Pastorale Americana, di Philip Roth

Nel microcosmo di Newark, sprofondo americano, si consuma la parabola esistenziale di Seymour Levov, detto lo Svedese per via dell'aspetto imponente e dei capelli biondissimi, campione a stelle e strisce di origine ebraica ma più wasp dei wasp per via delle sue spiccate attitudini made in America. Campione negli sport, marine, imprenditore di successo. Per soprammercato si sposa pure Miss New Jersey 1949, la bellissima Dawn. Eppure la mano del fato è in agguato. Prenderà le forme inaspettate di una figlia balbuziente e inquietante e del conflitto in Vietnam. Philip Roth con Pastorale americana definisce i suoi canoni umani, stilistici e politici e scrive il libro che lo consegnerà alla memoria letteraria. In questo romanzo di digressioni e battute a vuoto c'è in realtà una coerenza tesa, disperata, che prende corpo a poco a poco, smontando pezzo per pezzo le illusioni di un mito, quello americano appunto, e delineando al contempo una riflessione non banale sul caso, la predestinazione, la storia. Il gagliardo americano ottimista si troverà a dover far fronte a tutto ciò per cui né lo sport né uno stile di vita improntato alla competizione lo possono aver preparato. Incredibile come un romanzo così intriso di tematiche comuni - il solito Vietnam, il solito americano middle class in crisi, il solito ambiente liceale universitario, le solite paturnie familiari intorno al desco - riesca in realtà a sollevarsi da quella che rischiava di essere una storia banale per dire qualcosa che va oltre alle righe, per consegnarsi, in tutta la sua interezza, ai capricci della vita. Che non è provvidente, che non è generosa, che è solo quello che è, in tutta la sua insensatezza e in tutti i suoi compromessi. Merry, la figlia, è un personaggio un po' schematico, e, pur assumendo in toto la versione tragico fatalista dell'autore, è impossibile non storcere il naso di fronte agli accessi del suo carattere, agli improvvisi colpi di testa e al generale senso di eccesso gratuito che trapela da ogni suo gesto. Il lezzo di scuola di scrittura creativa si sente, ma non è ancora il fetore insopportabile che deflagrerà senza alcun ritegno in La macchia umana. Da leggere, comunque, e per una ragione molto semplice: si riesce a leggere senza la spiacevole sensazione di girare a vuoto.

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