gestire l'estinzione


I dati Istat del 2016 segnano un nuovo punto basso delle nascite in Italia. Il dato, ovviamente, è inquietante, e non si tratta solo di un problema di retorica familiare: il problema è che la parte giovane e attiva della popolazione non ha la possibilità materiale di avere figli e creare una famiglia (qualsiasi tipo di famiglia). Il dato è perfettamente coerente con quelli, altrettanto tragici, della distribuzione della ricchezza e della disoccupazione: sono i dati di un paese che sopravvive a se stesso. Erodendo il piccolo patrimonio di nonni e genitori (casa unica di poprietà, pensioni, risparmi di una vita, perché questo è il "patrimonio" dei non privilegiati) e gli ultimi relitti di stato di diritto ancora parzialmente attivi dopo il progressivo smantellamento del concetto di società. Stato sociale, vale la pena di dirlo, largamente convogliato, nella sua forma residuale, verso gli immigrati. 

Esiste una fascia grigia e variamente composta di cui non si occupa più nessuno. Sono i lavoratori stipendiati, gli operai, i giovani e meno giovani che si sono trovati nel mezzo di una crisi economica spaventosa e ormai ultra decennale, le persone massacrate dalle legge Fornero: la vecchia classe media che nel giro di dieci anni si è trovata declassata a neo proletariato, ma senza tutele e senza case popolari, con un potere di acquisto ridotto del trenta percento e contratti lavorativi ai limiti della sopravvivenza. Non c'è nessun mistero nell'ormai cronico declino italiano. Inettitudine della classe dirigente, corruzione e familismo interni, asservimento agli altri stati europei, anche quando l'Italia aveva un'economia di gran lunga superione alla Gran Bretagna e paragonabile alla Francia. Gli errori storici si pagano. Il punto ora è salvare quello che resta di questo paese. Farlo non tanto per noi, perché ormai c'è poco da fare, ma per chi verrà. Perché nonostante tutto l'Italia rappresenta ancora un argine alla barbarie. La cultura millenaria, i valori morali, la conoscenza. 

Non è retorica: è il senso del cammino della civiltà occidentale che qui, per tante ragioni storiche più qualcosa di imponderabile, ha trovato la sua collocazione privilegiata. Contro la falsa cultura dell'opportunismo e della tecnica sganciata da qualsiasi contenuto etico e umano. Il destino culturale e filosofico dell'Occidente si gioca soprattutto dove esiste la testimonianza dell'identità europea: molto più in una tela di Caravaggio o nell'opera di un artigiano esperto che non nello strapagato design al truciolo di qualche azienda nordica. L'Italia incarna ora come non mai questa diga: è tutto qui quello che può restituire dignità alle persone e rendere il futuro più ricco e meno banale. Più carico di significato e meno dipendente dai soliti soldi. Un'utopia che rappresenta l'unico, vero obiettivo ancora alla portata di questo paese sfibrato: una sfida simbolica giocata sul terreno che è ci è più congeniale. Senza copiare malamente gli altri, per una volta.

la negazione della libertà nella società del privilegio crescente



Questi dieci anni di crisi hanno determinato un fatto, come documentato dal rapporto Oxfam: un ulteriore spostamento delle risorse economiche verso chi già deteneva un tenore di vita superiore alla media. Un dato che non è solo tecnico, ma politico. Lo squilibrio tra chi ha e chi non ha, con l'arricchimento dei primi e l'estinzione della classe media, configura uno scenario in cui i rapporti di forza sono completamente cambiati: se negli anni Sessanta un grande manager percepiva in media cinque, sei volte un operaio, oggi il banco è saltato, e la differenza appartiene ormai al dominio dell'incalcolabile.
Come si arriva a questo? La grande massa economica sulla quale non si vuole incidere è di carattere sostanzialmente ereditario: nella società liquida c'è ancora un elemento di grande solidità: l'ereditarietà delle risorse economiche. I beni, le professioni, le così dette “opportunità” sono un ente che passa, in un numero sorprendente di casi, di padre in figlio. Parliamo di lobbies, circoli chiusi, gruppi di potere. It's given potremmo dire. E' la vita, è sempre stato così.
Curioso come vada di moda parlare di diritti ma sia scomparso dal dibattito pubblico il grande scandalo dell'ineguaglianza crescente. Nascere a pochi metri di distanza (prendiamo un quartiere bene di Milano con un quartiere male della stessa città, come esempio comodo) determina in modo ineluttabile (e sempre più ineluttabile) il percorso della vita intera: ambiente culturale, scuole di prestigio o no, attività extracurriculari, sport praticati, possibilità di accedere a università migliori. Non è tollerabile il maltrattamento di un animale (giustamente) ma lo è la deprivazione di occasioni sociali di un essere umano. Sulla base di un solo dato: i soldi.
Il crollo del welfare comporta anche questi inconvenienti. E non stiamo parlando di un rabberciato marxismo fuori tempo massimo, ma del suo esatto contrario: di un'applicazione cosciente ed equa dello stato di diritto laddove fattori indipendenti dalla volontà del singolo determinino situazioni di evidente diseguaglianza.
Scrive Isaiah Berlin, nell'introduzione al capitale Cinque saggi sulla libertà:

