l'intervista a Jean Luc Meyer




Pubblico qui di seguito l'intervista rilasciata a Jean Luc Meyer, corrispondente del periodico indipendente parigino Matinee Parisienne.


INTERVISTA
Signor Terragni, dopo aver letto il suo romanzo si ha l’impressione di aver attraversato un cataclisma per poi ritrovarsi al punto di partenza, è un effetto voluto?
In un certo senso direi di sì, è una cosa che accade anche con i cataclismi veri e propri se guardiamo bene. Ci sono delle prove a seguito delle quali non è detto che si sia migliori o peggiori, si può anche rimanere ostinatamente uguali a se stessi.
Ed è un bene o un male secondo lei?
E’ una semplice circostanza, un luogo neutro.
Non le pare di essere un po’ pessimista a riguardo?
Quella del pessimismo è una storia che mi viene affibbiata da quando sono piccolo, ma è fondamentalmente un falso, un modo per liquidare una questione importante come quella dell’arbitrio con una parola trita: pessimista. Non significa niente. Non esiste il pessimismo, esiste la percezione delle cose.
E lei ha una percezione di che tipo?
Voi francesi avete una bellissima parola, una delle tante della vostra splendida lingua, che è cafard, un misto di noia esistenziale e di malinconia, con un sottofondo quasi ironico. E’ un termine languido, che dà una sensazione al tempo stesso vaga e precisa.
Un uomo da abbattere è attraversato da questo filo rosso infatti.
Certo, non avrebbe potuto essere altrimenti, mi fa piacere che sia evidente, così almeno una cosa sono riuscito a dirla: il protagonista lotta con le ombre, perché di lotta si tratta, ma è una lotta strana, che lui non cerca, in cui semplicemente, banalmente direi, si trova invischiato, da cui la noia, noia badi bene moraviana, non la noia del “non sapere che fare”, quella non c’entra nulla.
Può definire meglio che cosa intende per “noia”?
Lo ha già detto Moravia molto meglio di me: noia è la costrizione imposta dall’esterno, quella costrizione a cui non ci abitua mai del tutto se si ha un minimo di consapevolezza. Noia è coazione a ripetere, è meccanicità, automatismo.
Lei ha appena fatto riferimento a Moravia, è stato un suo modello? Ce ne sono stati anche degli altri?
Moravia è stato uno dei maggiori scrittori italiani del novecento, c’è poco da fare, e a me piace molto, specie nei suoi capolavori, come La noia appunto, ma anche come Gli indifferenti e Il disprezzo aggiungerei. E’ un modello di bell’italiano soprattutto, e poi di pulizia formale. Oltre a lui non posso non citare Parise, senza il quale probabilmente non avrei cominciato a scrivere in prosa, e poi gli americani Hemingway, Faulkner, Saul Bellow, tra gli scrittori francesi certamente il Cèline di Viaggio al termine della notte. Sono modelli altissimi, niente che possa raggiungere, nemmeno in prospettiva.
Si è coltivato molto come lettore?
Molto, sì. Ci sono giorni della mia vita in cui posso dire di non aver fatto altro che leggere, in modo bulimico, forse anche eccessivo. Era una lettura disperata che poco o nulla aveva a che fare con il piacere estetico.
Nel suo romanzo d’esordio si nota una certa tensione filosofica.
Anche la filosofia ha avuto il suo peso. Penso all’esistenzialismo, al concetto di ex sistere, e alla conseguente coscienza di esistere, che nelle parole di Sartre trova una sua disposizione concettuale schematica, precisa, ma anche al pensiero asistematico di Cioran, che ha avuto un fortissimo peso nella mia formazione. E poi Nietzsche ovviamente, ma ormai lo citano tutti, a vanvera perlopiù, per cui mi taccio. Sapesse la gente quante bugie infamanti sono state dette sul suo conto. Ci sarebbe molto altro da dire, anche per quanto riguarda la lettura narrativa: è molto difficile parlare della propria esperienza di lettore, perché si tratta quasi sempre di un mosaico molto elaborato, con ramificazioni infinite, possibilità combinatorie senza limiti, come in un racconto di Borges. Riassumendo posso dire di credere ad una religione del dubbio, che è un ossimoro, ma che è anche l’unica definizione che posso tentare di dare: non un concetto dogmatico, ma filosofico appunto.
Pensa che Un uomo da abbattere possa piacere al pubblico francese?
Bella domanda. Non lo so onestamente. Penso che prima di tutto occorrerebbe una buona traduzione, ma vista l’assonanza tra le lingue non dovrebbe esserci problema, per quanto riguarda le tematiche direi che potrebbe esserci una certa vicinanza circa l’umore generale che si avverte. In fondo è la Francia che ha inoculato nel mondo occidentale il virus positivo del dubbio critico.
In che cosa le assomiglia Diego Moliterni, il protagonista?
Nella disposizione mentale, probabilmente. E poi nell’approccio alle cose. Ho pensato a come avrei reagito io in un contesto simile. C’è anche qualche somiglianza fisica tra me e lui, anche se Diego ha qualche anno più di me. Ad ogni modo credo poco all’identificazione autore personaggio.
Pensa che ci sarà un seguito?
Non credo. In genere non mi piacciono molto le storie a puntate, sono disoneste. Se Diego Moliterni dovesse tornare sarebbe per una storia di tutt’altro genere. Un uomo da abbattere è concluso, finito nel numero delle sue pagine, proseguire sarebbe un atto di disonestà nei confronti del lettore.
Lei viene dalla poesia, ne ha scritte a centinaia, come mai il passaggio alla narrativa?
Scrivo in prosa da tempo. Scrivevo poesie soprattutto intorno ai sedici, diciotto anni, la narrativa è arrivata in quel periodo, a ruota, ma in modo molto spontaneo, senza forzature, forse in risposta al bisogno di ordine che avevo. La narrativa, anche quella apparentemente più sregolata, necessita di una struttura interna. Anche l’Ulisse di Joyce ha una tensione strutturale fortissima, tanto per fare un esempio, eppure tratta del flusso di coscienza e ha un’andatura saltellante, svagata. Ma è solo apparenza, dietro c’è sempre un lavoro disciplinato. La poesie risponde ad esigenze diverse, e può vivere anche sull’ispirazione, non sempre ma in qualche caso sì, la narrativa no, non credo, anche se qualsiasi tentativo di paragone può risolversi solo nel ridicolo.
Il suo prossimo progetto?
In questi giorni sto scrivendo un racconto che è per così dire degenerato in un romanzo breve. Poi nel cassetto ho altri cinque romanzi già pronti, più un centinaio di racconti e tutte le poesie. Tutto inedito da parecchio tempo. Mi sono portato avanti col lavoro per un paio di vite.
Ne fa una questione di quantità?
Per niente. Solo che se uno decide di scrivere fa bene a farlo con convinzione. Se uno crede di avere un’idea fa bene a svilupparla. Si tratta anche di avere passione artigiana per la parola. Chi se ne importa se uno scrive tanto? Forse qualcuno va ad impicciarsi delle cause che patrocina un avvocato? No ovviamente. Con chi scrive c’è sempre una certa forma di supponenza, per non dire di sospetto, e la cosa irrita, c’è poco da fare.
Jean Luc Meyer, Matinee Parisienne®