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crisis

Quando ho sentito l'ex premier evocare ancora i comunisti - dopo la mesta conclusione del suo quasi ventennale papato e dopo che il Pd ha fatto e sta facendo di tutto per sconfessare anche quel poco di sinistra che albergava nel suo cuore - mi sono messo a ridere. Una risata isterica, d'accordo, ma pur sempre una risata. Di quelle che si riservano agli assurdi della vita, alle prese in giro quotidiane, agli escrementi del piccione sulla giacca nuova. Rincarava, l'anziano ex premier: parlava di famiglia e di valori. Siamo al teatro dell'assurdo. Diversi giornalisti si sono divertiti a ribattere al comico involontario con l'ovvio, parlando di campagna elettorale anticipata. Mettiamo che abbiano ragione: siamo alla prova del nove. Se questi infimi argomenti hanno ancora presa sull'elettorato, allora l'Italia è messa peggio di quanto credessimo. Perché estrarre dal cassetto ancora le solfe sul comunismo e la famiglia, dopo 17 anni anni, al netto del fallimento politico del berlusconismo e al netto dello sbaraglio morale in cui questa tremenda stagione è alla fine affogata, significa prendere in giro le persone. Vedremo se gli elettori avranno voglia di cascarci ancora. Ho letto in questi giorni una bella definizione di Illuminismo, non a caso di Immanuel Kant: Illuminismo è avere il coraggio di servirsi del proprio intelletto. Chiara, netta, senza compromessi. E scandalosa se posso aggiungere, perché niente di questi tempi appare tanto rischioso e impopolare quanto provare a ragionare con la propria testa. Alle tante crisi di cui siamo vittime, forse andrebbe anche aggiunta quella definitiva: la crisi delle idee, per la quale non c'è spread che conti, specie se il rimedio consiste nelle promesse a vanvera di un anziano signore.

dissesti tecnici

L'Italia che si sbriciola sotto i colpi della natura indifferente è un po' la fotografia, spietata e senza sconti, di un paese a metà tra i sogni di rilancio e la miseria del contingente. Non c'è possibilità di scampo dai filmati amatoriali che ci mostrano i fiumi di fango, i cassonetti che prendono il largo, le urla della gente, le lamiere semisommerse delle auto alla deriva. La verità di queste immagini senza commento, accompagnate solo dallo sciabordio irreale di quella massa di acqua fangosa, è molto più potente di qualsiasi tentativo di analisi. Credo che per ripartire a ragionare sui perché e i percome dei destini italiani si debba ricominciare da qui, dalla povera realtà umana impotente di fronte alla tragedia, oggi come ieri, ieri come sempre. E non tanto o non solo dai resoconti numerici di una finanza ormai del tutto sganciata dai bisogni e dalle aspettative dei popoli. Si parla di concretezza, di fare, di riforme, di quaresima, ma io mi chiedo: che cosa c'è di più concreto di un territorio che muore? Della vita che si riscopre fragile di fronte all'incombenza della natura? Della paura atavica di avere a che fare con qualcosa di più grande di noi? Accettiamo pure questo governo tecnico se serve a tranquillizzare gli amici europei. Accettiamo di mettere per un momento da parte la sovranità popolare in nome della necessità. Ma sarebbe bello magari sentir spendere ogni tanto qualche parola su questa porzione di mondo che occupiamo: sul "paese" inteso non solo come forza lavoro da sfruttare o come entità astratta o come vacca elettorale da mungere; ma sull'Italia come realtà territoriale, geografica, storica, paesaggistica culturale da difendere e da vivere, perché è qui che viviamo, respiriamo e mangiamo, non in un grafico o nei traffici di una banca. Credo anche che però sia troppo aspettarsi questa cura, questo amore, questa attenzione da parte di un governo tecnico. Che in fondo non rappresenta nessuno, che in fondo non è espressione del sangue di un territorio, di una città, di una comunità. Magari verrò smentito dai fatti. Lo spero.

