satyricon

Il nuovo capitolo di questo lungo addio, ha il volto e le fattezze di una ninfetta minorenne e allucinante che dimostra almeno dieci anni più della sua effettiva età. E' l'ennesima storia squallida, ambigua, fatta di detti e contraddetti. Una storia di feste equivoche, vecchi procacciatori, presunti abusi di potere. E' la cronaca di un tracollo, quello a cui stiamo assistendo ormai da oltre un anno: un castello di carte che collassa e lascia intuire dietro le defunte vestigia nient'altro che un pugno di polvere. Il fatto in sé, la cronaca spicciola di queste ore, non sorprende ormai più: eravamo tutti più che in grado di immaginare qualcosa del genere, in un certo senso molti di noi se l'aspettavano. Infatti, tra le reazioni di queste ore, la meno gettonata è stata proprio lo stupore. Non sorprende più neanche l'arroganza di questo potere insensato, che sbraita a oltranza, che non vuole saperne di dimettersi: è un film già visto cento volte. E anche la solita domanda, quella che mi pongo con crescente tensione ad ogni puntuale scadenza, è anch'essa sempre uguale: che deve accadere ancora? Ormai siamo al gioco di ruolo, e non mi aspetto più una risposta di buonsenso, perché tanto so già che la realtà si incaricherebbe di deludermi a stretto giro. E allora che rimane? Oltre ai possibili risvolti giudiziari, già visti già sentiti anche quelli, resta un vago senso di schifo. Di vergogna impotente di fronte a questa macilenta decomposizione: una disgregazione annunciata che si svolge sotto gli occhi di tutti, senza alcun pudore. Anche il probabile disgusto internazionale che seguirà a questa ennesima pagliacciata non farà più notizia. E hai voglia a dire che la faccenda non ha rilevanza politica: e se per caso scoprissimo un giorno che tra le cause degli scarsi investimenti esteri nel nostro paese ci fossero anche queste continue figure da Pulcinella? Fossero almeno stati coinvolti gli alti ideali, le grandi battaglie, le grandi follie da cui la Storia è stata più volte insanguinata nel corso dei secoli. No, niente di tutto questo: sono le solite storie di putredine e malaffare, di sconcezza e di pelo. Almeno moriremo al caldo dirà qualcuno.

teleutenze

Interessante articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica (link) in cui si analizza il panorama dell'informazione in Italia. Ne esce il ritratto di un paese che poco alla volta sta acquisendo una certa consapevolezza, è vero, ma ciò che emerge con prepotenza a mio avviso è come questo tentativo risulti parecchio faticoso, come se ci fosse un tappo che impedisce il salto di qualità. Il tappo ha un nome: conflitto di interessi. Il conformismo delle idee parte da un dato di fatto inoppugnabile: troppa televisione si plasma sulle idee e sugli interessi di un uomo solo. Detta così sembra la scoperta dell'acqua calda, e in effetti lo è, ma nondimeno una larga, larghissima fetta percentuale di cittadini ritiene ancora affidabili quei telegiornali e quell'informazione che più o meno direttamente ricreano una realtà "di Stato", per non usare altre espressioni più crude. C'è voglia di opinione pubblica come dimostra l'interesse crescente per trasmissioni più indipendenti come Report o come il Tg de La Sette, ma si tratta ancora di cifre minime, che servono sì a controbilanciare un poco lo straripante conformismo, ma che non bastano a far scoccare un'inversione di tendenza, ossia una richiesta generalizzata di qualità e di vero giornalismo. Subissati dalla cronaca nera, ingolfati dal gossip, la maggior parte degli italiani si accontenta, si distrae, in molti casi difendendo la propria posizione. Solo una minoranza cerca una via diversa, e sarebbe troppo comodo, troppo ecumenico sostenere che si tratti di una minoranza senza colore politico: un colore c'è, e non è quello della destra berlusconiana, arroccata su posizioni che variano dall'opportunismo più bieco al conservatorismo un tanto al chilo (leggi: sono conservatore quando serve a me). Ma è una lotta impari a quanto sembra. Nella stasi generale della teleutenza, qualche traccia di vitalità non basta a dichiarare fuori dal coma una società pesantemente arretrata, tradizionalista nel peggio, sempre pronta ad accusare la classe politica di tutti i suoi mali ma senza il coraggio di guardarsi allo specchio. E quello specchio, purtroppo, è l'immagine banale e sconfortante della televisione.