Il senso in cui io uso il termine libertà non comporta soltanto l'assenza di frustrazione (che si può ottenere sopprimendo i desideri), ma l'assenza di ostacoli alle scelte e alle attività possibili, l'assenza di ostacoli lungo le strade che una persona può decidere di percorrere.

Per fare un esempio concreto: io considero desiderabile l'introduzione di un sistema uniforme di istruzione generale primaria e secondaria in ogni paese, se non altro per farla finita con le distinzioni di status sociale che attualmente sono create o promosse dall'esistenza di una gerarchia sociale delle scuole in alcuni paesi occidentali, e in particolare nel mio. Se mi si domandasse perché la penso così dovrei addurre quel tipo di ragioni di cui parla Spitz, per esempio le esigenze intrinseche dell'eguaglianza sociale: i danni che derivano dalle differenze di status create da un sistema di istruzione determinato più dalle risorse economiche o dalla posizione sociale dei genitori che non dalle capacità e dai bisogni dei figli; l'ideale di solidarietà sociale; la necessità di garantire al maggiori numero possibile di ragazzi la possibilità di una libera scelta, possibilità che l'eguaglianza di istruzione, probabilmente, rende più agevole.

Isaiah Berlin: un liberale.

La negazione di questa libertà, riprendendo il Kant della Critica della ragion pratica, mina alla base la possibilità di un'etica. Senza libertà di scelta vera non esiste società morale. Se l'era della tecnocrazia è incapace di formulare valutazioni di merito che non contemplino la presenza di una quantità oggettiva e misurabile, forse si dovrebbe tenere presente un fatto: l'oligarchia economica eletta a sistema porta all'estinzione, come in natura. Combinare in continuazione gli stessi elementi genetici porta a disfunzioni; su scala sociale, ad un istupidimento progressivo della classe dominante (in quanto fondata in larga parte sul censo e sull'ereditarietà delle risorse) e all'annientamento di tutto ciò che è via via più subordinato in termini economici. E' un massacro sociale portato avanti scientemente dalla classe economica attuale: è una società del privilegio ereditario. Un fatto sempre più evidente nella differente qualità di scuole e università e nella relativa possibilità di accesso al lavoro. Perché vengono citate sempre le eccezioni ma mai la sostanza numerica dei fatti: si parla dell'uno su mille che ce l'ha fatta partendo da zero, ma non dei cento, duecento, cinquecento che nonostante le buone doti sono andati persi per strada. E questo è un danno oggettivo, per niente irrazionale. O razionale solo nella scala di valori autoriferita che l'oligarchia economica impone a proprio vantaggio: una partita a dadi truccati
Più che una forma di classismo, è una forma di miopia economica. Una delle tante di una società che sotto le apparenze della modernità e della libertà si rivela invece essere il cadavere decomposto di un'idea medievale di uomo e di rapporti di potere e il cui limite pratico sta nel rappresentare un modello estremamente auto protettivo e auto riferito, impermeabile ai mutamenti esterni e tutto teso a dispiegare i propri mezzi con il solo intento di mantenere lo status quo.
Gli anni della crisi per qualcuno sono stati un affare: non bisogna dimenticarlo mai. Più che bruciarsi, i soldi si sono spostati, hanno cambiato concentrazione. E tanto più questa concentrazione è cambiata, tanto più i servizi dello Stato (quelli mantenuti con tasse altissime) sono peggiorati. La direzione? La soppressione del pubblico come concetto. La soppressione della scuola di alta qualità per tutti come diritto. La soppressione della sanità di alta qualità per tutti. E' un movimento ormai ad uno stato molto avanzato e che potrebbe essere ridimensionato solo da un gesto: dal rompere questa catena. Dal prendere coscienze della catena invece che ornarla di fiori.
Ma la tecnocrazia non ha morale, dunque non dispone nemmeno dei mezzi necessari per operare una valutazione in concreto delle questioni sul tavolo: ragionando sul cosa ma non sul come, sulla quantità invece che sulla qualità si finisce per escludere dal sistema di riferimento una sostanziale fetta di realtà, che prima o poi tornerà per forza a reclamare spazio. Uno spazio che dovrà prima o poi essere ripreso.

