indietro tutta

A pensarci adesso magari non è proprio il massimo delle aspettative, ma così, in astratto, si può anche provare a ragionarci sopra. Viviamo in una fase storica di conclamato basso impero, di crisi ideale e morale, di generale sfiducia; serpeggia una buona dose di cattiveria, il cinismo dilaga, i confini tra le categorie sono impalpabili. Tutto vero. E allora? Qualcuno ci prova con il revanscismo, con l'arroccamento su posizioni conservatrici che di più non si può; qualcuno cerca la salvezza nelle maglie della religione. Eppure la sensazione è che tutto questo non servirà a niente: la Storia ci insegna che siamo noi stessi il frutto di continui rimescolamenti etnici, culturali, politici. L'Impero Romano è crollato, il Sacro Romano Impero idem; la Francia napoleonica è tramontata, così come l'epoca coloniale. Opporsi alle trasformazioni storiche strappa al massimo un sorriso, perché è un'operazione anacronistica, non politica. Diciamo piuttosto che ci sono buone ragioni per tenere alta la bandiera degli unici due pilastri che possono salvare i nostri tranquilli sonni borghesi: la legalità (e qui ti voglio) e la laicità. La legalità per vincere il pregiudizio e mettere davvero tutti sullo stesso piano e la laicità per creare un humus civile che sia fondato su concetti condivisi, su caposaldi inequivocabili per chiunque voglia dirsi cittadino italiano. Non basterà certo inserire la croce nel tricolore per farci sentire meglio, tanto per intenderci; nella storia del pianeta si sono susseguite migliaia di religioni, migliaia di forme politiche. Le etnie si sono mescolate, si sono estinte, e in ogni caso la specie è andata avanti, con diverse sovrastrutture e soprattutto con valori diversi, e diverse idee di valore. Lo diceva Nietzsche un secolo abbondante fa. Stiamo sperimentando che cosa sia questa genealogia della morale.

la soluzione è a portata

Molti politici amano dedicarsi all'arte del pamphlet: pubblicazioni di solito di scarso valore e di mediocre fattura che propugnano le loro idee, le loro visioni, i loro progetti. Operazioni commerciali il più delle volte, atte ad ingrassare le già ben fornite tasche (non in tanto in diritti quanto in immagine), a fungere da pretesto per comparsate televisive, a servire da cavallo di Troia per lanciare il messaggio cifrato a questo o quell'alleato. La prima domanda è: perché lorsignori non mettono in pratica in prima persona i propri suggerimenti e si sentono in dovere di venirceli a dire a noi? Seconda: ma siamo sicuri che valga la pena di ascoltare le dritte di chi ci ha trascinato al punto in cui siamo? Non so onestamente che cosa stia sotto alla logica del libro del politico, a parte la suddetta smania di immagine e di visibilità. Altri motivi non ne vedo. L'editoria è subissata da pubblicazioni inutili come queste: centinaia di libri usa e getta, buoni forse una settimana, bene che vada un mese. E poi? Poi niente. Cassonetto, sacco viola. Tra dieci anni il nome di molti di questi personaggi non se lo ricorderà più nessuno. Riscopriamo Macchiavelli, Hobbes, Mill, non questi signori prodighi, mi pare tanto, solo di strane strategie e di accordi da bassa cucina. Altro aspetto: spesso questi libelli richiamano concetti come "ripartire", "ricostruire", "tornare a...", come se si rifacessero ad una presunta età dell'oro che non c'è mai stata o se c'è stata è durata pochissimo (ancora questa favola del Boom economico e la Lambretta e il frigorifero? No, dai spero che l'oro non sia quello...). E' una notazione così: a me fa morire di rabbia questo ricorso al rimpianto di un passato che non esiste. Uno di questi indispensabili manuali recita bellamente nel sottotitolo "perché l'Italia deve tornare a pensare in grande". Sarebbe un bell'esercizio ritrovare il momento in cui abbiamo pensato in grande. Colonialismo? Oddio, speriamo di no.

abbassare i toni

Non si sa perché ma ogni tanto il monito arriva, un poco distratto, un poco distante. Abbassare, obliare, confondere. Ma sì, in fondo chi ce lo fa fare di urlare? Abbassiamoli questi toni. Ma dietro una frase così banale, così inutile in fondo, che cosa si cela? A me sembra tanto un desiderio di dimenticanza, di flaccida rimostranza di fronte al chiasso del volgo: basta casino per piacere, stiamo facendo cose importanti qui. Sfugge la sostanza di questo abbassamento, e mai nessuno che ne parli, come se, in fondo, fosse una questione di bon ton, un po' come il tè nel boudoir della dama. Forse qualche volta vale la pena di alzare la voce, quando, per esempio, c'è in gioco il destino della democrazia parlamentare, oppure la libertà di stampa, oppure la sacrosanta antipatia di tutti noi nei confronti della repubblica autoritaria. Ma la mano istituzionale di tanto in tanto si posa: abbassa la tua radio per favor. Paterna, padronale, rassicurante. Non importa quello che accade o non accade, basta non fare rumore, non "dare adito a polemiche". Meraviglioso il commento dell'onorevole: "Opportuno questo richiamo alla pacatezza dei toni". Ma se è una vita che ci raccomandiamo a vicenda toni pacati, fregandocene pacatamente del merito del contendere? Ma forse bisogna abituarsi a questa solfa. Siamo in pieno bon ton: è il come che trionfa sul cosa; la moina che soppianta la sostanza. Forse (altra dubitativa) la dialettica politica si basa su queste sottili alchimie, che sono giochi di parole, gabbie verbali in cui amiamo dimenarci, oggi come cinquant'anni fa. Oggi si dice qualche parolaccia in più, ma insomma, rispetto ai tristi speaker Rai anni sessanta non so quanta strada avanti si sia fatta in quanto a contenuti. Oggi si può anche litigare. Ma a bassa voce, mi raccomando.

