pop

Dov'è naufragato l'aspetto buono della cultura pop? Quel lato un po' meno animalesco e un po' più ragionato a cui faceva cenno Peter Gabriel su Repubblica di ieri? Se posso avanzare una minima analisi da osservatore, direi nella melassa del sentimento. Un'emozione da poco portata a livelli estensivi, una pesca a strascico di menti semplici accalappiate con ammiccamenti, amorazzi, anime, emozioni. Ecco, appunto, le emozioni. Le emozioni non sono niente, sono solo un abuso lessicale, alla millesima volta in cui in cantante fa ricorso al termine emozione, l'emozione di fatto non esiste più: è diventata un tormentone pubblicitario, una marchetta, la marca di un prosciutto. Emozione è tutto ciò che di semplice viene spacciato alle menti semplici perché restino semplici, parafrasando l'immortale vignetta di Bucchi. Emozione, movimento da luogo, come suggerisce l'etimo, è qualcosa di passivo, di indotto: non è un male di per sé, lo diventa quando il traino ha dei pessimi fini, tipo quelli di spacciare un prodotto o vendere qualcosa. Il pop ormai vende questa pillola chiamata emozione, che non è niente, solo un palliativo che fa rima con cuore, amore, dolore. Non è un'opera, non è una riflessione: è una produzione su vasta scala di pezzi tutti uguali, distribuiti da cantanti costruiti a tavolino, tutti vestiti allo stesso modo, tutti con la stessa voce. C'è da diffidare dell'emozione, perché il suo unico scopo è quello di bypassare la ragione, di circuirla e di spegnerla, in modo tale da avere via libera e dire un po' di tutto per vendere qualsiasi cosa. Il pop ridotto a un gigantesco discount si comporta né più né meno come un imbonitore che voglia vendere un elisir di lunga vita: venite da me, dice, a poco prezzo e con poca fatica vi do qualcosa che vi farà stare meglio per un po', come? Staccando il vostro cervello, alzando la vostra glicemia con gli zuccheri di cuore e amore. Vendono ancora l'Inghilterra alla libbra, Peter?

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