Espiazione, di Ian McEwan

Nell'estate del 1935, la tredicenne Briony commette un crimine di conseguenze incalcolabili, proprio nello stesso giorno in cui, qualche ora prima, ha scoperto di essere diventata una scrittrice. A farne le spese il giovane Robbie, accusato di una violenza che non ha commesso, e Cecilia, sorella di Briony, innamorata di Robbie. Ma la guerra incombe, tutte le questioni personali sono insieme assorbite e dilatate, ma non dimenticate, e continueranno a tormentare i protagonisti di questa vicenda fino alla fine. Espiazione è considerata l'opera più importante e riuscita di Ian McEwan, probabilmente non a torto: il romanzo è a più voci, ma senza eccessi schematici: i protagonisti si succedono sul palco con naturalezza, si muovono, interagiscono e reagiscono. E' un romanzo, ma la forma, con qualche variazione espressiva, potrebbe essere benissimo quella di una tragedia: c'è indubitabilmente un fato che incombe, un evento che indugia tra due vie salvo poi imboccarne una, e non sempre per un buon motivo. La vita di Robbie e Cecilia è spezzata per sempre, e senza che sia data loro possibilità di intervento, e il fatto di non rassegnarsi non cambia le cose: l'alone inquietante (e tragico appunto) della predestinazione incombe sulle loro vite, e anche su quella di Briony, condannata a rivivere quel gesto, quell'atto stupidamente infantile per tutta la vita. McEwan costruisce un impianto narrativo grossomodo in due parti e una chiosa finale: la prima con una narrazione praticamente in presa diretta, visto che metà delle pagine racconta un'unica giornata, e la seconda con uno scarto cronologico molto ampio, che abbraccia più o meno i primi due anni di guerra. Se la seconda scansione funziona e avvince grazie ad un buon ritmo e ad una prosa efficace, la prima francamente mi ha convinto poco, pur comprendendo le intenzione di fondo dell'autore: la dissoluzione dell'alta borghesia inglese in vista di una guerra devastante andava descritta attraverso i dettagli, le minuzie di questa piccola corte di campagna, adagiata in pigre e consolidate abitudini scambiate per tradizioni. La prosa, però, è quella che è: nel tentativo di addentrarsi nella minutaglia resta imprigionata tra soprammobili e granelli di polvere, appesantendo l'azione oltremodo, e oltrepassando di parecchio la soglia dell'essenziale. Ora, siamo tutti d'accordo sul fatto che un romanzo non viva solo di essenziale: ci sono digressioni tanto inutili quanto indispensabili, variazioni di temi, di tempi, di modi, che, nella loro accessorietà, servono più di interi capitoli. Ma McEwan tende ad abusarne. Forse per allungare il brodo, forse per un compiaciuto sfoggio di tecnica. A conti fatti, le due sezioni del romanzo sembrano appartenere quasi a due penne diverse, o comunque alla stessa penna sfoderata in due momenti distinti. Al di là del fatto tecnico, comunque, è un romanzo che sfida temi ultimi (la morte, la colpa...) e che punta l'attenzione soprattutto sul versante pubblico/privato: la vita del singolo si scontra con la Storia, dando luogo ad un cortocircuito in cui sarà sempre la Persona a perdere: perdere tempo, giovinezza, energie, speranze. Che cos'è l'espiazione in ultima analisi? L'autore lascia il lettore libero di farsi un'idea. Che la guerra sia esplosa solo per far scontare a Briony la sua colpa? E' una tentazione letteraria, peraltro, credo, filologicamente scorretta. E l'autore ce ne dà conferma: siamo cattivi per delle sciocchezze, mostri per debolezza, indolenza, incapacità di capire. La guerra, poi, è conseguenza di colpe collettive troppo grandi per poter essere assimilate ai torti inflitti e subiti ogni giorno: è il lavacro in cui tutto, indecentemente, si accorpa e si confonde, si smembra e si ricompone. Allora forse l'espiazione è solo una scelta che il penitente opera tra i mali che ha a disposizione.

