nell'innocuo sberleffo di un comico. Il danno, alla fine, è solo di chi si illude che la satira possa sopperire alla mancanza di interesse civico e politico delle persone: secondo me, la vera causa di qualunquismo.

fashion

Verso la fine di un pasto solitario, capito con deplorevole ingenuità sul Tg2. Prima parte: servizi in abbondanza sulla crisi, intervista agli esercenti, massaie al mercato. Su che cosa risparmia signora? Sto attente alle offerte. A che cosa rinuncia? Al cinema e alla pizza. E fin qui siamo al consueto bollettino di quotidiana e rassicurante mediocrità. Mentre mi sbucciavo un'arancia, il fattaccio: il Tg sgorga nei numerosi delta delle sue rubriche. Una ha un titolo che non promette niente di buono: costume e società. Ottimo contenitore per pinzillacchere di ogni risma, marchette, figurine televisive. Il servizio che parte ha tutte le carte in regola per stupire. Cito a memoria: "Il giorno del matrimonio tutto deve essere perfetto, cerimonia, pranzo, vestito. La sposa deve essere al massimo della forma, ma anche la madre della sposa non vuole essere da meno, e neanche la suocera, e allora perché no un ritocchino dal chirurgo plastico?" Tra un frizzo e un lazzo, una musica di sottofondo a casaccio, la vocina irritante dello speaker (la voce di chi ti prende bellamente per le terga) l'arancia mi scappa dalle mani. Ma come? E la crisi? E la massaia coi capelli a crocchio? Niente, un colpo di spugna e si cambia registro, ora siamo nel costume e società, dove i sogni si avverano, la realtà si alleggerisce. E pazienza se il telegiornale assume dei connotati contraddittori, ma che potremmo chiamare tranquillamente schizofrenici: una pacca sulla spalla e una spinta ai consumi, un po' di paese reale (che fa tanto figo dirlo) e un po' di fumo negli occhi, un po' di lacrime e un po' di fashion, così, tanto per ridere, tanto per passare la mezzoretta di "informazione" quotidiana e sentirci tutti più a posto. Sempre più complici e vittime del nostro disastro. Ma con le rughe tirate.

dear Francis

Bella intervista a Francis Ford Coppola, apparsa su Repubblica di qualche giorno fa. Il regista della saga del Padrino e di Apocalypse Now racconta gli ultimi anni, lontano dai grandi budget e dalle produzioni milionarie. Ora fa film a basso costo, che può permettersi di autofinanziarsi, film che, come lui stesso confessa, possono sembrare opera di un regista agli esordi, proprio perché basati su idee forti, che non necessitano di effettacci e di troppi soldi. Quella di Coppola è una lezione di cinema, ma anche di vita. Destino strano il suo: osannato agli albori della sua carriera e quasi dimenticato oggi, alle prese con la mancanza di fiducia del bel mondo di celluloide e con la disaffezione del pubblico, che, si sa, è di appetiti variabili. Non c'è autocommiserazione nelle sue parole, ma una dignità dolente, che in una società dominata dal mito vincente non fa mistero dei propri fiaschi e dei propri ripensamenti. In un'epoca in cui la tecnica sta prendendo il sopravvento sull'uomo e sulle sue idee (e la finta rivoluzione del 3D non fa che andare in questo senso), Coppola si chiama fuori. Continua a lavorare, ma lo fa per passione, anche perché può permettersi di non dare spiegazioni a nessuno e di continuare la sua ricerca espressiva nei modi e nei tempi che più ritiene opportuni. Come regista può piacere o meno, ma da un punto di vista strettamente artistico la sua presa di posizione, ancorché in parte forzata dalle assurde logiche del mercato, non può che fari riflettere. C'è chi ha delle storie da raccontare e chi preferisce i film giocattolo, unico ambito in cui dare sfogo alle peripezie tridimensionali, nuova frontiera che cede ad una tecnica ancora un po' di capacità di pensare. C'è chi prende il treno e chi preferisce rimanere alla stazione, fumando un sigaro.

