squadra corta

Da tiepido milanista in crisi di coscienza permanente vista la proprietà della squadra, non ho potuto fare a meno di sorridere quando ho saputo della class action di alcuni tifosi nei confronti della società, rea di averli presi in giro millantando il tesseramento di campioni poi puntualmente ceduti al miglior offerente. Vorrei dire a questi tifosi delusi che credere a B. è un po' come illudersi che il coniglio si materializzi davvero nel cilindro del prestigiatore. E' più forte di lui, non c'è niente da fare. Il trompe l'oeil, l'illusione del verosimile, sono numeri consumati del suo repertorio, o forse dovremmo dire logori, visto il grado di usura ormai parecchio al di sopra del livello di guardia. Ma ancora non basta: c'è chi è capace di illudersi e deludersi ancora. E così alle moine sulla fiscalità ingorda del nostro paese (e in Spagna sì che la fiscalità è giusta, chiosavano fino a poco tempo fa, prima che la Spagna tutta intera andasse a picco continuando però a finanziare con soldi pubblici il sacro Real) si aggiunge la retorica del risparmio, del fair play finanziario, cosa buona e giusta se non fosse che il calcio da spesa folle è stato proprio B. a inventarlo, con quel Milan stellare che spendeva e spandeva inaugurando la gestione delle società sportive sulla scorta delle società per azioni. Quel Milan che comprava Lentini non si sa come e il caro Nando De Napoli per puro sfizio, giusto per toglierlo dal mercato. Ma ora che l'astro di B. sta irrimediabilmente sprofondando nell'Atlantide dei suoi sogni di cartone, all'improvviso, il ritorno alla moralità; il ritorno ai valori; il risorgimento dell'etica sportiva. Una riscoperta tardiva, per usare un eufemismo, o forse solo la solita, esausta manovra pubblicitaria atta a conquistare ancora qualche consenso, esausto anch'esso per via dei troppi conigli rimasti impigliati nel cilindro. E allora c'è poco da fare una class action. Sarebbe come intentare causa contro Pulcinella perché non sa mantenere un segreto, o contro Arlecchino perché fa il doppio gioco. 

desperate spider man

C'è forse una corrispondenza tra l'inflazione di film sui supereroi e il progressivo declino occidentale; tra il sogno di facoltà sovrumane e risolutive e la palude stagnante in cui America ed Europa stanno sguazzando. Il cinema come macchina scaccia pensieri, come allucinogeno di massa; il cinema che rifiuta di parlare della realtà per rifugiarsi nella mitologia post postmoderna, non trovando nulla di meglio, per raccontarci il presente, delle peripezie da fumettone di eroi ed eroine insaccati in buffe calzamaglie ipertecnologiche. E' un cinema sbracato e in crisi di idee che tradisce se stesso nella contaminazione con i videogiochi, confondendo il mezzo con il fine, l'effetto speciale con la trama, il digitale con qualche trucco da baraccone. Ma bisognava aspettarselo, da quando la diffusione sciagurata del 3D preannunciava un'epoca di vacche magre per l'intelligenza. E tutto per che cosa? Per rimpinzarci di una tecnologia cialtrona che sottrae i film alla dimensione narrativa e li relega alla pura e semplice dimensione tecnica: tecnica di messa in scena (la tridimensionalità), tecnica di produzione (effetti digitali), tecnica di scrittura (le storie sono prodotti seriali). Non a caso è sempre più difficile parlare di cinema come di settima arte, come si diceva, con qualche ragione e qualche supponenza, anni fa, quando la tecnica c'era, ma era al servizio di un progetto artistico. Meglio allora etichettare i film sotto la dicitura squallida di "industria dello spettacolo" o business nudo e crudo, come fanno gli americani, con il loro pragmatismo un po' così. Ma anche gli americani, un tempo, avevano registi come Scorsese (prima maniera, per carità), Cassavetes, Altman, Peckinpah, Ford Coppola. Prima di immergersi nel nulla con cui, da un certo punto in avanti, hanno deciso di imbonire il pubblico. Che come sua norma e regola si è adattato, anche se con un grigiore, un'uniformità acritica che penso sia andata ben al di là delle aspettative più ciniche dell'industria. Un grigiore che assume toni tetri e irreali quando si pensa che una volta i film erano fonte di dibattito, di confronto e di scontro, e i registi venivano chiamati ancora autori. Hai voglia ad imbastire una discussione oggi. Meglio la tuta di Batman o quella di Spiderman? 