storia di noi due

Compiranno gli anni a breve, a distanza di pochi giorni. Pelé e Maradona sono due icone del calcio, generalmente considerati i più grandi, coloro che per intenderci si contendono da quasi un ventennio la palma dei migliori di sempre. Sono due personaggi, due icone, due simboli. Come in tutte le narrazioni che si rispettino, le loro vite sono andate al di là del campo sportivo: sono diventate due modi di vivere, due stili. In altre parole sono diventate un fatto politico. Pelé l'esempio di sportività, di correttezza, di consenso plebiscitario: il ministro, l'uomo benvoluto dalle piazze di tutto il mondo. Maradona il maudit, lo sfaticato, il dopato, quello che "se solo di fosse allenato un poco", quello con i conti in sospeso con il fisco in Italia, quello che a New York non può mettere piede, l'amico di Castro e delle rivoluzioni. Pelé ha ormai settant'anni, ma ne dimostra venti di meno, anzi: è uguale a quando ha smesso di giocare. Patto con gli angeli o con Satana, chi lo sa. Diego è quello che è: prima obeso, poi magro, poi di nuovo inguardabile. Capelli corti, capelli lunghi, barba, sbarbato. Ginocchia a pezzi, perché di botte i difensori gliene hanno date tante. Figli di qua e di là. Cocaina e chissà che altro. Pelé ha sospeso per un attimo una delle tante e terribili guerre africane, durante una tournée con i suoi Cosmos; Maradona ne ha vendicata una, quella delle Falkland Malvinas, durante una partita contro l'odiata Inghilterra, in una delle pagine più pazzesche della storia dei mondiali. Pelé ha segnato un'infinità di goal: c'è chi dice che il computo totale si aggiri intorno ai 1.200 o qualcosa del genere; Diego ha segnato molto meno, ma in tutte le sue reti c'è un sentore magico, un tocco inconfondibile, e sono praticamente tutte da cineteca, rigori compresi. Ma tutte queste considerazioni sono al massimo dati statistici o poco più; l'ingegno, la prontezza, la capacità di rendere arte uno sport non passano attraverso i numeri, sono una dote innata, un dono, un carisma, sono ciò che ha reso le mani di un pittore rinascimentale uno strumento di gloria. Quando un campione sportivo esce dal suo terreno per invadere con la sua personalità quel territorio impervio che è l'immaginario collettivo, allora siamo in presenza di un evento, che con qualche cedimento romantico potremmo definire mistico. Al netto di tutto ciò, tra i due, io scelgo Maradona. Il perché l'ho già detto in pratica: è un maudit. Un vincente che ha saputo perdere come solo i fuoriclasse sanno fare: rovinosamente. Uomo sbagliato, che ha umiliato il proprio talento consapevole di poterlo ritrovare intatto e splendente un attimo dopo, atleta che ha sprecato un patrimonio unico al mondo proprio perché solo lui poteva perderlo. Diego è questo, e per una volta tanto è vero il motto popolare secondo cui "non si discute". C'è della materia narrativa infinita nella sua vita: come in una parabola evangelica c'è lo splendore e la miseria, il tradimento e il perdono, la morte e la resurrezione: sì, anche questo. Perché se c'è un esempio che la figura contraddittoria di Maradona può dare è che una volta caduti per terra ci si può rialzare, una volta, due volte, tre volte, anche con tutto il mondo contro e con un corpo acciaccato che sembra non volerne più sapere. Più di tanti vincenti di professione, abili moralisti con la sentenza in canna, Diego non si è mai nascosto dietro un dito: ha mostrato tutto, alzando la soglia del pudore almeno quanto quella del suo talento. Ma lui poteva farlo, può farlo, perché ha un dono, e tutti quelli che non ce l'hanno possono solo stare a guardare, impietriti, l'uomo che riusciva a palleggiare anche con una goccia d'acqua.

il Mar dei Caraibi

Il fatto che uno possa comprarsi legalmente delle villone in un paradiso fiscale non è niente. Il fatto che ad essere coinvolto in questa faccenda sia sempre il solito imprenditore a noi ben noto, poi, non dovrebbe stupire più di tanto. Al di là della legalità o meno, che per il nostro si è rivelata in più occasione essere una questione di stati d'animo, resta l'impressione di trovarsi di fronte sempre allo stesso problema: l'arroganza dei soldi. La concentrazione di tanto potere e di tanto denaro nelle mani di uno solo è la madre di tutti gli equivoci, di tutti i conflitti di interessi, di tutti i dubbi che sorgono sull'operato di un uomo che bene o male è costretto, in quanto proprietario, a gestire questa massa di denaro, che da qualche parte dovrà pure sfociare. Il conflitto di interessi? Sì, il conflitto d'interessi. Questo spauracchio, questa cassandra che tutti cercano di imboscare, sminuire, dimenticare. Si parla tanto di giustizia uguale per tutti, ma qui siamo al cospetto di una logica, figlia del peggiore capitalismo, che di fatto ha già superato il concetto: mancano i criteri minimi di giustizia sociale, quella istanza così impalpabile, così astratta, che dovrebbe limitare, se non impedire, che le possibilità economiche coincidano sempre e comunque con le maggiori possibilità sociali. Di fronte ad un possidente, che può permettersi di "avere più cose", di pagarsi un avvocato migliore, di espatriare eventualmente, il concetto stesso di giustizia viene a mancare, per diventare al massimo materia da legulei, nauseante tenzone verbale tra giuristi. Non ci sono pari opportunità, checché ne dica il ministerino creato per l'occasione. In ultimo, un'occhiata ai sondaggi: delle villone ad Antigua non frega niente al 40% della popolazione italiana, mentre un 7% è riuscito a dire che "il presidente ci sa fare con gli affari". Direi che questo basterebbe a commentare il tutto. E' inutile che una minoranza rumorosa, di cui mi sento di far parte, continui ad indignarsi: c'è una maggioranza che regge molto bene, e che consente alle cose di rimanere così come sono.