è sempre un onore

Qual è la distinzione che passa tra disfattismo e critica, tra cattiva pubblicità e libertà di dire quello che si vuole? Le recenti polemiche in merito al docufilm di Sabina Guzzanti riaprono un capitolo che in qualsiasi paese normale sarebbe rimasto chiuso. Ossia: un governo, qualunque esso sia, accetta la critica, anche pesante, anche a suo dire ingiusta. Incassa e presenzia. La difesa del "ci dileggiano coi soldi pubblici" non attacca. Si potrebbe dire che anche il Tg1 dileggia noi tutti e ogni buonsenso ogni sera, eppure lo sopportiamo, così come sopportiamo la lottizzazione Rai da parte dei partiti e di un partito in particolare. Uno Stato, se non è un regime, sovvenziona anche quelli che la pensano in modo differente, mi viene da dire: soprattutto quelli che la pensano in modo differente, per essere al di sopra di ogni sospetto. Se per assurdo fosse stato presentato a Cannes uno spropositato panegirico in elogio del governo italiano, il ministro dei beni culturali sicuramente avrebbe applaudito alla prima. Ed è qui che si scopre il giochino: comodo sostenere gli amici e sputare su chi ti dice che sei in torto, dando sempre più l'impressione che i ministri italiani siano ogni giorno di più ministri di una parte d'Italia, di un partito, di una fazione, e non piuttosto i ministri di tutti, che agiscono nell'interesse di tutti. Anche i film sono prodotti italiani da difendere, al pari dell'olio di oliva e dei vestiti. Censurare la voce di qualcuno, chiunque sia, è sempre uno scandalo; tentare di farlo giustificandosi con l'onor di patria è addirittura spregevole. Di questo passo non potremo più fare le corna ai nostri vicini nelle foto ufficiali e non potremo più lasciarci andare ad apprezzamenti alle donne ministro degli altri paesi. Si sa che l'onore prima di tutto.

cinematotragica

Uno degli ultimi grandi registi italiani, Marco Bellocchio, rilancia il problema del taglio fondi al cinema italiano, con una formula assai chiara: "A questo governo del cinema non gliene frega niente." E' vero. D'altra parte da Mister B e soci non era lecito aspettarsi niente di diverso. Forse, e dico forse, se le lamentele dovessero influire sugli indici di gradimento perlomeno di un 2%, elargirà una mancia, una tantum, giusto per non apparire insensibile, ma non c'è da attendere altro. Viviamo di un paradosso: un film per avere ragione d'essere deve produrre utili a prescindere, il che, in un'ottica di mercato, è una considerazione più che vera. Ma lo Stato, in quanto espressione della collettività, deve permettere alle opere di qualità di emergere comunque, e di avere una possibilità, anche in perdita. Capisco che agli imprenditori (e di riflesso al governo) non importi niente, ma è proprio in questo che si distingue uno Stato da un'accolita di affaristi. Parlo per gli autori giovani ed emergenti, ovviamente. Per gli autori affermati, per esempio, si potrebbero chiudere i rubinetti. Investire unicamente sui giovani, per favorire, finalmente, un ricambio e scardinare l'oligarchia di registi e sceneggiatori che hanno occupato in pianta stabile ogni spazio. I nomi li sanno tutti. Quei venti personaggi che raccontano da anni la stessa solfa: ecco, per loro basta soldi. E basta film già che ci siamo, se ritengono proprio di dover parlare di famiglia e di supermercati se li producano da sé le loro creazioni. Come ha fatto Werner Herzog, per esempio, e per film come Fitzcarraldo, non menate come Tutta la vita davanti. Più che di mezzi, è un problema di distribuzione e di visibilità, un po' per colpa dei succitati monoliti e un po' per la vigliaccheria delle case di produzione. Se solo ci fosse la volontà e il coraggio di recidere i rami secchi una soluzione si potrebbe anche trovare.

