storia di noi due

Compiranno gli anni a breve, a distanza di pochi giorni. Pelé e Maradona sono due icone del calcio, generalmente considerati i più grandi, coloro che per intenderci si contendono da quasi un ventennio la palma dei migliori di sempre. Sono due personaggi, due icone, due simboli. Come in tutte le narrazioni che si rispettino, le loro vite sono andate al di là del campo sportivo: sono diventate due modi di vivere, due stili. In altre parole sono diventate un fatto politico. Pelé l'esempio di sportività, di correttezza, di consenso plebiscitario: il ministro, l'uomo benvoluto dalle piazze di tutto il mondo. Maradona il maudit, lo sfaticato, il dopato, quello che "se solo di fosse allenato un poco", quello con i conti in sospeso con il fisco in Italia, quello che a New York non può mettere piede, l'amico di Castro e delle rivoluzioni. Pelé ha ormai settant'anni, ma ne dimostra venti di meno, anzi: è uguale a quando ha smesso di giocare. Patto con gli angeli o con Satana, chi lo sa. Diego è quello che è: prima obeso, poi magro, poi di nuovo inguardabile. Capelli corti, capelli lunghi, barba, sbarbato. Ginocchia a pezzi, perché di botte i difensori gliene hanno date tante. Figli di qua e di là. Cocaina e chissà che altro. Pelé ha sospeso per un attimo una delle tante e terribili guerre africane, durante una tournée con i suoi Cosmos; Maradona ne ha vendicata una, quella delle Falkland Malvinas, durante una partita contro l'odiata Inghilterra, in una delle pagine più pazzesche della storia dei mondiali. Pelé ha segnato un'infinità di goal: c'è chi dice che il computo totale si aggiri intorno ai 1.200 o qualcosa del genere; Diego ha segnato molto meno, ma in tutte le sue reti c'è un sentore magico, un tocco inconfondibile, e sono praticamente tutte da cineteca, rigori compresi. Ma tutte queste considerazioni sono al massimo dati statistici o poco più; l'ingegno, la prontezza, la capacità di rendere arte uno sport non passano attraverso i numeri, sono una dote innata, un dono, un carisma, sono ciò che ha reso le mani di un pittore rinascimentale uno strumento di gloria. Quando un campione sportivo esce dal suo terreno per invadere con la sua personalità quel territorio impervio che è l'immaginario collettivo, allora siamo in presenza di un evento, che con qualche cedimento romantico potremmo definire mistico. Al netto di tutto ciò, tra i due, io scelgo Maradona. Il perché l'ho già detto in pratica: è un maudit. Un vincente che ha saputo perdere come solo i fuoriclasse sanno fare: rovinosamente. Uomo sbagliato, che ha umiliato il proprio talento consapevole di poterlo ritrovare intatto e splendente un attimo dopo, atleta che ha sprecato un patrimonio unico al mondo proprio perché solo lui poteva perderlo. Diego è questo, e per una volta tanto è vero il motto popolare secondo cui "non si discute". C'è della materia narrativa infinita nella sua vita: come in una parabola evangelica c'è lo splendore e la miseria, il tradimento e il perdono, la morte e la resurrezione: sì, anche questo. Perché se c'è un esempio che la figura contraddittoria di Maradona può dare è che una volta caduti per terra ci si può rialzare, una volta, due volte, tre volte, anche con tutto il mondo contro e con un corpo acciaccato che sembra non volerne più sapere. Più di tanti vincenti di professione, abili moralisti con la sentenza in canna, Diego non si è mai nascosto dietro un dito: ha mostrato tutto, alzando la soglia del pudore almeno quanto quella del suo talento. Ma lui poteva farlo, può farlo, perché ha un dono, e tutti quelli che non ce l'hanno possono solo stare a guardare, impietriti, l'uomo che riusciva a palleggiare anche con una goccia d'acqua.

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