la difficoltà di combattere e il nuovo niente





Vorrei provare a ragionare su un fatto: la tendenza progressiva della società europea ad accentrare le risorse economiche nelle mani di pochi e ad istituire, di fatto, una società stratificata: gli ottimati garantiti che detengono il potere economico e una gerarchia di classi subalterne, che non hanno quasi diritto di parola, se non per mezzo di sfibrati e sempre più logori sistemi democratici di rappresentanza.

Su che cosa si fonda la società occidentale contemporanea? Bauman parlava di società liquida, quindi inindividuabile, in continuo mutamento, senza una forma. Un'altra tentazione potrebbe essere quella di considerare, nietschianamente, l'occidente come il luogo di un nichilismo compiuto, prodotto da anni di tecnicizzazione senza regole e alla fine autoprodotto dalla tecnica stessa: luogo dell'indifferenziato e del tutto uguale dove quindi qualsiasi istanza etica si invera nel suo esatto contrario. Con il risultato di fondarsi sul niente: perfetto nichilismo.
Ma la deduzione non è così semplice. Perché l'occidente non ha perso il gusto della narrazione: è questo l'elemento che fa la differenza. Esiste cioè una realtà oggettiva che è determinata dal dissolvimento dell'etica in favore di un metro di giudizio che – se per motivi di opportunità e apparenza politica non può essere direttamente il denaro – è la capacità performativa: fare cose che portino ad un guadagno. La tecnocrazia è una dimensione totalmente autoriferita, che non necessità di altri punti di paragone. I soldi si spiegano da sé potremmo dire.
Ed esiste poi la narrazione-Europa: né più né meno che un racconto dove si spiega come l'unione commerciale e finanziaria di tanti paese abbia portato solo a vantaggi, per il bene di tutti e nel nome di una solida democrazia. Il punto, come in tanti hanno scritto tante volte, sta nel fatto che questa fusione si sia svolta ignorando completamente l'identità culturale europea, considerando solamente la mera funzione di scambio di prodotti e circolazione di merci come paradigma principe della nazione europea. In un orizzonte umano e comunitario (l'Europa, bontà sua, si definisce comunità) può funzionare un contratto tra popoli operato da banche, molte delle quali off-shore?

Il nichilismo della tecnocrazia ha l'astuzia di raccontare se stesso come una grande opportunità: ma a conti fatti questa opportunità si è rivelata per pochi. Rimando alle statistiche di cui sopra: l'Europa presenta ampie e insospettabili sacche di povertà. La ragione? La ricchezza è distribuita male. In pochi hanno troppo, in tanti lavorano nella terra di nessuno della subalternità e per finire una fascia considerevole di persone appartenenti alla ricca Europa è sotto la soglia di povertà, che in un continente ricco rappresenta un livello di guadagno (si parla sempre e solo di soldi) sotto cui è relativamente facile finire.

