riformatorio

Continuano le domande oziose, le domande ovvie a cui però non riesco a trovare risposta. Le riforme, per esempio, che cosa sono? Il sostantivo del momento, e va bene. Un'altra parola da massacrare ripetendola allo sfinimento, buona anche questa. Ma non basta. C'è qualche cosa di perverso nel continuare ad evocare ossessivamente le salvifiche riforme: sono diventate un mantra, una formula a metà tra il consolatorio e il rituale che getti la palla in avanti per alleggerire il pressing e sperare nel contropiede. In fondo ogni politico, per mestiere, legifera, e dunque può dirsi un riformista (o un riformatore? La linguistica insegna che i sinonimi non esistono), e pertanto: che bisogno c'è di evocare stravolgimenti ad ogni occasione? Dopo un lungo periodo di paziente osservazione sono giunto ad una mia personale ed opinabile conclusione: le riforme non sono niente. Sono un concetto astratto, una chimera più per chi le sogna che per chi le promette. Si pensa che con un paio di leggine, due commi e il resto mancia si risolva magicamente ogni impaccio. Ma non è così. L'Italia è piena di leggi, zuppa di regolamenti, commissioni, regole e sottoregole. Eppure non basta. In un paese in cui è il senso della legalità a mancare, in cui sono proprio i controllori a disattendere ogni principio di equità, non ci si può aspettare che due righe in un codice bastino a salvare la baracca. Pensiamo alla riforma fiscale. Ripetiamo tutti in coro: riforma fiscale, pare già di sentirsi meglio, no? Ma io dico: non ha senso parlare di riforma fiscale in uno stato in cui l'evasione è ai vertici mondiali. Non ha senso promettere meno tasse e abbassamento delle aliquote se appena centomila persone e spiccioli dichiarano più di centomila euro all'anno. Come dire: è un problema culturale. La cultura del suv, della villazza e della sanità privata contro la cultura della comunità solidale e sociale. Inutile dire quale via stiamo imboccando con il sorriso sulle labbra.

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