Hitler, di Giuseppe Genna

Hitler si propone come romanzo. In realtà è una narrazione storica: c'è una sottile ma decisiva differenza. I fatti non sono inventati, sono realmente accaduti. Tutti: nella loro dimensione da incubo, nei loro connotati agghiaccianti. Adolf Hitler. Il poveraccio alla Mannerheim di Vienna, sorta di dormitorio per barboni e vagabondi, destinato a scatenare uno dei bagni di sangue più spaventosi della storia dell'umanità passata e futura. E' lui il protagonista di questa storia tragica, paradigmatica, per molti aspetti indicibile. Giuseppe Genna ci parla di lui basandosi su una documentazione rigorosa: nessuna concessione a gossip e a divagazioni non comprovate. Nessuna orgia, nessuna perversione sessuale, nessuna trama esoterica. Non ce n'è bisogno. E' tutto già abbastanza agghiacciante così. Ne viene fuori un ritratto imponente, enigmatico: perché? Perché tutta quella gente l'ha seguito al fondo dell'inferno? Hitler non ha inventato niente. Ha colto un disagio che era nell'aria, lo ha servito con il giusto cerimoniale, lo ha codificato in un alfabeto dell'odio tanto perverso quanto efficace. Ha fatto presa, ha acquisito credibilità. Ha avuto colpi di fortuna, ma vanta all'attivo anche degli inquietanti e diabolici colpi di genio. Sì, lo so, ho detto di genio: genio del male, ma è proprio così. Intuizioni politiche, oratorie, anche militari: come l'organizzazione del riarmo tedesco, l'invasione di Francia e Belgio, con campagne rapide e spietate. La creazione di una propaganda popolare di grande impatto. L'istituzione di una élite militare feroce e ciecamente ubbidiente. Si è sconfitto da solo, pagando dazio a una megalomania delirante e folle, ma trascinando con sé un intero popolo, milioni di militari, di civili. E 6 milioni di ebrei. 6 milioni. Un'enormità incalcolabile. Più oppositori politici, omosessuali, etnie nomadi. Una colpa storica e umana senza precedenti. Hitler di Giuseppe Genna è una lettura sconvolgente, che vale la pena di sostenere. A cui però muovo un'obiezione. L'autore sostiene ogni due pagine che abbiamo a che fare con una nullità d'uomo, con l'azzeramento del carattere umano, e quindi con uno stupido. No, non è così. Con un folle, con un perverso, ma non con uno stupido. Troppo comodo liquidare la barbarie nazista come il deliro di potenza di un singolo pazzo. Abbiamo avuto a che fare con un'intelligenza spietatamente lucida, coadiuvata da un numero impressionante di persone, di collaboratori, di sostenitori. Che non erano mostri. Erano padri e madri di famiglia, lavoratori, giovani, meno giovani: persone normali, normalmente inserite nella società del loro tempo. Hitler era un mostro, loro no. Hitler li ha dominati perché queste persone si sono fatte dominare. Potevano internarlo ai tempi della Mannerheim: lo hanno eletto a loro guida militare, politica e spirituale. Perché? Il romanzo, pur nella sua esaustiva completezza, non affronta l'argomento, che forse è il nodo decisivo, la chiave interpretativa ultima per provare a capire (se mai sia concesso di farlo) la distorsione somma del fenomeno nazionalsocialista. Forse la risposta è implicita, e si ritrova nelle pieghe mostruose di alcuni personaggi insospettabili: Roosevelt, che all'inizio la pensavano in modo diverso sul nazismo. Churchill che in seguito non spenderà una parola di pietà nei confronti dei 200.000 morti civili di Dresda. Roosevelt che non stringerà la mano di Jesse Owens alle Olimpiadi del 1936, perché fortemente segregazionista. Hitler quella mano la strinse invece. A tutti noi è stata raccontata una storia diversa. E non sono gli unici insospettabili su chi si addensano ombre: su tutti Henry Ford, finanziatore della prima ora e grande antisemita. Genna ha fatto un gran lavoro di scavo e di interpretazione: ha unito l'analiticità dello storico alla capacità interpretativa dello scrittore. Gli si può perdonare anche i numerosi tentativi di poetizzazione. Inopportuni, sgangherati, che nulla aggiungono alla narrazione e che servono solo ad infastidire.