In senso pratico questo divario produce un fatto molto concreto: la condanna di una grossa fascia di popolazione e rimanere in una forma larvata e politicamente corretta di schiavitù. Contratti deboli, precariato, disoccupazione: il costo sociale dello sbando economico di questi anni ricade sui figli delle famiglie con meno risorse economiche di partenza. Meno beni ereditati significa minore possibilità di accedere a scuole e università di prestigio, con la conseguente minore probabilità di trovare una buona collocazione nel mondo del lavoro (e alimentando il circolo perverso del precariato e della povertà vera e propria), ma anche minore accesso a qualsiasi forma culturale in senso lato: dai corsi di lingue alle attività sportive, dalle settimane bianche ai viaggi di istruzione, accumulando un discrimine a mano a mano sempre più incolmabile tra chi ha e chi non ha. Il discorso potrebbe essere esteso alle cure mediche, con tutta una serie di conseguenze facilmente intuibili. O in ambito legale, dove chi ha di meno potrà permettersi collegi difensivi di minore spessore rispetto a chi ha di più. E così via. E' una spirale a discendere. Una nuova forma di modello feudale o, se si vuole, di colonialismo interno.
L'obiezione per cui è giusto che le famiglie che hanno accumulato più sostanze nel tempo godano di condizioni di vita tanto migliori rispetto agli altri è abbastanza inconsistente e addirittura contraddittoria nel momento in cui si volesse usare come argomento il libero arbitrio: la libertà o è tale o non è libertà. Non esistono gradazioni di libertà. O pensiamo che una comunità matura debba essere in grado di dare le stesse occasioni di istruzione, cure mediche e aspettativa di vita al neonato di Scampia e a quello nato in via Solferino, a quello nato ad Atene e a Berlino, o il modello europeo ha fallito.
Nessun esproprio, nessuna azione contro la proprietà privata, niente comunismo. Stiamo parlando di redistribuire le ricchezze in modo più bilanciato. Perché se dati alla mano una stretta minoranza di persone ha accumulato una percentuale rilevante di risorse a discapito di una grossa maggioranza per di più in tempi di crisi significa che il modello democratico europeo è una chimera.
La narrazione, però, aiuta anche in questo: la narrazione parla spesso di diritti, bambini, infanzia, pari opportunità. Sono parole-maschera, parole come pervertimento programmatico della realtà.
Viviamo in una società che considera intollerabile dare uno schiaffo ad un bambino, ma alla domanda: è giusto che questo bambino nato in una famiglia povera abbia enormi possibilità in più di un bambino nato in una famiglia ricca di non migliorare la sua condizione socio-economica? Risponde: così è la vita.
E' il grande equivoco della società morale sostituita dalla società economica. La società performativa non può costitutivamente dare risposte di ordine morale: entra in crisi, non ha argomenti o se ce li ha sono stereotipi, nella migliore delle ipotesi contraddizioni come quella appena citata.
Il comunismo e il terzomondismo non hanno niente a che fare con tutto questo. Sono false piste. Primo perché il comunismo ha storicamente fallito, e in modo tremendo, e il problema della redistribuzione del reddito non è un fatto ideologico, ma una questione molto concreta sulla quale si giocherà il destino d'Europa in termini di difesa dell'identità e di successo/fallimento del processo di unificazione; secondo perché non stiamo parlando del terzo mondo, ma del nucleo del ricco occidente. 

Il limite della tecnocrazia sta nella scarsa flessibilità dei suoi modelli: sembra un paradosso visto che la flessibilità è uno dei mantra della tecnocrazia. La tecnica al potere predica flessibilità agli altri, ma in sé la tollera molto poco: non è capace cioè di includere modelli che non le appartengano.
Il risultato è, altro paradosso, un continente molto debole. Un continente fiacco, privo di energie e molto vecchio. Un continente senza sangue: perché continua a perpetuarsi nella stessa identica sequenza di concetti chiave: terzomondismo, politicamente corretto, difesa a oltranza del profitto immotivato, assenza totale di un vero orizzonte etico (i soldi come equivalente generale dell'etica non soddisfano quei bisogno latenti che non possono essere comprati).
Questa confusione trova un surrogato nel combattimento in slogan, training aziendali, corsi automotivazionali, mentre è il fronte interno che cede, sia per esempio nell'incapacità di gestire in modo razionale la questione immigrazione, sia nel lasciare che i membri della comunità che costituiscono l'Europa non abbiano i mezzi necessari per formarsi e accedere ai migliori strumenti formativi e intellettuali.
L'espressività guerresca e un po' cialtrona che è entrata nel linguaggio comune segnala come la questione del combattere – che è un concetto chiave della storia europea – sia diventata materia da training aziendale e slogan sui post dei social network. E allora tutto diventa “lotta”, “battaglia”, “competizione”, “guerra”, “nemico”, “vittoria”, “ottimismo”, “non mollare mai”.