domenica

Domenica, lo struscio in centro. Casino per i negozi aperti, il Natale si festeggia in anticipo con i negozi aperti; bastano questi, in fondo, a creare tutta l'atmosfera di cui c'è bisogno. L'inserto domenicale del Sole 24 ore è in crisi nera, visto che abbondano notizie così dette di nicchia, per la serie abbecedari demodè, e a dire il vero non trovo poi molti motivi di interesse. Andamento rilassato delle ore domenicali, con l'esibizione della banda in piazza, qualche bancarella con le castagne e un freddo che non è ancor freddo, ma piuttosto tiepido. La generazione resta a mollo, in ogni caso. Ci ho fatto caso: fa molto figo definire la propria generazione "perduta" o "maledetta" o peggio ancora "eretica"; sarebbe bello svegliare questi signori che si crogiolano sulle braci di battaglie mai avvenute e comunicargli che la loro generazione (ma potremmo dire anche la nostra e la vostra e via dicendo) non solo non ha alcun alone romantico, ma che addirittura è l'antitesi del romanticismo: è squallidamente borghese. Tutti questi poeti maledetti del '68 e del '77 che bene che vada votano Pdl e lavorano in banca quali pretese di eresia potranno mai avere? L'eresia, bisogna conquistarla, meritarla. Altrettanto si può dire della "maledizione", e allora: fatevi maledire, diventate davvero maledetti e perduti, perché altrimenti è un giochino che riesce solo sui libri, e non vale. Gustatevi le caldarroste e lo struscio, che forse è quella l'unica battaglia che vi resta, la rivoluzione della castagna.

un chiarimento importante

Meglio prendere il discorso alla larga. Mi sono imbattuto in Gabriele d'Annunzio molto presto, colpito da una fotografia su un libro di storia che lo ritraeva mentre arringava la folla. Era uno dei comizi che precedettero l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915. Da allora il mito d'Annunzio (o la mitologia dannunziana) ha avuto un ruolo nella mia formazione, e non da poco. Ho letto parecchi volumi e opere monografiche che lo riguardano, mi sono appassionato di storia del novecento, ho visitato svariate volte il Vittoriale di Gardone. In sintesi questi sono solo alcuni dei motivi per cui forse non posso essere del tutto neutrale quando parlo di lui e della sua vita. D'Annunzio è una di quelle figure che seducono, che colpiscono l'immaginario, che fanno capire che forse è davvero tutto possibile, che l'arte in qualche modo diventa chiave universale d'accesso ad una dimensione autenticamente vitale. La mia è stata ed è una passione estetica, dovuta, forse, ad una visione di fondo che condivido: bisogna anteporre l'opera alla vita, ma questo è un discorso che prenderebbe molto tempo. Ho letto proprio oggi un articolo sull'inserto di Repubblica, che in qualche modo accostava la temperie fiumana della Reggenza del Quarnaro ai moderni fenomeni di neofascismo, accreditando il modus vivendi dei Legionari come una specie di protofascismo. Attenzione, perché stiamo giocando con il cristallo. Mi pare tendenzioso questo paragone. Do per scontata la ricostruzione storica (il perché e il percome d'Annunzio occupò Fiume per oltre un anno), ma non posso fare altrettanto con la dinamica che la sottende. L'occupazione di Fiume fu sostanzialmente un'operazione militare fuori da qualunque canone, una scarica di energia che finì presto in nulla, ovverosia nella più totale anarchia, nel baccanale più osceno: la Legione dovette arrangiarsi con la pirateria per non morire di fame (si attuavano già gli embarghi) e le malattie veneree spopolavano tra la truppa e non solo. Ma Fiume d'Italia fu anche un laboratorio politico e creativo senza precedenti. Qui convivevano futuristi, ex arditi, studenti universitari (Giovanni Comisso, mentore a venire di Goffredo Parise), futuristi di sinistra (Mario Carli), futuri strenui oppositori alle leggi razziali come Mino Somenzi, ma anche artisti di ogni genere, donne emancipate, omosessuali (!). La Fiume dannunziana fu un gran casino, d'accordo, ma fu anche il germe di quella spinta libertaria giovane e buona che sarebbe stata la prima vittima dell'oppressione fascista; fu a Fiume che si lanciò l'idea, pazzesca e velleitaria, di una grande internazionale per la "liberazione dei popoli oppressi", a Fiume che per la prima volta si sperimentò la stampa libera e la libera circolazione delle idee (furono stampati e distribuiti decine di fogli culturali). A Fiume, sotto quella specie di anarchismo istituzionalizzato, trovò spazio forse la prima associazione di yoga italiana, lanciata da quel personaggio incredibile e fuori dagli schemi di Guido Keller. Questa è una carrellata rapida e largamente incompleta, ma mi serve come pezza d'appoggio per dire che la definizione di protofascismo affibbiata all'esperienza di Fiume è un'inesattezza storica, perché tradisce quello che fu il contesto umano in cui si svolse, in cui venne alla luce. Il fascismo attinse a piene mani dalla mitologia fiumana (camicie nere, eja eja alalà, saluto romano) ma la travisò, la castrò, si servì di quella forza giovane e anarchica, la domò e la piegò a proprio uso e consumo. Ma dire che la Reggenza italiana del Quarnaro sia un fenomeno fascista è un errore, e grossolano. L'esperienza di Fiume fu un atto di disperata vitalità, di ricerca dell'assoluto, di esperienza estetica che non può essere compreso da tutti, me ne rendo conto; d'Annunzio in quei mesi ha dato voce e vita a tutta una generazione che era uscita con le ossa rotte dalla guerra e che cercava di trovare una collocazione e forse uno sfogo in un'impresa totale e totalizzante. Questa fu Fiume, e basta informarsi seriamente per capire come tutto ciò non abbia niente niente niente a che vedere con l'infamia delle leggi razziali, con la repressione degli oppositori, con il soffocamento della libera stampa, tutt'altro. Il revisionismo dovrebbe servire a chiarire aspetti come questo: far capire la differenza, evitando di banalizzare i contenuti, sbattendo tutto insieme, senza distinguo. Basta con la favola di d'Annunzio ultrafascista, perché è un'inesattezza: come poteva un artista vero, un amante della cultura, della classicità essere fascista? Un fascismo che anni dopo si sarebbe alleato con la Germania nazista, che fu il fumo negli occhi del Vate? Sfogo finito. Ma se qualcuno ha qualcosa da ridire mi faccia sapere, sono pronto a qualsiasi contraddittorio in merito. Due letture, queste sì complete e veritiere: Alla festa della rivoluzione, di Claudia Salaris, edizioni Il Mulino; Il poeta armato, di Antonio Spinosa, Mondadori.