ok il prezzo è giusto

Qualche tempo fa gridavo allo scandalo di fronte alla ventilata ipotesi che la Grecia, per rimettere in sesto le casse, potesse vendere qualcuna delle sue seimila isole. Ipotesi lanciata dagli amici tedeschi se ricordo bene. Apprendo dal blog di Beppe Grillo che la situazione sta evolvendo esattamente in questa direzione. In nome delle leggi del mercato una nazione, uno stato indipendente venderà la propria sovranità nazionale sul territorio, metterà all'asta un pezzo di sé, come un povero disgraziato che decida di vendersi gli organi alla borsa clandestina. Ma qui di clandestino non c'è niente. E' tutto perfettamente legale, e se non lo è basterà compitare qualche leggina che lo permetta, e il gioco sarà fatto. La spoliazione della dignità raggiungerà in breve vette mai immaginate prima. Un tempo occorrevano guerre e sangue per strappare porzioni di patria ad uno stato avverso: oggi possiamo dire di aver fatto passi in avanti rispetto a qualche decennio fa. Basta entrare nella centrifuga, nel tritacarne, nella turbina di questo capitalismo malato per ritrovarsi in mutande, senza più nemmeno la possibilità di ribellarsi ad una logica che da banditesca e predatoria è diventata legge. Legge. Non mi stupisce che anche l'Italia con tutta probabilità stia valutando opzioni simili. In mancanza di isole si ricorrerà al patrimonio culturale, come paventa il sito. Ne sono convinto anche io: non ci vuole un genio per capirlo. La strada della privatizzazione indiscriminata è aperta, spalancata, e niente potrà fermarla. Un sussulto di dignità forse. Ma in un paese con questa classe dirigente la dignità è un lusso che non possiamo permetterci: verrebbe fatta passare come sentimentalismo, come retaggio anacronistico.

stalle

Va bene, un ultimo post sul calcio e poi vedrò di lasciar perdere. A commentare il disastro sportivo e politico sportivo ci pensano già in tanti e non vale la pena di insistere. Una riflessione, però: vista l'importanza che il movimento calcistico riveste in seno alla nazione, com'è possibile esprimere tanta miseria a livello di campionato del mondo? Parlano tutti di calcio, ci sono tre quotidiani sportivi dedicati per il novanta percento a questo sport; la pratica pallonara coinvolge tutti, grandi e piccini, ricchi e poveri, belli e brutti. Ci sono decine e decine di trasmissioni calcistiche, con opinionisti, ex calciatori bolliti, arbitri trombati e veline. Prolificano le scuole calcio, quasi tutti i bambini d'Italia prendono a calci un pallone. Girano soldi, tantissimi. Ma il movimento fa acqua da tutte le parti. Se si eccettua la bella e fortunata vittoria di quattro anni fa, sono decenni che l'Italia colleziona magre figure, figuracce, alternate a tremende botte di deretano. Per il resto, una storia di differenza reti, di classifiche avulse, di pali, di traverse, di scandali. Non c'è organizzazione, ma un solo e unico credo: lo stellone. La magica cometa che ci protegge e che tutti invochiamo quando siamo ad un passo dal baratro. Non c'è scuola: non c'è continuità, non c'è progettualità. Il calcio, come non mai, è paradigma perfetto dell'Italia. Sempre alla ricerca del terno al lotto, del miracolo, del colpo risolutivo. Un paese capace di prodursi in imprevedibili impennate ma più spesso avvezzo a capitolare rovinosamente, senza attenuanti. Presuntuoso da una parte, abulico dall'altra. Ci siamo votati al Dio Pallone (o a Eupalla come diceva Gianni Brera) ma anche qui a modo nostro: in modo incasinato, inconcludente, maneggione. C'è un bacino di talenti in erba spropositato, ma nessuno in grado di far crescere un campione. E allora, smettiamola di prenderci in giro. Basta santini, stelloni, cabale, aglio. Basta con quella parte di noi stessi che ci fa ridere dietro da mezzo mondo.