leggi alla voce responsabilità

Un altro aspetto che mi ha lasciato sgomento, tra i vari strascichi di questa piccola e sconcia caduta degli dei, è l'assoluta mancanza di autocritica della classe dirigente italiana. Non un: "Forse abbiamo sbagliato", non un dubbio passeggero, non un'incertezza. O meglio, incertezze tante, errori a pioggia, ma nessuna analisi. Un po' come sbattere la polvere sotto al tappeto e fare finta che sia tutto in ordine, quando invece in ordine non c'è più niente. Le giravolte della politica italiana, ormai è chiaro, non conoscono quel bene prezioso e inestimabile che è la capacità di riconoscere i propri errori. Altro che responsabilità, di cui tutti si riempiono la bocca. Quando un padrone del vapore continua imperterrito a dire che è bravo, bello, forte, che ha fatto tutto per il meglio, che la colpa di tutto è di una non meglio precisata associazione internazionale demoplutogiudocratica, ci troviamo di fronte al solito doppio salto carpiato della logica, al solito, irragionevole giro di parole con cui si nega una realtà ricostruendone un'altra. Verbale e irreale, forzosa e priva di contraddittorio. Ma siamo in Italia: la colpa è sempre di qualcun altro. Dei mercati, dei governi stranieri, dei giovani. Soprattutto dei giovani, sì, perché sono la parte più scoperta, più facile da accusare, la parte che non ha soldi né avvocati. La parte che non conta un cazzo insomma. Quei giovani che non erano nemmeno nati mentre lorsignori sbranavano le fondamenta del loro futuro allargando il debito pubblico fino ai limiti intollerabili di oggi. Basterebbe così poco per sporcare con un po' di dignità il manto lurido di anni di iniquità e bugie: basterebbe ammettere i propri errori, chiedere scusa, promettere di togliersi dalle palle e di non fare più danni. Togliamoci subito dall'equivoco: non accadrà mai. In conclusione, ieri sera, in un telegiornale, ho sentito un vecchio e malridotto saggista pronunciare con sprezzo la seguente frase: "Abbiamo il dovere di essere crudeli con i giovani." E alla domanda: "Non crede di essere anche lei in parte responsabile per come è messa l'Italia di oggi?" Risposta: "Assolutamente no." Direi che in queste due, semplici frasi c'è il senso di un intero cataclisma.

parlando di donne

Le previsioni sulle nostre sorti politico economiche sono quantomai azzardate e nebulose. Governo di salute nazionale, governo tecnico, rimpastone di tutto e tutti, chi lo sa. C'è un aspetto in questa faccenda che mi ha lasciato perplesso, un dettaglio defilato, a quanto leggo e sento preso in considerazione da pochi: non ci sono donne. Le donne, in questo cambio di rotta, non fanno parte del progetto. Ci sono prostitute che vanno e vengono dai palazzi, vallette che saltano giù dalla barca che affonda, rovinose pasionarie crocifisse dal lifting, ma nient'altro. Non ci sono donne in posizione di potere che possano entrare in lizza per formare un nuovo governo, né donne che rivestano ruoli tali da consentire loro una funzione di controllo e garanzia; in finanza la compagine femminile è assente, nelle alte sfere del governo, pure. Alle poche presenti, e spesso inadeguate (perché non sono uno di quelli che crede che essere donna o uomo sia meglio o peggio a prescindere), è di solito demandato il compito di arrampicarsi sui vetri e fare figuracce. Vista l'aria che tira, non c'è molto margine di cambiamento, e lo stesso si può dire per il resto d'Europa, dove anche lì le facce sono sempre più o meno quelle, e gli stereotipi che incarnano il potere corrispondono in tutto e per tutto ai canoni che hanno dominato in lungo e in largo fino ad adesso. Gli stessi canoni, per intenderci, che hanno determinato uno dei più spaventosi crack finanziari della storia. Non è detto che una classe dirigente con una percentuale appena più decente di donne sarebbe riuscita a fare meglio, ma se tanto mi dà tanto, difficilmente sarebbe riuscita a fare peggio, e se la retorica dell'alternanza avesse un valore e venisse presa sul serio forse sarebbe il caso di metterla in pratica una volta tanto. Ma sì, una bel pensionamento di massa per gli anziani uomini di potere. In fondo le donne sono la maggioranza di questo pianeta, eppure hanno una rappresentativa che dire risicata è dire poco: se ne ricordino magari, i signori padroni, quando straparlano di democrazia, spread e crescita.