questione di pagine

Può la letteratura essere considerata al chilo, prendendo come parametro oggettivo il numero delle pagine? Un tempo avrei risposto recisamente di no, e ancora oggi propendo per una visione qualitativa di un'opera. Ma non basta fermarsi a questo. Diciamo che qualcuno se n'è approfittato; non un maggioranza magari, ma una consistente e tenace minoranza. Scrittori di romanzi che non sono romanzi, ma racconti gonfiati dall'apparato meramente tipografico, saggetti e saggini di risibile consistenza in cui vengono infilate sentenze e massime di vita al solo scopo di proporre magari più libri suddivisi che raddoppiano gli incassi e dimezzano le fatiche. E' in gioco anche l'onestà dell'autore in un certo senso. Capita troppo spesso di vedere questi bei libretti dai colori invitanti, la rilegatura pesante, i titoli ad effetto (amore, cuore...) le quarte di copertina che sono tutto un tripudio di elogi e di buoni sentimenti, o viceversa delle peggiori infamie (sangue, morte...) per poi scoprire, una volta aperto il volume, corpi tipografici abnormi, spaziature ingiustificate. Colpisce proprio la gestione degli spazi in certe operazioni editoriali: li chiamo libri allo stato gassoso, gonfi di bolle vaporose che ne aumentano il volume ma che lasciano invariata la sostanza. Ma guai a turbare i maestri nella loro pensosa poesia, guai a parlargli di tempi, di metodo, di costanza, di fatica. Soprattutto di fatica. Perché loro si stracceranno le vesti parlando della qualità degli aggettivi, della penosa scelta di ogni dettaglio, del travaglio morale di accenti e sinonimi. Sono quegli scrittori che in tutta la loro vita hanno scritto un libro, forse due, e per di più quai invisibili tanto sono sottili. Dicono che meno si scrive meglio è, di solito. La loro linea Maginot è: si scrive sempre troppo, bisogna leggere, non scrivere. Però poi continuano a scrivere. Poco, ma continuano. Prediligono pubblicare raccolte dei loro imperdibili articoli, aforismi vari, aneddoti, ricordi. Insomma, tutte cose estemporanee, che necessitano di qualche oretta rubacchiata qua e là. Il romanzo? Dicono sia morto. Amen. Forse è per questo che sto rivalutando la scrittura ad ampio respiro, ad alto tasso di impegno, di rischio, di fatica autentica. Pensiamo ai grandi capolavori: Guerra e pace, Delitto e castigo, Moby Dick, Viaggio al termine della notte... In letteratura è bello anche perdersi qualche volta, sia come scrittore che come lettore. Accumulare personaggi, storie, divagazioni, situazioni. Il che naturalmente non contempla minimamente la retorica o la ridondanza. Così come è altrettanto ovvio che la letteratura di taglia più snella può raggiungere vette altrettanto alte (l'opera di Simenon, oppure di Schnitzler). Ma non deve essere un pretesto a carattere venti e a venti euro di prezzo.

ho visto Videocracy

Dopo alcune peripezie sono riuscito a vedere Videocracy, il docufilm del regista svedese Erik Gandini censurato in ogni modo possibile in Italia. L'opera parla, come noto, del connubio perverso tra immagine e potere, ovverosia tra sfruttamento della credulità popolare a mezzo televisivo e il controllo delle masse. L'assunto del docufilm è chiaro: l'80% degli italiani forma la propria idea di politica e di mondo a partire dalle informazioni televisive, dunque chi detiene il potere mediatico automaticamente agguanta anche quello politico. L'operazione di Gandini ha una tesi: esiste una sottile linea rossa che lega il mondo del gossip a quello politico, il sesso alla pratica del potere. In mezzo una serie di personaggi squallidi, di approfittatori e mezzani. Un mondo di culi e tette spacciati a mezzo televisivo, una bolla di promesse non mantenute e cartapesta che distrae sistematicamente gli italiani da tutto ciò che li riguarda sul serio: politiche sociali, integrazione, lavoro, cultura e via dicendo. Per chi è italiano non c'è niente di nuovo: l'effetto devastante che il berlusconismo ha avuto e continua ad avere sulla massa italiana è noto, ma lo stesso fa un certo effetto. In poco più di un'ora abbiamo spiattellata di fronte agli occhi l'essenza stessa di ciò che non funziona in questa nazione, del cancro che si sta espandendo inarrestabile verso tutti gli organi vitali. E' una pellicola a uso estero, principalmente, ma non si può dire che non tocchi apprezzabili vette di verità cronachistica. Se Videocracy ha un difetto è quello di aver accennato appena alla punta dell'iceberg, perché il discorso potrebbe essere ancora più tremendo e umiliante per tutti quelli che, come me come noi, questa penisola la amano ancora e stanno male nel vederla ridotta ad un carnaio di ragazzine disposte a tutto in fila ai provini. Ecco, quei provini sono la sequenza che mi è rimasta più impressa. Queste poveracce truccate in qualche modo che ballano tutte nella stessa maniera, con mamma e papà che fanno il tifo con le labbra unte di patatine. Ma sono impressioni personali: la pena è un'impressione personale, ma è anche un sentimento che potrebbe e dovrebbe diventare universale. Specie se poi chi ha permesso questo strazio sventola la croce appellandosi ai valori. Il film di Gandini serve come grido d'allarme, ed è un lavoro ben fatto checché ne dica qualche maggiordomo: il dramma sta tutto nel non scandalizzarsi più, nel dire che sono cose che si sanno, perché ciò significherebbe assuefazione, e significherebbe essere ad uno stadio molto avanzato della malattia. A molti questa logica dell'apparire piace. Molti fanno vanto della propria felice ignoranza, del ritenere lecito calpestare (o modificare o creare ex novo) le leggi; molti ritengono sacrosanto calpestare il prossimo, spregiare la cultura, sfruttare il corpo femminile come una discarica ormonale. Ma non è per tutti così. Sarebbe bello se questa minoranza si facesse sentire, si opponesse, dicesse "io non sono così, e non voglio esserlo".