Francesco e Lucio, la loro storia la mia storia

C'erano sul palco quei due vecchi ragazzi, con le chitarre, il sassofono, il pianoforte. Hanno suonato per due ore e mezza, riuscendo a comporre un significativo, ma per forza di cose incompleto, mosaico delle rispettive carriere. Francesco De Gregori e Lucio Dalla hanno miscelato la loro storia, combinando voci e sangue, impastando lacrime e sorrisi, fino a servire sul piatto una fetta non indifferente della storia di ciascuno dei presenti. Vederli all'opera, sentire le loro voci e la loro arte è stato come guardarsi allo specchio, almeno per quello che mi riguarda. Trentuno anni dopo la loro prima esperienza concertistica insieme, ci hanno riprovato, ed è stato un successo; non è stato un revival, non "una messa cantata" come ha affettuosamente avvertito Francesco prima dell'inizio, ma una sorta di percorso cantato, dove il repertorio si è sposato ai moderni arrangiamenti e le parole hanno trovato in ogni caso la loro esatta collocazione. Con naturalezza, con stile, con amore. Niente è stato casuale ma tutto è stato felicemente spontaneo in questo Work in progress tour. Le canzoni sono fluite lievi ma dense agli Arcimboldi, e ci hanno lasciato nudi, tutti quanti, di fronte ad un pezzo della nostra vita collettiva che si è palesato sotto i nostri occhi, senza infingimenti, senza inutili preamboli. Il suono è stato pieno, elegante, rinnovato rispetto al passato, ma con una carica ugualmente sincera, e molto colta. La sonorità è cambiata rispetto a Banana Republic: è meno secca, meno "di corda" e ha virato piuttosto verso tonalità jazzistiche, come dimostra anche la formazione musicale, composita e ricercata, rigorosa ma allo stesso tempo libera e improvvisa. Il repertorio ha spaziato dai superclassici come La donna cannone e
Caruso a brani meno noti, come Henna e I matti, rappresentazioni significative della storia personale dei due autori che si scambiano con la cronaca e con la letteratura, allergiche alla melodia facile, ai concetti facili e in generale a qualsiasi forma di accatto melodico o sentimentale. Impressionante l'impatto di brani come L'anno che verrà, Futura, Buonanotte fiorellino in un nuovo, ispirato e potente arrangiamento. E poi c'erano loro due. Dalla e De Gregori. Due giganti. A De Gregori devo moltissimo in termini umani e culturali, ma non starò qui a farla lunga. Sono ormai qualcosa di più che cantautori, anche se loro rifiutano qualsiasi etichetta che non sia segnatamente musicale. Il loro repertorio è sconfinato, imprevedibile, tanto che ad ogni brano si è costretti ad ammettere: sì, anche questa l'hanno scritta loro. E l'hanno fatto con passione, mi viene da dire senza secondi fini: l'hanno fatto perché era giusto farlo, perché le loro canzoni sono esperienze che hanno a che vedere con l'esistenziale, e che non hanno nulla da spartire con i ricatti del sentimentalismo, con il motivetto orecchiabile, ma accedono ormai ad un territorio fatto di idee e di immagini. Dalla e De Gregori sono in grande forma. Voce (tanta, veramente tanta), competenza musicale, voglia di divertirsi, ma anche di rimettersi in discussione. Possono permettersi di fare quello che vogliono. Nessuna scuola televisiva alle loro spalle. Niente pop. Niente professori televisivi. Niente televoti. Niente talent show. Ci sono solo loro, una chitarra, un clarinetto. E che Dio li protegga per il bene di noi tutti.

fuori porta, a Cinecittà

Gli incentivi per sostenere il nostro cinema sono proprio pochi. Le proposte non mancano, ma sono tutte perfettamente dimenticabili. Un titolo vale l'altro, non serve nemmeno citarli. Dopo qualche flebile segnale di vita (vedi Il divo, il discutibile Gomorra, e persino quel pastrocchio di Baarìa, che perlomeno hanno segnalato un qualche approccio costruttivo) è calata di nuovo la notte. I registi sono sempre gli stessi, gli attori sempre quelli. Un giochino: fare un controllo incrociato delle pellicole a larga distribuzione, i risultati saranno davvero divertenti, o drammatici, dipende da come la si prende. I nomi dei registi che compaiono non sono più di una dozzina, e per gli attori le cifre sono poco più alte. In altre parole: il cinema è in mano ad un piccolo club di irriducibili. Il ventaglio di proposte spazia di pochi gradi: dalla pellicola con pretese di documento sociale ai panettoni più brutali. E poi niente, sembra che il cinema italiano non sia in grado di esprimersi con alfabeti diversi: non un tentativo di innovazione, non un tentativo di cambiamento. Eppure gli spaghetti western sono nati proprio qui, e negli anni settanta esisteva una più che decente produzione di film d'azione, di film d'avventura, oltre che di numerose pellicole d'autore. Altri tempi si potrà obiettare. Il cinema italiano di oggi è come non mai piccolo borghese: luoghi d'azione sono la città, gli appartamenti, i luoghi di lavoro, le scuole. Al centro degli interessi la famiglia: disastrata, frammentata, impotente. Gli intrecci i soliti: le corna, i figli, le mogli, i mariti, la disoccupazione, i call center, le badanti. Altri ingredienti non se ne conoscono. Strano, perché tutte le volte che questi presunti geni della regia nostrana si producono in gloriose interviste sembra quasi che il cinema l'abbiano inventato loro. Dicono "il mio film, il mio cinema". Perlomeno se ne prendono la responsabilità.