Peccato che questa narrazione – filosoficamente inesistente e moralmente equivoca – generi vittime proprio tra coloro che più la sostengono: quella che una volta era la classe medio bassa. Piccola borghesia, lavoro salariato, piccoli commercianti. Che per limiti culturali, conformismo e consumismo eletti a metro della vita pubblica (un modello inconscio introiettato con tanta forza da essere diventato ormai un archetipo inamovibile) gioca la sua vita sul filo di un lessico violento e individualistico, erodendo le fondamenta di quella coesione che per un breve lasso di tempo è stata (fu) la sua forza.
I rapporti di forza di una società della larvata ma largamente accettata diseguaglianza determinano un ritorno ad una fase aristocratica e arcaica della società europea: un modello feudale, basato essenzialmente sul privilegio e sul mantenimento del privilegio da parte di tale gruppo di potere. Un potere spesso ereditato e corporativo, che passa di padre in figlio intatto o ampliato, dove il confine tra risorsa pubblica e privata sfuma nell'intreccio perverso tra interesse appunto pubblico e privato. In poche parole: se con i miei soldi posso esercitare una forma più o meno lecita di pressione su soggetti pubblici o privati per generare altri soldi dove finiscono i miei soldi e dove cominciano quelli della comunità che paga le tasse?

Scrive Herbert Marcuse nel dimenticato Eros e Civiltà: Il dominio è ben diverso dall'esercizio razionale dell'autorità. Quest'ultimo, che è inerente a ogni divisione del lavoro in ogni società, proviene dalla consapevolezza ed è limitato all'amministrazione di funzioni e di ordinamenti necessari al progresso dell'insieme. Invece il dominio viene esercitato da un gruppo particolare o da un individuo particolare allo scopo di mantenersi e rafforzarsi in una posizione privilegiata.

La struttura sociale di oggi ha in qualche modo digerito questo assunto, dandolo ormai per scontato. La partita si gioca su un tavolo diverso e in ambiti molto più sottili. Liquefatti i diritti e posto un confuso senso di individualità al primo posto (del tutto irrilevante, visto che il singolo non può fare niente su un piano collettivo) ne consegue un passaggio, cruciale: la lotta tra poveri.
La rimanente e marginale parte delle risorse economiche va suddivisa tra un numero crescente di persone: gli scarti per gli scarti. Messa in questi termini la situazione suona cruda ed è per questo che la narrazione politica interviene ancora una volta, donando una terminologia appropriata anche a questo: iper-responsabilizzazione individuale e lessico da guerra da autobus. Piccoli guerrieri uno contro l'altro, in una lotta darwiniana per la sopravvivenza, a colpi di rinuncia (di diritti, di soldi, di accesso alla cultura, di possibilità sociali in genere).
Siamo capaci di indignarci per i diritti degli amici animali, ma non per il fatto che nascere in un posto o l'altro dell'Unione Europea (spesso differenze di poche centinaia di metri, di quartieri) determini un gap di possibilità economiche insostenibile e tendenzialmente sempre maggiore, esteso, come si è già detto, a tutto: istruzione, salute e lavoro.

Libero arbitrio? Il tema è abnorme. Certo che, come già rilevava Foucault, è difficile parlare di libertà nel momento in cui il Potere (oggi quasi esclusivamente economico) agisce in ogni ambito della società, attraverso molteplici forme di micropotere e altrettanti accorgimenti di inquadramento operati tramite mass media e scolarizzazione di base. Se una volta l'aristocrazia era fondata anche su valori – ovviamente relativi all'epoca – come virtù militare, conoscenza, prestigio personale, oggi tutto questo è stato surrogato nell'infinito equivalente generale del denaro, che assolve a funzione di prezzo e valore in un colpo solo, emendando l'intelletto dallo sforzo della differenziazione.
Dove la libertà allora? Se ne parla in continuazione, ma in fondo in modo sterile. Se, come diceva Baudrillard, Dio non esiste e quindi è dappertutto, allo stesso modo potremmo azzardarci a dire che la libertà è costantemente negata e quindi esaltata in modalità permanente. Sei libero di fare tutto, ma non hai i mezzi materiali per fare niente: la libertà è il fantasma di una scelta. Uno dei tanti valori fantasma proposti da una società che non solo non crede più – letteralmente – a niente se non al denaro come valore in sé e alla performance come suo profeta, ma che non ha più nemmeno i mezzi intellettuali per pensarsi in modo critico. Perché ogni critica parte da un presupposto etico, cioè da un'analisi dei dati materiali sullo sfondo di una conoscenza che tenga conto anche della qualità delle scelte e non solo della quantità.

