La retorica della task force


Non credo che l'Italia verrà salvata dalle task force o da qualunque altro organismo denominato in inglese aziendale. Non credo nemmeno che l'Italia verrà salvata dalle banalità elencate dall'ultimo in ordine di tempo di tali organismi, questa specie di congrega di saggi (l'ennesima) capitanata dai soliti bocconiani. Integrazione, inclusione, cultura, imprenditoria, sono le solite parole vuote che vengono agitate come scongiuri pagani tutte le volte che il mostruoso sinolo di politica e finanza alla guida reale del Paese cerca di soffiare un po' di fumo negli occhi all'estenuata cittadinanza italiana. I problemi italiani sono sotto gli occhi di tutti: istituzioni obsolete, catena di comando inadeguata e frammentata, corruzione dilagante, sprechi su sprechi che mantengono un apparato di potere parassitario e inefficiente. I punti chiave di questo disfacimento sistemico sono tutti contenuti nell'antica – e sempre orrendamente inglesizzata – spending review di qualche anno fa: un'enciclopedia di enti inutili da tagliare, di pleonasmi, di retoriche amministrative che servono solo ad alimentare se stesse e clientele di potere varie. Non è più tempo di progetti e di laboratori, ma di azioni semplici e mirate, come ridurre la pressione fiscale, decapitare le rendite di potere dei vari parlamentini sparsi per la penisola e investire nelle uniche cose che sono necessarie e che sono sempre state massacrate in decenni di mala amministrazione: sanità, istruzione, opere pubbliche. Non serve nessuna task force, ma solo una classe politica che sappia lavorare e abbia chiare le priorità. I problemi che ammazzano lo sviluppo italiano sono gli stessi da sempre e nessuno ha fatto niente per risolverli, perché sono parte integrante del sistema di potere italiano, e tutti gli italiani sanno quali sono, dalla questione meridionale, a quella settentrionale. Questioni che per decenni abbiamo preteso di risolvere istituendo compiaciute cattedre universitarie anziché lavorare su un processi di identità nazionale, con il risultato, fatto emergere da questa ennesima crisi, di trovarci in un paese spaccato su tutto, dove ci odiamo a vicenda. La retorica degli hashtag, dell'andrà tutto bene e delle stanche supercazzole delle istituzioni non bastano più a camuffare un tessuto sociale disgregato, debole, mai del tutto coeso, reso ancora più fragile da decenni di precarietà economica. Decenni in cui il mantra delle “riforme” è stato solo l'ipocrita eufemismo per dire tagli ai servizi essenziali in modo da continuare a finanziare lo spreco sistemico. E così ci ritroviamo non solo con un paese geograficamente e culturalmente diviso su tutto, ma anche con una delle tassazioni più alte d'Europa al netto di uno dei servizi pubblici peggiori. Un paese in cui la Regione più ricca d'Europa – dati alla mano, piaccia o no, la Lombardia – dispone di un numero irrisorio di terapie intensive e ha smantellato il sistema sanitario territoriale in nome di una strana ideologia del risparmio (chiamiamolo così), che include la fallimentare compartecipazione di pubblico e privato, non si capisce bene per quale ragione (se non, appunto, per ragioni ideologiche). E i soldi dove sono andati a finire? Dove sono i soldi? Perché i soldi in questo paese ricco e produttivo spariscono? Non servono task force, non servono progetti, non servono laboratori, non servono forse più nemmeno partiti e partitini: serve capire dove vada a finire questa enorme massa di denaro. Se non lo capiremo, il debito pubblico continuerà a salire, i servizi saranno sempre peggio, e nonostante l'Italia sia il 20% del PIL dell'Eurozona saremo sempre dipendenti dalle arroganze di paesi piccoli e improduttivi, fondati su prodotti finanziari di dubbia moralità, assolutamente inutili in termini di progresso ma molto remunerativi in termini di interessi bancari. 
Una volta recuperati i nostri soldi, faremo quello che ci pare. Discetteremo di cultura e bellezza, ci vanteremo del nostro patrimonio artistico, affolleremo di nuovo le piazze con le nostre fiaccolate, canteremo sui balconi, ci premieremo a vicenda per dirci quanto siamo bravi. Potremo anche inorgoglirci per le nostre eccellenze, come ci piace tanto chiamarle. Ma fino a quando non faremo riemergere i soldi del nostro lavoro e non cominceremo a usarli in modo sensato, tutti questi discorsi saranno invariabilmente inutili. Il tentativo di risolvere i problemi attraverso narrazioni non può funzionare per sempre. 

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