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Hanno ancora senso i premi letterari? I principali, a partire dallo Strega, sono dominati dalle grosse case editrici, i pachidermi dell'editoria. I vincitori si sanno in partenza, il valore letterario di ciò che si premia non conta più nulla. Siamo di fronte ad una commedia, tipicamente italiana. L'obiettivo è noto: lanciare il prodotto libro sul mercato, forti di quel tanto o poco di pubblicità che il prestigio del premio può ancora garantire. Un premio ha ancora una certa aura protettrice, una luce salvifica che ne certifica la bontà, il valore. E' un po' come la storia dei titoli di studio: un libro premiato è un libro che riceve un'investitura di stato, e quindi spendibile. Purtroppo, un'altra illusione. Prendiamo la lista dei vincitori del premio Strega, per esempio: scopriremo che il capostipite dei vincitori, suo malgrado, fu Ennio Flaiano. Cui seguirono, in ordine sparso, Cesare Pavese, Alberto Moravia, Anna Maria Ortese. I grandi nomi, e i grandi capolavori, sono concentrati nella prima parte della sua storia. Il dopo, quasi a voler sancire la cesura con il passato, è sotto gli occhi di tutti, un dopo in cui la qualità dei testi è passata in secondo, terzo piano. Fino allo scandalo de La solitudine dei numeri primi, forse il punto più basso mai raggiunto. E in sottofondo l'orgia di raccomandazioni, traffici, magheggi, intrallazzi. Una specie di telenovela a sfondo letterario, che sarebbe meglio però catalogare come pubblicitario. Proposta, provocazione, mettetela come volete: che vengano premiati solo gli autori pubblicati da case indipendenti. Autori relegati alle retrovie, che non possono contare sulla protezione delle multinazionali dei libri e che attraverso un premio importante potrebbero acquisire notorietà, e la giusta remunerazione per il lavoro fatto. Ci guadagnerebbero tutti: i lettori, per diversificazione dell'offerta, gli autori, come già detto, e anche i premi stessi, che forse, e dico forse, potrebbero recuperare un poco di credibilità investendo sul futuro anziché sulle macerie.

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