la parte emozionale


Una frase captata in un ufficio come tanti: "Bisogna imparare a gestire la parte emozionale delle persone." Tralasciando per un attimo la brutta traduzione dell'inglese emotional, lo schematismo verbale di queste poche parole ha qualcosa di sorprendente: è un chiaro segno dei tempi e la resa verbale di un'introiezione di valore. Un valore inteso come prezzo. Gestire le persone per accumulare soldi. Gestire la parte emotiva dell'uomo nei termini di un valore d'uso. Una forma di manipolazione che è molto meno frutto di una strategia aziendale di quanto si potrebbe pensare. Non è un prodotto originale: è l'assunzione di un modello. Quei due dirigenti non stavano tramando un piano subdolo a danno di qualcun altro: stavano solo applicando un modello nel modo più neutro possibile. Una formula appresa in qualche tutorial. Una applicazione ingenua, ma non innocente.
Diceva Jean Baudrillard in un saggio epocale intitolato Lo scambio simbolico e la morte che "Le finalità sono scomparse, sono i modelli che ci generano." Modelli, cioè standard riproducibili. Standard che non generano senso perché essi stessi si pongono nell'ottica autoriferita di un senso che pretende di generarsi da solo. Scuola, istituzioni, politica, lavoro. La possibilità di un significato, in questi e molti altri ambiti, scivola sullo sfondo, come il residuo sgradito di una formazione così detta umanistica (una parola inutile che serve solo come etichetta). Il banale perché delle cose declassato a informazione secondaria, non necessaria. Nell'ottica della performance il significato non ha cittadinanza: regole, burocrazia, modelli di comportamento. Manca uno scopo. Questa assenza è coltivata e non casuale: nasce da un progetto che è insieme sintomo e causa del declino occidentale, un progetto che ha escluso la funzione critica del pensiero - la facoltà di analisi di un fatto - sostituendola con una versione distorta e utilitaristica di razionalità, dove di razionale non c'è nulla, se non che questo comodo riferimento consente di ridurre la logica ad un calcolo quantitativo di vantaggi e svantaggi, spese e ricavi. La presunta efficienza di questi modelli si presenta sotto le spoglie di un'esecuzione tecnica efficace: ma in nome di che cosa? In paragone a cosa? La domanda è inevasa per la semplice ragione che non esistono riferimenti perché non esiste un discorso critico che si sia sviluppato in parallelo all'uso estensivo della tecnica come modello etico/politico della società contemporanea. Sono stati scritti molti libri su questo argomento, da Heidegger a Severino. Ma il problema forse sta trovando la sua compiutezza solo ora, nell'ambito del dissolvimento della funzione critica nel cuore dell'Occidente. Quella morbo della ricerca della causa prima che serpeggia da sempre nella riflessione europea, trova oggi un punto d'arresto mai così definitivo. Scriveva Cartesio nelle Meditazioni metafisiche: "Che cosa dunque sono io? Una cosa che pensa. E che cos'è una cosa che pensa? E' una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che che immagina anche, e che sente". Come dire, tutto ciò che oggi come oggi rappresenta un disvalore all'interno della società tecnocratica e che viene relegato - e forse anche demandato - alla cattiva letteratura e ai film mediocri, dove l'abbondanza di sentimento ingenuo e melenso in qualche modo riassorbe e banalizza al massimo grado tutte quelle istanze morali e psicologiche un tempo indispensabili per la ricerca del sapere (pensiamo per esempio all'ignobile fine del termine romantico). La performance e il relativo accumulo di denaro come modello di base dei valori occidentali - modello sganciato da qualsiasi orizzonte di senso - si presenta allora come una forma contemporanea di nichilismo: l'ottimismo del niente. Quel tipo di ottimismo che nega per principio qualsiasi riflessione sul reale imponendo un modello a senso unico: quello della felicità individuale a portata di mano. Perché la verità non è più una scoperta, ma una cosa che si può creare, se non nel concreto in quell'equivalente generale del concreto che è il digitale. E la cui dimensione si misura in realtà con il solito, vecchio equivalente generale marxiano del denaro. Per questo la "gestione della parte emozionale" è un'affermazione che rappresenta il contemporaneo: perché ne propone i valori nei termini di una manipolazione. Caratteriale, comportamentale, sociale. La correttezza di questo modo di fare non è data da un'etica ma dalla possibilità che questa azione abbia delle ricadute economiche. E' la tecnica che si determina come riferimento di se stessa: come verità autoprodotta.