ricordando Gadda

Carlo Emilio Gadda è uno degli autori più discussi del panorama letterario del novecento italiano. Autore atipico, che ha lasciato molti insegnamenti ma nessun allievo, scrittore poliedrico, molto amato ma anche assai detestato. Colpa della scelta linguistica? Certo è che Gadda parla e scrive la lingua di Gadda, che è un calderone, un minestrone ribollente di arcaismi, dialettismi, preziosismi e invenzioni sintattiche. Per dirne una lui, lombardo e brianzolo, si cimentò nella sperimentazione vernacolare: Il pasticciaccio è scritto in romanesco. Senza ombra di dubbio Gadda è unico, nonostante alcuni, scadenti emuli. Ma questa unicità ha un prezzo: una zona d'ombra, una specie di area franca entro cui le interpretazioni si sono ora sovrapposte ora apertamente contraddette. Resta la grande ricchezza espressiva, specie in La cognizione del dolore, un romanzo criptico, denso di rimandi personali e privati dell'autore; una storia ingarbugliata, qua e là incomprensibile. Le mie stesse affermazioni risultano contraddittorie, ma tant'è la sostanza variegata della letteratura di Gadda, al punto che più di una critica ha accostato la sua scrittura ad un'impostazione ingegneristica della letteratura (giocando sul fatto che Gadda era ingegnere appunto, ma sono cose stradette). Come dire: molti virtuosismi verbali, forte struttura interna, ma mancanza di autentica tensione, quasi che tutti gli intrecci mancassero della necessaria componente umana propria del fatto letterario. Sono polemiche che durano tutt'ora, e forse non sono del tutto peregrine. Per esempio: qual è la trama della Cognizione del dolore? Un ingegnere hidalgo si muove in un ipotetico Sudamerica che ricorda tanto la Brianza, sua madre muore e... L'intreccio è un viluppo di nomi, situazioni, sottintesi che ne rendono difficoltosa la comprensione. Addirittura non tutti sono sicuri che si tratti di un romanzo effettivamente incompleto, per dire fino a che punto il caso Gadda abbia assunto connotati quasi misterici. Anni fa uscì, anche qui tra molte discussioni, un volume commentato del romanzo, in cui il commento era superiore, in quanto a pagine, al testo nudo e crudo. Un paradosso, probabilmente. Ma un paradosso che vale la pena di tentare di capire. La letteratura prende strade talvolta tortuose per illuminare anche su realtà che appaiono semplici e che poi tanto semplici non sono. Ci sarebbe molto altro da dire su Gadda e non solo su lui. Per esempio: il suo libro che preferisco è una raccolta di saggi, I viaggi, la morte, ma sarebbe necessario spazio e attenzione che qui non ci sono. Basta il ricordo, giusto quello.

il lungo abbandono di Guido Morselli

La parabola di uno scrittore ampiamente incompreso, sottovalutato. La storia di un uomo abbandonato dagli affetti che alla fine ha optato per la scelta più tragica, quella del togliersi la vita, un giorno d'estate del 1973. Libri scritti e puntualmente rifiutati da tutte le case editrici: romanzi e saggi pervasi da una preparazione culturale molto alta, di livello sicuramente superiore alla media. Sono tra i pochi ad aver letto Diario di Morselli, sorta di giornale di bordo della sua deriva: breviario lucido e sofferto dei suoi travagli intellettuali, delle letture, delle scoperte. Facile capire di non trovarsi di fronte ad un uomo banale, ma anche ad uno scrittore che progressivamente sta tagliando i ponti con la vita, con quella gente che lo ha sempre trattato con sospetto e diffidenza. Si ritira nella campagna di Varese, arretra il baricentro, si rifugia nella letteratura, che però, come osserverà anche P.V. Tondelli in punto di morte, "non salva, mai." Restano le sue opere: numerose, belle, profonde. Rimane la sensazione di trovarsi di fronte ad un percorso incompiuto, che forse però ha modo di trovare la sua finitudine e completezza nell'abbraccio dei lettori postumi, che saranno tanti. In Diario non c'è traccia di compatimento, né di lamentazioni: è il lucido carnet di un intellettuale attento e preparato, che annota paziente le linee tematiche delle sue opere a venire. Le sue ossessioni troveranno spazio soprattutto nella sua opera, specie in quel cupo diamante che è Dissipatio H.g., opera ultima e definitiva dove tutti i tasselli troveranno la loro drammatica collocazione. E' un nome che per fortuna si sta riscoprendo, quello di Morselli, ad opera dell'editore Adelphi, proprio quello che tanti anni fa gli disse no. Casi della vita.

