fuori porta, a Cinecittà

Gli incentivi per sostenere il nostro cinema sono proprio pochi. Le proposte non mancano, ma sono tutte perfettamente dimenticabili. Un titolo vale l'altro, non serve nemmeno citarli. Dopo qualche flebile segnale di vita (vedi Il divo, il discutibile Gomorra, e persino quel pastrocchio di Baarìa, che perlomeno hanno segnalato un qualche approccio costruttivo) è calata di nuovo la notte. I registi sono sempre gli stessi, gli attori sempre quelli. Un giochino: fare un controllo incrociato delle pellicole a larga distribuzione, i risultati saranno davvero divertenti, o drammatici, dipende da come la si prende. I nomi dei registi che compaiono non sono più di una dozzina, e per gli attori le cifre sono poco più alte. In altre parole: il cinema è in mano ad un piccolo club di irriducibili. Il ventaglio di proposte spazia di pochi gradi: dalla pellicola con pretese di documento sociale ai panettoni più brutali. E poi niente, sembra che il cinema italiano non sia in grado di esprimersi con alfabeti diversi: non un tentativo di innovazione, non un tentativo di cambiamento. Eppure gli spaghetti western sono nati proprio qui, e negli anni settanta esisteva una più che decente produzione di film d'azione, di film d'avventura, oltre che di numerose pellicole d'autore. Altri tempi si potrà obiettare. Il cinema italiano di oggi è come non mai piccolo borghese: luoghi d'azione sono la città, gli appartamenti, i luoghi di lavoro, le scuole. Al centro degli interessi la famiglia: disastrata, frammentata, impotente. Gli intrecci i soliti: le corna, i figli, le mogli, i mariti, la disoccupazione, i call center, le badanti. Altri ingredienti non se ne conoscono. Strano, perché tutte le volte che questi presunti geni della regia nostrana si producono in gloriose interviste sembra quasi che il cinema l'abbiano inventato loro. Dicono "il mio film, il mio cinema". Perlomeno se ne prendono la responsabilità.

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