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Guardare almeno ogni tanto Report su Raitre significa farsi un'idea un po' meno approssimativa del paese in cui viviamo; sfrondato dai lustrini, privato degli effetti speciali; quel che resta di una nazione al netto degli ultimi quindici vent'anni di presunto buongoverno. Un paese marcio, collassato, invaso da un'orda di approfittatori, di squali senza scrupoli. Tutti con un denominatore: l'appartenenza ad una lobby, ossia un potere forte, una loggia più o meno segreta che muove pressioni, si appropria di denaro pubblico, fa i fattacci suoi al di fuori di qualsiasi controllo. In comune, tutti questi signori, hanno anche delle discrete facce da culo; facce di gente che la fa sempre franca, che gestisce soldi, potere, mezzi in virtù del niente. Niente concorsi, niente trasparenza, niente di niente. Hanno anche un altro fattore comune questi individui di potere: amano le privatizzazioni, il privato in genere e odiano tutto quanto è pubblico. Comprese quelle leggi che di tanto in tanto si permettono di arrecargli qualche fastidio, intralciandoli nei loro affari. L'altra faccia dell'Italia in questa fase storica è quella di una repubblica che sta venendo a patti col diavolo, cedendo, un poco alla volta e in cambio di niente, quella rete sociale che finora ha impedito il disastro. Come diceva Adam Smith, la democrazia e il capitalismo si conciliano solo a fronte di una tassazione che permetta il mantenimento di un forte stato sociale, fatto di istruzione, assistenza, sanità e di tutti quegli accorgimenti che oggi chiamiamo welfare. Sapesse il povero Smith la strada che stiamo imboccando: nemmeno gli ospedali e le scuole sono stati risparmiati, e ora vengono chiamati "aziende", oggetto, come tutto il resto, degli appetiti senza fine di chiunque voglia specularci un po', del primo pirata che si traveste da imprenditore, che ci racconta la favola del siamo tutti sulla stessa barca, i nostri interessi sono uguali. Come no.

Modigliani a Gallarate


Bella e struggente la mostra che la città di Gallarate dedica ad Amedeo Modigliani. L'artista che con fin troppa facilità si tende a liquidare come maudit, corpo estraneo che ha trovato una sua dimensione nel ribollente magma culturale della Parigi a cavallo della Grande Guerra. In realtà Modigliani è molto di più: un apolide dell'arte, un frequentatore assiduo di modelli umani, di soggetti con i quali ingaggerà dei violenti corpo a corpo, allo scopo di catturarne l'essenza in pochi, limpidi tratti. Nonostante la vita difficile e fuori dagli schemi, nella sua arte non c'è traccia di volgarità: non un cedimento, non una concessione; ogni opera può dirsi aristocratica, perfetta entro la sua cornice estetica e a tratti visionaria, capace di deformare la realtà rimanendone misteriosamente fedele. Un'arte la sua, vissuta giorno per giorno, in ogni attimo, in ogni frazione di secondo: lo testimoniano i numerosi disegni, le bozze, i progetti, gli schizzi lasciati come eccedenza d'arte sugli involti di una pasticceria, su un pacchetto di fiammiferi, sul retro di altre tele. Modigliani è l'artista che brutalizza il suo talento: lo immiserisce, lo umilia, lo calpesta ben sapendo di poterlo ritrovare intatto e ancora più splendente un attimo dopo. La mostra evidenzia questi dettagli, provando anche ad addentrarsi nella sua vita privata, cercando tracce, elementi utili alla comprensione dall'infanzia fino alla sua tormentata vita sentimentale. L'artista livornese diventa paradigma di un'altra epoca, ultimo figlio di una tradizione artistica e culturale ancora in grado di mettere l'uomo al centro dei suoi interessi: un concetto di modernità per certi versi spiazzante, decisamente in opposizione al meccanicismo cartesiano e non. E se l'arte moderna fosse passata più attraverso i canoni di Modigliani che attraverso quelli di Beauchamp? Non avremo mai una risposta. Accontentiamoci di quello che abbiamo, che non è poco.