una questione genetica

Sarò anche il solito disfattista, pessimista, e via di questo passo, ma di fronte alla notizia secondo cui addirittura il National Geographic, in collaborazione con alcuni movimenti locali definitisi "apartitici", stia eseguendo dei test del DNA sulla popolazione veneziana per salvare il codice genetico a rischio estinzione mi ha fatto sonoramente ridere. Ridere amaro, beninteso. Amo Venezia, è in assoluto una delle città in cui mi sono trovato meglio e in cui torno più volentieri, mi piacerebbe che la salvaguardia della venezianità passasse attraverso la difesa del suo patrimonio storico e culturale più che tramite queste iniziative. Siamo tutti geneticamente bastardi, e il concetto stesso di purezza genetica, oltre che suonare sinistro per le note ragioni storiche, sa anche di anacronistico, di fuori dal mondo: i popoli migrano, si mischiano, si mescolano, acquisiscono impronte genetiche diverse. Ciò che conta è la crescita dell'individuo, il suo sviluppo personale, la sua possibilità di istruirsi e di apprezzare il bello. Tutto il resto, e mi si passi il tono vagamente cattedratico, sono solo sciocchezze. Quale superiorità può esserci nell'appartenere ad un ceppo piuttosto che ad un altro? Nessuna ovviamente. Il pretesto di questa ricerca è ufficialmente storico: ricostruire i movimenti del popolo veneto e capire in quale periodo esso si sia insediato nella laguna, ma aprire un discorso del genere rappresenta un rischio. Quali conseguenze potrebbero nascere da una ricerca di questo tipo? I ceppi sono fatti per disperdersi, basta pensare alla latinità, dispersa tra contatti con i celti, gli africani, gli ispanici, gli asiatici, e allora? Che fine ha fatto il DNA dei macedoni di Alessandro Magno? Boh, e chi se ne frega direi anche. Sarebbe bello riuscire finalmente a capire che l'appartenenza non è un discorso genetico, ma culturale: conoscere, studiare, diventare cittadino d'adozione, credere in certi valori. Se proprio serve qualcuno per ripopolare il centro di Venezia, ad ogni buon conto, mi candido. A canone agevolato, ovviamente.

decoder

Come definire il decoder del digitale terrestre? Bufala tecnologica? Oppure come dice il grande Uboldus esempio perfetto di "taccologia"? Fatto sta che dall'oggi al domani, con l'alibi del pluralismo, è arrivato anche questo bel fardello di latta a farci compagnia. Si può anche evitare: basta comprarsi un bel televisore "di ultima generazione", come recita diligente la vocina dello spot. Incassi decuplicati per le case produttrici, sia di decoder che ti televisori, per il momento l'unico guadagno mi sembra questo. Programmi interattivi, dicono. Ma che ce ne facciamo nell'era di internet? Anni fa, prima che esplodessero i dvd, mi ricordo della breve parabola del laser disk, specie di quarantacinque giri su cui però erano riversati i film: tanto varrebbe riproporre anche quelli, se non fosse che la distanza che intercorre tra dvd e laser disk è infinitamente minore allo iato esistente tra digitale terrestre e dvd. Questa ennesima, finta rivoluzione è in realtà un colpo di mano, permesso dalla, mi dispiace dirlo, profonda ignoranza tecnologica degli italiani, ancora una volta vittime e complici di questo sbaraglio. C'è un dettaglio che la vocina dello spot omette però. Un dettaglio piccolo piccolo, una terza via che è tutto fuorché terzista: sbattiamo via il televisore e non ricompriamolo nuovo. Niente tv, niente falsi telegiornali, niente film che decidono loro, niente pubblicità. Basterebbe pensarci per capire che è solo un gigantesco abbaglio a cui la coscienza di ciascuno, il libero arbitrio di ciascuno può dire di no. I'd prefer not. E scusate se non dico grazie.

ricordando Fenoglio

Figura complessa, quella di Beppe Fenoglio. Tempo fa scrissi un commento piuttosto articolato su uno dei suoi lavori principali, quel piccolo (e neanche tanto piccolo) gioiello di Una questione privata, storia amara e dolorosa sullo sfondo drammatico della guerra partigiana. Scrittore e partigiano, come volle scritto sulla sua tomba. Scrittore asciutto, schivo, allergico al rumore e al superfluo, partigiano badogliano lontano da qualsiasi retorica. Per conoscerlo meglio consiglio il bel saggio di Piero Negri Scaglione, Questioni private, vita incompiuta di Beppe Fenoglio, edito da Einaudi, un saggio di agile consultazione, che alterna riferimenti all'opera a testimonianze dirette, aneddoti e ricostruzioni storiche. Colpisce la malinconia di Fenoglio, quello sguardo pensoso eppure acuto, la sigaretta in bocca; un intellettuale in lotta con le piccole meschinerie di paese, con la stupidità dell'ambiente accademico, con una famiglia che raramente è stata in grado di comprenderlo. C'è quella fotografia, poi, quella che il saggio presenta nel mezzo del volume, uno scatto posato, senza pretese: c'è Fenoglio che finge di battere a macchina attorniato dai genitori. Lo sguardo un po' beota del padre, gli occhi severi della madre a cui sfugge anche una appena percepibile smorfia, come dire: "Ma guarda che cosa mi tocca fare." In quell'istantanea c'è tutto il dolore che la scrittura porta con sé, con l'isolamento e la canonica (direi quasi necessaria) ostilità dei parenti. E allora colpisce ancora di più la dolente dignità di Fenoglio, la sua integrità intellettuale e umana, ferma, decisa a dispetto di tutto. Inutile dire che probabilmente anche questo clima, così teso così disperato, abbia avuto il suo peso nella formazione dello scrittore e nella sua produzione. Mi viene in mente un confronto al volo con un suo coetaneo (i due si conobbero anche), Italo Calvino. Mi ha colpito come Fenoglio abbia dovuto costantemente scontrarsi con un muro di gomma, mentre per Calvino sia stato tutto non dico più semplice, ma senz'altro più lineare. Due scrittori della stessa generazione, ma con visioni diverse. Magari ne parlerò più avanti.