generazione di fenomeni


Ho ascoltato l'intervista ad Antonio Scurati nel bel programma di Costanza Melani La banda del book. Mi ha fatto pensare. Diffido ormai degli scrittori che troppo spesso si appellano al termine "generazione" quando parlano di sé. Come si fa a parlare di generazione? Chi o che cosa è? Uno scrittore non è detto debba per forza parlare a nome degli altri, e nemmeno è detto che gli "altri", la generazione in questo caso, debba parlare per lui. Sì, va bene, le mode, la televisione, il vestiario, la musica, sono elementi distintivi con i quali bene o male chiunque nato più o meno nello stesso periodo ha a che fare. Ma forse non è vero nemmeno questo. Voglio dire: pretendere di spiegare gli altri con frasi ultimative tipo: "La nostra generazione ha vissuto attraverso la televisione e non ha fatto esperienze proprie" mi pare abbastanza riduttivo. Ci saranno molti scrittori che si sono formati attraverso l'esperienza diretta, che hanno vissuto, che hanno usato armi e hanno vissuto i campi di battaglia. (Uso l'esempio bellico non a caso, visto che Scurati si definisce esperto in materia pur non avendo alcuna confidenza con l'ambito militare, e adducendo come spiegazione, per l'appunto, che la sua generazione è fatta così, non ha vissuto esperienze dirette). Hemingway diceva che bisogna parlare di ciò che si conosce. E' una buona regola di vita, ma non è una verità assoluta. Ci sono grandi scrittori di fantascienza che hanno gettato uno sguardo sulla realtà umana senza mai essere stati in orbita attorno ad un pianeta, senza aver mai sperimentato l'assenza di gravità, senza aver mai conosciuto esseri intelligenti provenienti da altri mondi. Ma non solo: Orwell non ha sperimentato sulla propria pelle le insidie del 1984, eppure il suo romanzo ha preconizzato molti aspetti dei decenni che sarebbero seguiti. In altre parole: non credo ci siano regole fisse, non ci sono consegne una volta per tutte, come molti autori vorrebbero far credere. La generazione è una definizione da anagrafe, ma niente di più, a meno che la fenomenologia generazionale non serva a nascondere un vuoto di idee, ma questo è un altro discorso. Di certo quando Scurati ha detto: "Il Vietnam della mia generazione è stata la Guerra del Golfo vista in poltrona" ho sentito un brivido lungo la schiena. Diciamo piuttosto che di guerre intese in senso proprio, con sangue, amputazioni, paura, luridume, cadaveri e malattie, né la sua né la mia generazione ne hanno vissute: non crogioliamoci nell'illusione di poter emettere un giudizio solo perché ne abbiamo sentito parlare alla tv. Del resto è Scurati stesso a contraddirsi: qualcuno la Guerra del Golfo l'ha combattuta davvero, qualcuno è morto. Anche della sua generazione.

un grande e un piccolo uomo


In fondo la verità stava in questo video, e in molti altri spezzoni di triste orrore quotidiano. Il sorriso finto, le pose da venditore, le scemenze a ripetizione. Era tutto sul piatto. Le bugie, gli slogan vuoti, d'accordo, ma c'era, fin dagli anni Ottanta, qualcosa che andava oltre alla superficie patinata e ingannevole di quest'uomo e del suo impero di plastica. C'era un marchio indelebile, una verità ultima che non poteva essere dissimulata sotto la coltre di cerone e di inserzioni pubblicitari: c'era il vuoto. L'inconsistenza assoluta. La mancanza di sostanza. Al suo posto un'illusione, esile come una barzelletta ma grande come una casa: presumere che il mondo fosse un luogo di caccia, e che bastasse avere un po' di faccia tosta, un po' di galanteria cialtrona e tanti soldi per poter fare qualunque cosa. Ad osservare in prospettiva tutto quello che è accaduto negli ultimi lustri, ogni cosa appare evidente: era scritto che finisse così, non poteva andare altrimenti. Eppure il sogno, per un po', ha saputo attrarre tanta gente, in modo tanto massivo quanto anomalo, spiegabile solo tarandosi su parametri di scelta bassissimi, su aspettative a breve termine, sull'illusione di una ricchezza prepotente e sgangherata che era l'opposto della fatica democratica e della civile convivenza. Ora il castello di carte sta franando, va bene, ma il meccanismo che ha consentito lo scempio è ancora vivo, e purtroppo sopravvivrà anche a Berlusconi. Come ha detto qualcuno: il berlusconismo non è morto, tutt'altro. Quel misto di disprezzo per la cultura, di arroganza, di prevaricazione, di depredazione sistematica di ogni bene pubblico è un peso che ancora grava sulle nostre teste, pronto a schiacciare la Repubblica un'altra volta. Ma torniamo al video. Abbiamo a confronto un grande e un piccolo uomo. Fellini, che aveva lo sguardo avanti, il tormento della problematicità e il talento dell'artista, aveva già capito tutto; l'altro, un impresario imbellettato, non aveva capito niente, e gongolava, grottesco, lui sì, come la sua brutta televisione; grottesco come solo la realtà sa essere.

dove soffia il vento?