Il brivido del niente sta anche nello smarrimento di uno scenario di senso. Se tutto è intercambiabile e in fondo non esistono differenze degne di essere apprezzate se non in termini economici, ne consegue che anche i rapporti umani soggiacciono alle regole di mercato. Spesso è stato così nella Storia, ma non è sempre e solo stato così. Il punto è che oggi questo nichilismo dell'ottimismo è diventato il fondamento stesso dell'Occidente. Nel tentativo di fissare le dinamiche dei rapporti in un algoritmo dei consumi, si è di fatto istituita una nuova ideologia, che non ha niente da invidiare alle religioni: è un Moloch indiscusso e venerato, perché posto al di fuori di razionalità e critica: è la tecnocrazia.
E uno dei deliri di questa religione sta proprio nel voler fare ammettere come razionale e logico il fatto che una percentuale numericamente irrilevante di popolazione determini, attraverso un potere economico, chiuso e sostanzialmente ereditario, le scelte e la libertà di tutti gli altri.


parole per niente


Mi è stato ripetuto molte volte, nel corso del 2016 e anche prima, un semplice concetto. E' una frase ripetuta molto spesso dalla gente e in qualche modo amata dall'uomo della strada. "La tua generazione deve fare la rivoluzione, voi non fate niente e quelli si approfittano". Detta così suona quasi romantica: un invito alla ribellione, un invito al coraggio. Parole vuote, che non significano niente. Prima di tutto "loro" chi? Chi sono questi loro? I vecchi a cui paghiamo la pensione? I nostri genitori? Lo Stato? Le Istituzioni? L'Europa? Chi? 

Punto secondo: cosa significa fare la rivoluzione? Lotta armata? Sedizione? Ci si inquadra, ci si organizza in forme paramilitari e parastatali, cosa? Questo paese ha già conosciuto tentativi più o meno manovrati e di lotta armata, e con quali risultati? Questo paese ha conosciuto intere stagioni di lotta politica estrema e dilaniante, dove è stato versato sangue vero, non simbolico. E con quali risultati? Cosa si intende esattamente per rivoluzione? Ne esiste una civile, contemplata dalle leggi? 
Naturalmente no. Ma l'uomo della strada che incita alla lotta queste cose non le sa. Di solito non ha mai dovuto compilare un cv e non ha mai letto un libro in vita sua. Parla tanto per parlare, senza tenere conto delle conseguenze pratiche di queste frasi da autobus.

Parlo per me, ma penso che la mia esperienza personale possa essere estesa anche ad altri: siamo una generazione educata ad obbedire. Alla famiglia, alle Istituzioni (Scuola, Stato...), addirittura alla Chiesa, alla Religione. Il messaggio era chiaro: ubbidisci e andrà tutto bene. Passa tante e tante ore a scuola. Rispetta lo Stato, rispetta il Professore. Il problema è che non è andato bene niente. E passati i trent'anni ci ritroviamo con i cocci in mano e un simulacro di democrazia che non lascia presagire niente di buono: ancora sacrifici, ancora tagli, condizioni di lavoro sempre più disperate, scarsa rete sociale. In altre parole è possibile, ovviamente, una salvezza individuale, ma è da escludere qualsiasi salvezza collettiva, come accadeva una volta: con contratti di categoria, protezione sindacale, stato sociale, redistribuzione della ricchezza e mille altre tutele che oggi non esistono più. 

Addirittura è resa complicata anche la possibilità di generare ricchezza, visto l'ammasso di tasse, leggi, impedimenti burocratici che strozzano sul nascere l'iniziativa di chi dal niente decide di creare qualcosa. 

E in pagamento ci sono le offese della politica, che ha oltraggiato in mille modi milioni di italiani con la tipica arroganza del Potere autoriferito. 

Quale rivoluzione allora? E fatta come? L'abitudine all'obbedienza ha dato luogo a pesanti equivoci, questo è certo. Ma ancora non posso fare a meno di interrogarmi sui limiti morali del rispettare la morale: cosa è giusto fare? E sono chiaramente domande che un rivoluzionario non dovrebbe mai porsi. 

Ma nondimeno, posto che sia questa la ricetta risolutiva, che cosa significa "rivoluzione"? Temo che non lo sappia nessuno o che ognuno ne abbia un'idea diversa. Con intenti diversi, progetti diversi, quasi sempre incentrati sull'interesse personale. Altra conseguenza della società liquida e della riduzione di ogni istanza etica all'equivalente generale del guadagno economico individuale.