calci

Sperando che nell'euforia Mondiale il governo non appronti qualche colpo gobbo approfittando della distrazione generale, cosa peraltro già accaduta in passato, una semplice osservazione: vedere le grandi in difficoltà dà un sottile piacere. E non perché tifi Padania o altre pisquanate simili. La nazionale di calcio è una delle poche compagini che, nel recente passato, abbia dato un qualche lustro alla nazione, beninteso. Al netto di ciò, torno al punto di partenza, ossia: l'oggettivo impaccio che le piccole nazionali stanno dando ai nobili blasoni europei. Francia, Germania, Inghilterra e altre patiscono più una certa supponenza che la carenza dello stato psicofisico. O forse, relativizzando, si può dire che la mancanza di equilibri e di risultati sia stata determinata dalla sistematica sottovalutazione degli avversari. Tutte ipotesi senza controprova, e va bene. Ma mettiamola così: nel mondo globalizzato, in cui tutti sono dappertutto e in cui le informazioni sono disponibili in tempo reale in ogni cantone non era logico prevedere un adeguamento tecnico tattico anche delle nazionali così dette minori? Parlavo di sottile piacere poc'anzi, e il motivo è presto detto: vedere i patinati e strapagati professionisti del pallone annaspare di fronte a gente che in qualche caso è addirittura costretta a chiedere le ferie per partecipare al Mondiale è oggettivamente bello. Non è bel calcio, ma è bel carattere. Manca lo spettacolo, ma si vedono motivazioni che per noi, ormai, sono del tutto perdute: si vede gente che sa di avere per le mani l'occasione della vita e che vuole viverla al meglio, fino all'ultimo respiro; sono giocatori, quelli delle così dette minori, che sanno di dover difendere il prestigio nazionale, che hanno addirittura, udite udite, delle motivazioni quasi patriottiche nel voler contendere il pallone agli avversari. Perché si sa, e lo sappiamo anche noi, il pallone non è mai solo un pallone, ma una metafora. Qualcuno direbbe, un po' troppo solennemente, della vita. Non arrivo a tanto, ma è vero che in quella sfera c'è dentro un sunto niente male delle nostre passioni: coraggio, vigliaccheria, generosità, avidità, onestà, furberia. E in queste cose il blasone serve, ma serve anche la fame, come in ogni favola che si rispetti.

skulls and bones

Non è una notizia importante e nemmeno tanto curiosa. In Germania non ho capito bene chi ha proposto un calendario di pin up passate ai raggi X. Niente glutei, niente tette. Uno scheletro in posa ridicolmente ammiccante, a gambe incrociate, spalancate, a busto proteso, a schiena inarcata. Con le zeppe ai piedi oltretutto. Nessuna personalità, nessun colore, nessuna espressione vera o finta. Solo un'aura appena percepibile che contorna le ossa, da cui si intuiscono i tenui profili della carne. E' un'operazione commerciale un po' macabra, volutamente shoccante. La bellezza da velina sostituita dalla sua spoliazione, o forse sarebbe meglio dire dalla sua consunzione: il mito d'oggi, quello della bellezza patinata, prosciugato da ogni apparenza e restituito alla sua vera natura. Un mare di nulla. Non credo che dietro questa trovata ci sia chissà quale riflessione sul tempo che passa, sul memento mori o sul memento te pulverem esse. Ma alla fine tutto va a parare in quella direzione. E poco importa se per arrivare alla conclusione che lo sfruttamento della bellezza non è altro che un mercato del niente dobbiamo passare attraverso le sfumature del macabro e del grottesco: sempre lì si arriva. Al San Gerolamo di Caravaggio, che scrive con il teschio sul tavolo, piuttosto che ai dubbi del povero Amleto. Attraverso quei corpi vediamo noi stessi, la nostra superficie continuamente violata dalla pubblicità, che impone un modello univoco che alla fine sottende sempre quelle ossa, quelle cartilagini, quell'ammasso liquido che ci condanna ad una permanenza limitata, imperfetta e tuttavia da accettare. Con o senza lifting.