Casomai non fosse stato ancora chiaro, i sommovimenti della politica intorno alla caduta/strenua resistenza del nostro piccolissimo Cesare ci hanno insegnato quanto poco sia affidabile l'uomo di potere. Cade? Non Cade? Resta? Scappa? E chi lo sa? Intanto ci organizziamo: passo indietro, passo avanti, passo in obliquo; non ci sono alternative di governo, governo di salute nazionale (che chissà che cacchio vuol dire), ma anche discontinuità, continuità e via dicendo. Il politichese si è sbizzarrito nel tentare di trovare sinonimi all'indecoroso andirivieni dei parlamentari da una parte all'altra. E vai con le fazioni, le correnti, gli spifferi, mancano solo i badogliani, i garibaldini e i giolittiani e quasi ci siamo: il quadro sarebbe completo, un quadro alla Bosch magari, tra il grottesco e il vorace. Ma ho ancora la forza (o la debolezza) di indignarmi, e si badi, per una cosa in fondo molto piccola: quei soloni che ora ci insegnano la democrazia e la discontinuità, la costituzionalità e il decoro istituzionale, sono in larga parte quelli che hanno sostenuto il berlusconismo fino all'altro ieri o fino a poche ore fa, sono quelli che hanno accompagnato l'ascesa di questo signore, che si sono fatti garanti della sua buona fede, della sua capacità, del suo fiuto politico. Come dire che fino a ieri non sapevano, non credevano. O forse non vedevano e basta. Non vedevano i pericoli spaventosi inscritti nella disinvoltura berlusconiana: il pressappochismo, lo sfascio democratico, l'uso privato della cosa pubblica, la concezione padronale dello Stato, l'uso sistematico della menzogna, il disprezzo per la cultura, l'odio per il diverso, la politica ridotta a spot permanente. Quasi mi vergogno a scrivere queste cose ora che anche i fedelissimi del nostro gli stanno sputando in faccia, ora che la barca affonda, ora che il bluff è palese, e che anche i più incalliti pasdaràn di regime stanno vagliando le nuove casacche da indossare in futuro. E proprio in ragione di questo pudore ho smesso di aspettare che il crollo arrivi, e ho cominciato a prendere in considerazione l'ipotesi che potrebbe verificarsi domani mattina come tra dieci anni. Visto a chi siamo in mano, mi sembra la precauzione minima.

soddisfatti e rimborsati

E' notizia di oggi (qui il link) che il governo Cameron ha indetto una specie di sondaggio su vasta scala atto a sviscerare una questione: cittadini, siete felici? Pare che l'iniziativa nasca dal suggerimento di due premi Nobel per l'economia (Stiglitz e Sen), sulla scia di quella nobile intuizione kennedyana (di Bob) per cui non può essere solo il Pil a testimoniare il benessere o il malessere di un popolo. E' vero, l'iniziativa suona bene. Domande come: sei soddisfatto del tuo lavoro? Sei soddisfatto di tua moglie/marito? Sei soddisfatto dell'istruzione che hai ricevuto? Possono anche sembrare amichevoli, partecipi, segnale di una rinnovata alleanza Stato/cittadino. Ma forse il tentativo non è poi così convincente. Ci sono dei punti oscuri, che elenco.

1) Odore di operazione simpatia del governo, che nell'impossibilità di dare risposte concrete al disagio ormai endemico della popolazione, tenta una manovra di facciata per ingraziarsi l'elettorato, magari giovane e di sinistra.
2) Che cos'è la felicità? Come si misura? Quale è il parametro con cui si valuta la soddisfazione? In particolare: che cosa significa avere ricevuto o meno un'istruzione soddisfacente?
3) Insomma, sono domande generiche, che tra l'altro non prevedono risposte e usano una parola alla moda e benevola come "felicità" per accattivarsi le simpatie.
4) Suona strano che sia proprio lo Stato - con le sue disastrose scelte economiche e sociali principale responsabile della situazione di crisi odierna - a lisciare il pelo al suo elettorato con un'iniziativa che sa tanto di contentino.
5) A che serve questo sondaggio? E' possibile fidarsi di governi che in materia economica hanno sbagliato tutto quello che potevano sbagliare?

Una trovata del genere, incentrata sulla pericolosa astrazione della felicità, poteva nascere forse solo dalla compagina anglosassone, storicamente legata a concetti quali felicità appunto, soddisfazione, realizzazione di sé. Fin qui niente di male. E' un problema, come dire, di confezione, specie se la sensazione è che la scatola sia vuota.