Barnum triste

In questi giorni è sotto gli occhi di tutti la drammatica, ma forse poco notata, frattura che sta vivendo l'informazione italiana: da un lato la morbosità della cronaca nera, tremendo veleno da spargere sulle menti del pubblico, e dall'altro il giornalismo d'inchiesta di Report o di Presa diretta. A tornare alla mente è sempre la solita e ormai bollita questione: sono gli italiani che desiderano essere inondati dall'acqua sporca della cronaca nera (oltre sessanta ore di trasmissione sulla triste vicenda di Avetrana) o sono piuttosto i palinsesti televisivi a infondere dosi micidiali di sangue e sesso nelle molli arterie dell'opinione pubblica? Argomento dibattuto, con più o meno successo, ormai da molto tempo: più o meno da quando la febbre reality ha contagiato la generalità dell'informazione televisiva, generando un cortocircuito che ormai impedisce di capire dove finisca un genere e dove ne cominci un altro. La cronaca nera miscelata ai toni e al clima da reality show è proprio questo ormai: un genere narrativo. Scadente, va da sé; una narrazione di fatti e luoghi reali che diventano trame di una fiction, con telecamere sempre presenti, parole a vuoto, giudizi un tanto al chilo da parte di emeriti sconosciuti. Protagonisti i coinvolti nelle vicende, ma anche tutta quella pletora di giornalisti televisivi che campano su questa inflazione e che, spogli di ogni pudore, difendono la loro indifendibile attività, abusando della libertà di cronaca e del diritto di dire un'opinione. Il genere d'appendice, a cui idealmente appartiene la nera, scivola nel cabaret puro, quando a dire la propria ci si mettono anche psicologi da talk show e opinionisti dell'ultim'ora. E' uno sconfinato Barnum, e per di più mellifluo, moralista, sorprendentemente sgradevole, sia nei modi che nella patina paternalistica con cui tratta le lacrime e gli analfabetismi dei poveracci che ingloba nel suo spettacolo. E il giornalismo, quello d'inchiesta, quello vero, finisce ai margini, tra una minaccia di querela e l'altra, prigioniero di un pregiudizio idiota e ignorante che premia sempre il peggio, che a sua volta quasi sempre coincide con ciò che si vende meglio. La tentazione è ascrivere la principale responsabilità di questo decadimento allo sdoganamento della "pancia", organo di senso che ormai ha soppiantato il cervello in molte delle manifestazioni della massa. Che a forza di "essere se stessa" prima o poi sarà costretta a vedersi nello specchio per scoprirsi obesa e cinicamente superficiale.

Peter Handke, un diario

Peter Handke è forse il principale autore vivente in lingua tedesca. Austriaco, fuori dagli schemi, portabandiera di una letteratura difficilmente classificabile, che spazia dalla poesia al romanzo fluviale, dal testo breve al saggio minimalista. Assecondando questa sua vena multiforme, Handke è anche autore di uno dei più bei diari del novecento letterario: Il peso del mondo, raccolta di appunti vari, di brevi prose, di note estetiche e ispirate. Osservatore delle cose e cultore dei dettagli, lo scrittore austriaco compie un viaggio dentro se stesso e la natura degli oggetti che lo circondano, alla ricerca di un'armonia sempre sul punto di infrangersi o di sfuggire dalle dita. Il diario, genere minoritario e sottovalutato per eccellenza, diventa specchio del mondo, strumento per capire e per capirsi, lente non deformante per intuire il meccanismo delle cose. La prosa coglie la realtà nel suo farsi, perché il bello, ci insegna Handke, si nasconde nelle pieghe, negli orli, nei risvolti, e in tutti quei luoghi di passaggio - ma indispensabili - che di solito vengono trattati alla stregua di anticamere, porti franchi. Era parecchio tempo che non prendevo in mano questa edizione consunta e logora de Il peso del mondo: ogni volta che si rileggono questi scorci, che si riassaporano questi movimenti emotivi viene voglia di dire: "Era tutto sotto i miei occhi e non avevo capito niente." Questa, in fondo, è la grande rivelazione di Handke: un sussurro denso e carico di presagi, dove l'auscultazione della natura coincide con quella di sé, con il proprio battito interiore. In altre parole potremmo dire che questo diario si occupa di ritmi e di coincidenze: quando l'autore sente che il battito del suo cuore corrisponde al movimento di una foglia, in quell'istante può dirsi compiuto, realizzato perché inserito nella logica del mondo. Lo stupore dell'artista diventa sgomento, e poi, in diverse, strazianti note, distanza dalla vita, dolore per il tutto: diventa peso appunto, consistenza insopportabile della materia. E' la grande lacerazione raccontata in queste pagine.