PER ÀLVARO MUTIS

I poeti sudamericani hanno una formazione solitamente diversa rispetto a quelli di schiatta europea. Non serve chissà quale indagine per scoprirlo: basta leggere Neruda piuttosto che Ernesto Cardenal o Mario Benedetti accorgersi di come il fare poetico dello spagnolo d’oltreoceano sia legato a stilemi che qualche volta risultano difficili da comprendere subito; siamo in presenza di una poesia barocca che non ha conosciuto il barocco, lastricato di sensazioni misteriche e naturalistiche che ha avuto il destino di svilupparsi in un ambiente con influenze diverse da quelle europee (che pure si riscontrano comunque). Inutile dilungarsi su questo aspetto, che porterebbe molto lontano.
Un esempio di poesia ricca ma non ridondante, in piena continuità con la tradizione sudamericana ma al tempo stesso dotato di una sensibilità propria, individuale e individuata, è quella di Alvaro Mutis, di cui in Italia a dire il vero si ha ben poco: solo la pregevole e comunque illuminante antologia di Summa di Maqroll il Gabbiere, edita da Einaudi.
Qui sta l’essenza del poeta colombiano, qui stanno i suoi dolori o per meglio dire la sua trasfigurazione del dolore, perché di questo si parla alla fine: la caratteristica del lirismo di Maqroll è proprio il suo gioco di rimando ad un odore, ad un colore, ad una sensazione; il viaggio di Maqroll – figura marina, acquatica, polimorfa – è anche il viaggio di chi legge, che alla fine familiarizza con i caratteri esotici della poetica di Mutis: estetismo, natura mortifera, malattia, ma anche una sensualità insieme sacra e prosaica che riemerge qua e là. Il verso è lungo, prosastico, e talvolta sfocia nella prosa poetica senza mediazione metrica, mentre il lessico scivola lento, avvolgente, descrittivo attorno all’immagine, seducendola fino a restituirla in tutta la sua fragranza.
Mi è difficile parlare in modo neutro di Mutis, perché Mutis è un pezzo della mia vita: lo è nella misura in cui le sue parole hanno la facoltà quasi sciamanica di trasporre la mente di chi legge da un luogo ad un altro luogo, di influire sugli umori, di plagiarli fino a stordire i sensi e a confonderli. Letta la Rassegna degli ospedali d’oltremare si fiuta il dolciastro della selva, del mare un po’ guasto e verdognolo che porta con sé sale e malattie anziché abbondanza e vita.
Accade che tutta la poetica di Mutis sia un enigma insondabile: le allocuzioni sono qua e là troppo profonde, connotate dall’umore della terra da cui provengono, per essere comprese ad una prima lettura o alla luce della cultura che l’Europa, ancorché colta e preparata, è riuscita a sfornare. Credo che valga, mutatis mutandis, lo stesso discorso che vale per la narrativa di Garçia Marquez: ci troviamo di fronte ad un percorso iniziatico che può essere letto a diversi livelli, solo il primo dei quali accessibile, in chiave di pura intuizione poetica, al lettore che non sia anche iniziato. Come dire: la poesia è poesia, ed è di altissimo livello per giunta, ma appare anche chiaro all’orecchio attento come questa sia il rimando ad un retroterra culturale che è anche “magico”, sfuggente. La celebrazione della morte, in Mutis, è appunto una forma di rito, di ricomposizione antropologica prima che letteraria che serve per evocare qualcosa: uno spirito musicale, un alone misterico. Il metro, come si diceva poc’anzi, non c’è, oppure è posto in secondo piano: si sa che la letteratura latinoamericana mal sopporta le costrizioni di metro e di verso, e in questo Mutis si adegua, pronunciandosi con continui enjambement che tracimano dal verso per riversarsi in quello successivo e così via, fino a perdersi in una chiusa senza soluzione che conduce in un fiato fino al punto finale. C’è coordinazione e subordinazione nel suo verso. C’è gusto per il suono intrinseco della parola, e c’è dunque rispetto supremo per la parola, a scapito invece del suono più artificioso e insincero della rima, della figura di suono imposta. La parola si presenta invece come suono naturale: Un aire frio pasa sobre la dura concha de los crostàceos. Siamo oltre l’onomatopea, e siamo più propriamente nella figura di suono.
Non so se Mutis abbia letto Foucault, o se addirittura lo abbia anticipato senza saperlo, ma in Maqroll si dà esattamente la resa in poesia di quanto asserito dal linguista francese: “Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono” e poco prima: “[Il poeta] assolve alla funzione allegorica; sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate, si pone all’ascolto dell’”altro linguaggio”, quello, senza parole né discorso della somiglianza.” In questo breve assunto c’è tutto: prima della parola, che rappresenta già una fase concettuale, c’è un richiamo per così dire primitivo che risiede nel suono della parola. Il poeta pertanto segue un processo inverso a quello del linguista puro: scava nel suono per rendere l’idea senza bisogno di contestualizzarla, rende un pensiero senza la mediazione del concetto. Mutis è poeta in questo senso, perché mette da una parte la retorica, e assume su di sé il ruolo di mediatore tra il significante e il significato, privilegiando il primo dei due, e lo fa perché ritiene che sia questa la sua partita. Mutis è soprattutto un grande naturalista della parola, lo è specialmente nelle marine, e in questa operazione non c’è bisogno di rappresentare un’ideologia, perché l’idea è già contenuta nel soggetto – oggetto della poesia, ed è l’immagine naturale stessa.
Maqroll, secondo un’interpretazione un po’ arbitraria ma a cui mi è capitato di pensare, è all’opposto di tanta cattiva poesia per così dire politica che ha funestato ampi tratti del novecento: una poesia che metteva in primo piano una tesi, un messaggio a cui i versi servivano come sostegno per inculcare meglio la lezione. Non è di certo il tipo di poesia che preferisco. Mutis in questo senso inventa una terza via, ignorando gli accenti più insopportabilmente amorosi ed evitando qualsiasi genere di cascame per concentrarsi su un aspetto in particolare: la possibilità dell’uomo di vivere in un ambiente naturale che lo considera con indifferenza. Non c’è provvidenza, non c’è un logos, ma più semplicemente si vive in un ambiente che ci costringe ogni volta a misurarci con la nostra nullità, con la nostra totale impossibilità di sfuggire alle spire della nostra fragilità intrinseca.
“Tutto svanirà lentamente nell’oblio / e il grido di una scimmia, / lo sgorgare biancastro della linfa / dalla corteccia ferita del caucciù, / lo sciabordio delle acque contro la chiglia in viaggio, / saranno argomenti più memorabili dei nostri lunghi / abbracci.” La poesia è Un bel morir, e dice praticamente tutto sull’insignificanza per noi fondamentale che chiamiamo vita.

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