un altro nord

Se proviamo a pensarci bene, niente come il fenomeno leghista odora più di Italia. Difficilmente da altre parti avrebbe potuto sorgere un movimento così contraddittorio, così bravo a barcamenarsi tra mille, evidenti controsensi, non ultimo quello di odiare Roma salvo poi giurare fedeltà alla patria (intera) in quanto ministri e parlamentari. Un colpo al cerchio, il doppiopetto istituzionale, e uno alla botte, gli scalmanati xenofobi che allignano nelle frange più estreme del movimento. Un Fratelli d'Italia a denti stretti e una sparata sui fucili nel granaio, tutto così, alla rinfusa. E poi diciamolo pure: si può veramente decidere di avere fede in un progetto che non trova niente di meglio da fare che rifugiarsi nei dialetti e nelle piccole patrie? Che come massima ambizione ha quella di alzare una mura e chi s'è visto s'è visto? Le piccole patrie non nascono mai sane. Puzzano sempre di razzismo, di chiusura preventiva, di leggi speciali, di divisioni, di razza eletta e razza inferiore. Insomma, sono un concentrato di anacronismo, e sono oltretutto la negazione di quel principio su cui l'humus culturale del nord è veramente fondato: la fusione di diverse matrici. Quella celtica e quella latina, in primis. Ma anche quella francese del Piemonte e della Valle d'Aosta, quella slava del Friuli, quella ladina e germanofona del Trentino Alto Adige. La stessa Padania, che non esiste, è innervata di queste correnti diverse, che per mille cause storiche, politiche sociali o anche solo casuali si sono trovate a dover dividere la stessa porzione di territorio. Sarebbe bello sentire ogni tanto qualcuno che ricorda l'esistenza anche di un nord di questo tipo: un nord che è abbastanza sicuro di sé da non avere paura del resto del mondo, né tantomeno di quell'Unità alla cui formazione ha largamente partecipato.

inni

La polemica sull'inno nazionale, diciamolo pure, è la solita solfa leghista. Il Va' pensiero, come del resto ha spiegato benissimo il maestro Riccardo Muti, è un inno perdente, che fa parte del Nabucco di Verdi, ed è un pianto collettivo del popolo ebraico in esilio. Punto. Rivendicazioni di altro genere da parte dell'inesistente popolo verde, sono solo folklore, paragonabile a delle celebrazioni organizzate dagli abitanti di Atlantide. La questione assume tuttavia rilevanza istituzionale quando è un presidente di Regione a inventarsi la sostituzione dell'inno nazionale: qui siamo in un territorio che non è più solo delle stranezze e delle invenzioni più o meno innocue con cui ognuno cerca di rendersi la vita più sopportabile. Siamo in preda ad un delirio di onnipotenza. Un delirio tanto più scomposto quanto più irresponsabile, vissuto così, alla leggera, senza un vero calcolo delle conseguenze. Quanto poi alle rivendicazioni sull'uso dei dialetti, va da sé che ognuno è libero di fare quello che vuole, a patto di non imporre a mezzo mediatico e politico il proprio vernacolo su quello degli altri, e a patto di non scansare con un colpo d'anca quella che è la lingua del nostro paese: prima per letteratura, storia, diffusione all'estero; una lingua che andrebbe difesa proprio perché patrimonio di tutti, collante unitario al di fuori di qualunque retorica. E poi, quante storie: Dante era fiorentino, e quindi secondo la stramba geografia leghista Padano, Mameli e Novaro, autori dell'Inno, genovesi. Potremmo dire che si tratta di una polemica tra contradaioli, se non fosse che, ripetiamo ancora una volta, la Padania non esiste. E con una certa stizza potremmo aggiungere che Mameli, un ventenne d'altri tempi, fu in grado di morire per qualcosa, al contrario di tanti bolsi papaveri di oggi, nemmeno capaci di incassare con dignità lo stipendio di Roma.