stilemi

Il problema dello stile, nella stesura di un testo, rappresenta uno scoglio consistente almeno quanto quello dell'idea di base: la scelta dello stile comporta un certo livello di consapevolezza, una certa permeabilità alle influenze, un concetto letterario piuttosto ampio. Ma che cos'è, in fin dei conti, lo stile? Si può provare a dare una definizione sintetica: il registro linguistico unito al respiro e al contesto culturale entro cui il testo nasce. La linguistica parla di preferenza di stilemi, di norma individuabili e analizzabili sulla base di un vettore stilistico, di cui si può accettare senza riserve la precisa definizione di Cesare Segre: "...quei tratti di stile, generalmente parole ed espressioni, che palesano più esplicitamente e direttamente caratteri e idee dominanti del testo. " Si potrebbe parlare a lungo di variazioni stilistiche e di approcci più o meno adeguati al problema; di certo la prima considerazione è che la questione dello stilema ha subito la sua maggiore e repentina evoluzione in ambito novecentesco, o al massimo tardo ottocentesco. Il concetto di lingua parlata, per esempio, mutuata dalla prosa teatrale, è un fenomeno abbastanza recente: la ricostruzione della lingua parlata è rimasta nell'ambito della sperimentazione linguistica fino agli anni cinquanta, tanto per dire. La frantumazione della prosa, da composto di subordinate a frammenti nominali, è un'operazione di pieno novecento. Un'evoluzione portata avanti principalmente da autori angolofoni, ma anche da italiani (penso al d'Annunzio del Notturno). La questione si presenta alquanto varia e di ardua classificazione. Innegabile è il fatto che lo stilema sia di norma riconducibile al genere di cui tratta il testo: vero per molti casi, ma non sempre; prendiamo H.P. Lovecraft, scrittore horrorifico e gotico ma dalla prosa bizantina, preziosa, sintatticamente e semanticamente complessa. Oppure Edgar Allan Poe, per il quale si potrebbe dire lo stesso. Esempi che oggi come oggi sono forse difficili da afferrare. La prosa che leggiamo oggi è figlia di un lento processo di riduzione che ha di fatto abolito le subordinate, privilegiando una struttura paratattica, che guarda con sospetto i periodi più lunghi. Da un lato è un bene (nessuno si esprime con subordinate del quinto grado) ma anche gli eccessi sono fastidiosi, e il periodare spezzettato di certi autori ne è la prova. Credo si stia giungendo ad un compromesso tra le varie istanze, o almeno è quanto io cerco di fare quando scrivo: abusare della prima persona, il presente storico tirato per centinaia di pagine sono derive che molti autori di oggi cercano per fortuna di evitare. Un'ultima notazione. Credo sinceramente che la buona narrativa americana della prima metà del novecento abbia avuto un'influenza benefica sulla produzione narrativa del resto dell'occidente. Hemingway, Dos Passos, Steinbeck, Sherwood Anderson, Fitzgerald ci hanno in un certo senso aiutato a ripulire la nostra lingua da molti cascami, ad indirizzarla verso il moderno. Un'operazione impensabile solo pochi decenni prima.

per Antonio Delfini (e non solo)

Per parlare di Antonio Delfini occorre una premessa, nella quale va introdotto un altro nome, quello di Cesare Garboli. Garboli è uno dei più importanti critici letterari italiani del secondo novecento, che ha rappresentato, per la filologia, al tempo stesso un eretico e un eroe, un eterodosso e un coraggioso, una voce che ha squadernato quello che era l'establishment culturale degli anni sessanta e settanta, dominato dal formalismo russo e nella fattispecie luckacsiano. Il suo lavoro più rappresentativo, giusto per completezza, è La stanza separata recentemente ristampato da Scheiwiller, casomai qualcuno volesse approfondire. Ma questa è solo una glossa, per meglio capire il seguito. Uno dei lavori di Garboli unanimemente riconosciuti come fondamentali è la prefazione ai Diari di Antonio Delfini, pubblicati da Einaudi all'inizio degli anni ottanta dopo un lungo travaglio editoriale: un testo acuto, scritto benissimo, fedele nel ricostruire il sostrato psicologico di Delfini più che la sua biografia, del resto povera di eventi. Garboli e Delfini si conobbero e si frequentarono, furono in un certo senso amici, nonostante la differenza d'età. Qui arrivo io con la mia modesta riflessione. Ho letto il bel libro pubblicato di recente sempre da Einaudi, Autore ignoto presenta, con l'altrettanto valido profilo critico tracciato stavolta da Gianni Celati. Sono racconti, abbozzi, in qualche caso poco più che scarabocchi. Ma i racconti sono di alto livello: sono quel che si dice divertenti in senso etimologico: portano su un'altra strada, aprono una nuova prospettiva, ora leggera ora spiazzante, mai ovvia o banale. Delfini fu soprattutto uno scrittore di racconti, cui vanno aggiunte le poesie. Uno scrittore anomalo, fuori dagli schemi e fuori dai circuiti letterari. Garboli ne dà un ritratto lieve, impalpabile come carta velina: una figura eterea, sfuggente, irrimediabilmente superficiale. Bravo scrittore sì, ma nelle parole di Garboli c'è sempre una reticenza, una riserva di troppo che sembra volerne sminuire la portata puntualmente sul più bello. Per un curioso gioco del destino io ho letto questa ampia prefazione ma non i Diari, ormai introvabili e quindi non sono in grado di dire fino a che punto leggerli mi avrebbe portato più o meno vicino alle opinioni di Garboli. Ma, stando così i fatti, questa prefazione mi lascia l'amaro in bocca, perché, per essere chiari, Delfini viene descritto come una sorta di amabile coglione, un piccolo snob fuori dal mondo che in vita sua ha perso del gran tempo senza alla fine concretizzare alcunché di apprezzabile; piacevole, a tratti arguto, ma insomma, i veri intellettuali sono altri, sembra dire il critico. Garboli dice infatti che, più che uno scrittore, Delfini è il grande personaggio di un romanzo mai scritto. Come dire: un po' poco. C'è un che di compatimento nelle parole di Garboli che alla lunga stanca, e proprio perché si ha la sensazione di una continua sottrazione al reale valore dello scrittore. Forse meno pregevole da un punto di vista strettamente stilistico ma probabilmente più vicino al vero è allora lo scritto di Celati, che restituisce le giuste prospettive e dà all'autore modenese una dimensione più condivisibile. Ad ogni modo, una lettura da affrontare, da capire, per accorgersi che il patrimonio letterario, italiano e non solo, passa anche attraverso queste voci beatamente minori, e libere.