ci faremo di tutto


Il titolo è feroce e ovvio come solo i titoli sanno essere: Faremo di tutto per salvare l'Euro. La stonatura mi ha assalito ancora prima che mi rendessi conto del perché. Ormai mi sto anch'io assuefacendo ai non sensi della comunicazione. La sfumatura è piccola a livello di segno ed enorme a livello di significato: la politica vuole salvare l'Euro, non gli Europei. In effetti i provvedimenti, le intenzioni e in generale ogni singola parola spesa dai governi nazionali, salvo rare e occasionali eccezioni, non ha mai altro scopo che sacrificare un po' della vita degli individui in nome dell'astrazione monetaria. Che non è economia reale, che non è vita, ma che è solo uno dei tanti parametri - umani - con i quali misurare una delle tante quantità che affliggono la nostra esistenza. E allora mi chiedo se non sia inevitabile che l'Europa fallisca, non solo o non tanto per le macchinazioni finanziarie alle quali si è svenduta, ma per la paurosa, incivile, barbara rimozione delle premesse culturali che potrebbero e dovrebbero esserne il cemento. L'identità dei popoli non può essere spiegata da una moneta, specie se questa è frutto di un'operazione a freddo, calcolata dalle banche centrali e imposta per regio decreto a milioni di persone; non si tratta di essere pro o contro la moneta unica, ma di essere pro o contro la nostra matrice identitaria, che non si trova nei rendiconti della ragioneria, ma nelle ragioni storiche e filosofiche che l'Europa ha saputo produrre nel corso dei secoli. La pretesa di surrogare il DNA di un intero continente nello spread non è riduttivo, è folle. Così come far dipendere l'esistenza degli individui dalle trame finanziarie ordite da banche private e banche centrali non è un segno di razionalità e concretezza, ma è il suo esatto opposto: un'insensata astrazione, un progressivo allontanarsi dalla vita per abbracciare la sua rappresentazione più disumana e distruttiva. L'Europa, se proprio vogliamo dirlo, è già fallita sotto questo profilo, e anche qui non c'è bisogno di un numero per capirlo; non c'è una cifretta, un conticino, una virgola che possa dare significato al vuoto che si va via via allargando tra le reliquie di un illustre passato. 

di tutto di più

Il fatto che la Rai rappresenti un oggetto del contendere ancora così agognato, dice molto più di tanti fronzoli quali siano le vere ragioni d'essere di tanta politica italiana. Una volta pensavo che la televisione fosse il luogo privilegiato del controllo delle masse: imbonimento delle folle, istupidimento generale, depistaggio delle menti per mezzo di notizie tendenziose o omissione di fatti scomodi. In parte è ancora così, ma c'è un altro tassello da tenere in considerazione per capire fino a che punto siamo arrivati. La Rai è un pezzo dello Stato, un pezzo di apparato occupato in pianta stabile dai partiti, che la usano, la sgranano per consolidare il proprio potere, in una logica che è del tutto sganciata dal consenso popolare (pure importante, ma potere e consenso non è detto coincidano) e che piuttosto ha a che vedere con le dinamiche interne del potere stesso: spostamenti, ammiccamenti, messaggi trasversali, possibilità di muovere le pedine. In una parola autosostentarsi. Si diceva logica interna, ma il discorso, per una volta, andrebbe allargato dalla politica in senso stretto (i partiti) alla politica in senso lato (tutte quelle figure più o meno professionali che bivaccano sul limitare della politica e che con la politica brigano, tramano, fanno affari): quanti figli di ci sono in Rai? Un numero impressionante. Figli, nipoti, cugini, mogli, mariti, amanti, promessi sposi e spose. La succursale di una grande famiglia insomma, dove a tutti spetta qualcosa. E' per questo che lo spettro della televisione pubblica, il suo eidola, sopravvive a se stesso. Troppo comodo continuare ad avere un parcheggio privato dove disporre dei posti a proprio piacimento. Altrimenti non si spiegherebbe la sopravvivenza di un tale titano, che a occhio e croce funziona nello stesso modo da almeno trent'anni, nell'epoca di internet, delle liberalizzazioni, della frammentazione dell'offerta. Il colosso è bene che resti com'è. Con la stessa struttura, le stesse lotte interne, le stesse lottizzazioni. Mentre la società reale va in un'altra direzione, e sul video non restano che le vestigia di un passato sempre più irreale.