piccoli sciovinismi tra amici

Una riflessione estemporanea su un dato di economia, materia che padroneggio decisamente poco. L'Italia, stando ai dati Ocse, ha scavalcato la Gran Bretagna nella classifica dei paesi più ricchi. Diciamo subito che le classifiche non mi piacciono e che appartengo alla schiera di coloro che diffidano del Pil, ma non è questo il nocciolo. Davvero la piccola, povera Italia ha scavalcato gli inglesi? Gli Inglesi dell'Impero, del Commonwealth, delle colonie, della potenza marittima? Pare proprio di sì, almeno su di un piano strettamente monetario. E allora mi chiedo: a che cosa sono serviti almeno quattro secoli di egemonia politico culturale sull'orbe terracqueo? A che è servito imporre la propria lingua sulle migliaia di idiomi parlati sul pianeta? Poco o nulla verrebbe da dire. O meglio: tutto ciò vale un settimo posto. Dietro ad un'Italia storicamente bistrattata, divisa su tutto, papista, mafiosa, spaghettara, oltraggiata oltre ogni decenza in ogni angolo anglofono (e non solo) della terra. Mi viene da essere sciovinista: questo nostro sgangherato paese, così intriso di iniquità e di malaffare, sta a galla a dispetto di tutto. Come mai? Analisi ardua. Mi sono risposto che ci sono delle sacche di ossigeno che consentono alla penisola di non affondare, delle riserve di menti, di braccia, di cuori che non hanno la ribalta né la chiedono ma che continuano a lavorare per il giusto, con passione, con entusiasmo. Questo sorpasso mi pare proprio una vittoria di queste persone più che della politica centralista, che anzi negli ultimi anni è stata una zavorra non indifferente. Siamo il paese europeo con il più alto numero di volontari, non mi sembra un dato da poco. Viene da chiedersi che cosa potrebbe fare questa tanto vituperata Repubblica una volta risolti i suoi annosi problemi di criminalità, corruzione, clientelismo. Chissà che cosa ne pensano i sudditi della regina.

premi

Premiato lo studente più bravo d'Italia. Una media impressionante: un bel 9,93 di non si sa che cosa. Premiata la media più che altro. Premiato un numero. Dicono: è un criterio oggettivo. Benissimo. Un voto è un numero che una persona assegna ad un'altra persona, una persona è di per sé un elemento influenzabile e non obiettivo. E' una storia che sappiamo tutti: il professore buono e quello cattivo, quello che ti solleva la media e quello che te la affossa. Figurarsi su tutta Italia: quanto criteri di valutazione diversi possono esserci? Una caterva, uno sproposito. Eppure questi numerini, frutto delle solite, strane alchimie scolastiche, sono tutto ciò che abbiamo. La decantata meritocrazia passa di qui. Premiazione in grande stile, al Quirinale nientemeno. Il solito clima da Italia deamicisiana, un po' succube del Direttore, un po' furba, un po' impressionabile. Il punto non è nella premiazione (ma sì, facciamo pure un po' festa) ma nel ragionamento che sottende ad essa: non si premia la persona, ma la media. Un numero frutto di calcoli tutt'altro che scientifici. Un numero che è il risultato non di chissà quale formula inattaccabile, ma della volontà di un pugno di professori, ancorché stimatissimi, che però sono persone, soggetti a loro volta a umori, distrazioni, imprecisioni. Vivaddio viene voglia di dire, sennò saremmo gestiti da delle macchine. Sì, ma allora perché il premio?

giornalismi

Si sa che la libertà di stampa in questo paese è quello che è, si sa in che tipo di regime mediatico viviamo e non starò qui a farla lunga. Ma questi giornalisti, in fondo, chi sono? Non intendo quelli della piccola carta stampata e quelli delle emittenti locali e monolocali, mi riferisco ai guru dell'informazione, quelli che pretendono il microfono, che "esigono di fare il loro lavoro". Vedete, non mi pare una questione così semplice. Sento sempre un brivido lungo la schiena quando ascolto un giornalista che chiede ad un altro giornalista: "Ma tu che sei giornalista..." come se ciò dovesse comportare chissà quale grado di affidabilità, come se dietro ci fosse chissà quale missione redentrice. Non credo che il giornalismo sia una missione e tantomento credo che i giornalisti siano poi così indispensabili. Non lo credo perché leggo spesso articoli bruttissimi, falsi, ingannevoli. Non lo credo perché sempre più spesso alcuni di questi stimati professionisti diventano di fatto personaggi televisivi che, forti del loro ruolo, si sentono in dovere di esprimere un'opinione su tutto, di intervenire su tutto. Quando guardavo la tv poi sentivo spesso questi servizi odiosi, fatti per confondere la gente semplice, servizi che erano polpettoni (spesso avvelenati), puntate di una fiction, dove abbondavano enfasi da telenovela, puntini di sospensione, punti esclamativi. E i pochi che provano a sottrarsi a questo andazzo, mio Dio, sono un campionario di vittimismo. Ci credono davvero: credono di essere indispensabili. Come fate a stare senza di me e il mio microfono? Sono molti di più di quanto si possa pensare. Un circolo ampio, ma anche chiuso, diffidente, poco propenso alle aperture. Ma mai dire mai. La rivoluzione internet sta scompaginando le carte, anche e soprattutto nel comparto informativo. E se un domani le informazioni andassimo a prendercele da noi? Il "suo" microfono, che fine farebbe?

azzardi

Siamo una nazione (paese è un termine alquanto ambiguo) veramente curiosa. Probabilmente il comparto informativo/televisivo è lo specchio abbastanza fedele della lenta decomposizione che stiamo vivendo. Una placida, paciosa decomposizione. Va tutto bene, anzi no, tutto male. Ma chi se ne frega in fondo. Viviamo in un regime di monopolio informativo che in vent'anni ci ha squassato il cervello, ma ormai abbiamo accettato il fatto, c'è di peggio e così sia. Rimangono le scommesse: enalotti, più o meno super, le scommesse, il poker live e on line. Non siamo molto oltre la partita a ramino, ma, diciamocelo, fa più figo gridare "All in!!!" all'americana, piuttosto che spizzare il mazzo nel retro di un trani. Ma il fenomeno suscita preoccupazione nei nostri credibili telegiornali, i quali, tra un mestolo insanguinato e un giro nei bar a scoprire i cocktail più trendy, si interrogano sul fenomeno. Ma sarà giusto giocare così tanto? Ecco che il tg del mezzogiorno offre la sua versione dei fatti. Cari amici, seguite alcune semplici regole per non rischiare troppo: il decalogo Sisal. Non giocare se non hai i soldi; non fare debiti per giocare; invece di giocare esci con gli amici per distrarti; se menti circa le tue perdite non è un buon segno. Mi immagino le schiere di menti impegnate a partorire queste profonde verità. E' uno sfacelo, ma almeno è di buon senso: lo Stato incassa le giocate ma si premura anche del benessere psicofisico del giocatore. Colpire al cuore e medicare con la garza.

riscoperte

Può un film avere le stesse ambizioni di un romanzo? Credo che la risposta sia negativa. Un film deve avere ambizioni di altro genere. Né più alte né più basse, solo diverse. Ecco perché si parla di "riduzioni" cinematografiche quando ci si riferisce alla traduzione filmica della narrativa pura. Riduzioni, la semantica non inganna. Allora basta prendere in considerazione un altro tipo di discorso: il cinema per il cinema. Una storia cioè pensata e scritta per le immagini: una scrittura cinematografia, appunto. Il miglior esempio che mi venga in mente è Professione reporter di Michelangelo Antonioni, con Maria Schneider e un grande Jack Nicholson. Sarò di parte, perché è un film che amo molto. Ma l'esempio funziona, eccome, basta riferirsi alla trama: un reporter stanco (?) della sua vita la scambia con quella di un altro signore morto per cause naturali nella camera a fianco alla sua. Siamo nel deserto, in una zona sperduta. Il morto assomiglia in modo impressionante al reporter. Perché non farlo in fondo? Da qui tutte le conseguenze, disastrose. Il morto, per esempio, è un trafficante d'armi. Il resto è una lunga discesa nella disperazione, fino allo sconcertante epilogo. Non c'è una goccia di sangue, non c'è un'immagine cruenta. Eppure si muore dall'angoscia. Come in tutti i film di Antonioni, le parole sono pochissime. I dialoghi scarnificati. Questa è scrittura cinematografica. Se questa idea fosse stata trattata in forma di romanzo anziché di film non avrebbe funzionato: un romanzo ha bisogno, ovviamente, di parole, di descrizioni, di dialoghi. Il famoso piano sequenza del finale (quasi sette minuti senza stacchi) non sarebbe stato possibile da rendere a parole, così come l'ambiguità della Barcellona di Gaudì. Antonioni ci ha lasciato qualche anno fa, ma non credo gli sia stato riconosciuto quanto meritava. Sì, il tritume dell'incomunicabilità, e va bene. Qualche intelligente ha anche detto che tutto sommato era meglio Dino Risi, proponendo un paragone del tutto insensato. Questa mania del confronto. Ad Antonioni andrebbe riconosciuto il merito di aver inventato una scrittura cinematografica, dove al posto delle parole e della loro significazione, c'è l'immagine con il suo significante, il che porta il cinema ad un livello di indipendenza dalle altre arti che altrimenti non potrebbe mai avere. Ritorno al famoso piano sequenza, impossibile da dire in prosa. Forse in poesia, ma questo è un altro discorso che porterebbe molto lontano. La poesia può anche il silenzio, è vero, prendiamo Mallarmé per esempio, ma qui mi fermo: non basterebbe un saggio a dire di questo.
Si può concludere dicendo che Antonioni è arrivato dove gli altri hanno avuto paura, ha rischiato dove i più sono rimasti col cero in mano. Forse anche il maestro ha fallito, ma ce ne fossero di fallimenti così, dove tutta la tensione verso l'infinito è intatta, visibile.

ora e sempre invivibili

La banalità della distruzione, lo scempio che si fa quotidiano. Ma sì, chi se ne importa in fondo. Città fatte a pezzi nella loro struttura storica, aree agricole depredate come un fatto positivo. La risposta di questa brava gente operosa è sempre la stessa, quel famoso "un po' di progresso ci vuole" che va bene in ogni circostanza. Dietro c'è quasi sempre gente che non si rende conto, che se la prende con "voi maledetti nullafacenti, ostruzionisti, oppositori, partito del no". Benevoli eufemismi. Echi biblici nello sfruttamento dell'ambiente benedetto dalle Scritture? Forse, ma io ci andrei cauto nello scomodare i Sacri Testi per questi salumieri della politica. Si rischia, come sempre nella psicologia spicciola, di appoggiarsi a riferimenti che non solo questi signori ignorano, ma che sfotterebbero bellamente nella remota possibilità in cui ne venissero a conoscenza. No, io ci vedo sotto un banale interesse di bottega. Un piccolo guadagno, una piccola torta, niente di biblico insomma. E poi questi figli, sempre da sistemare, queste rate che non finiscono mai. Un matrimonio, da qualche parte, la maggiore che convola al talamo. Insomma, non si sa mai che cosa può succedere. Un onesto reazionario ha tutto il diritto di speculare sugli equilibri idrogeologici per ingrassare un altro poco. Non c'è nulla di epocale, in fondo: sono cose piccole, meschine, da sottobanco. Avremmo voglia di prenderle in giro, di liquidare il partito del cemento con una battuta, ma non possiamo. Bisogna ricordare ogni tanto a questi esimi che quel territorio su cui hanno posato il culo non è loro, ma di chi sa valorizzarlo.