Cultura da podcast


Lo stanco rito della maturità quest'anno si ripropone rivitalizzato dalla salsa Covid, altra narrazione gentilmente cucinata dai media con l'avallo solenne delle sacre Istituzioni. Retorica vuota di parole, notti prima degli esami, video diari, consigli del linguista, consigli del fisico, consigli dell'immancabile psicologo da rubrica del cuore. Nella società degli hashtag, dei flashmob, delle fiaccolate, anche la maturità reclama il suo posto nel Pantheon dell'Ovvio come categoria antropologica dei nostri tempi. Non più quella sessantottina, non più quella settantasettina, nemmeno più quella degli anni 90 e Duemila. In quest'epoca senza nome (come si chiama questo decennio? E quello scorso?), i simulacri di Istituzione che ancora si agitano nella caverna di Er, lanciano twit e iniziative, rielaborano formule di valutazione negli alambicchi del politichese e fanno presenzialismo sui media, annunciando rinascite e rilanci. In realtà, le solite soluzioni a costo zero (valutare in decimi, sessantesimi, centesimi in fondo è gratis), con l'aggiunta del termoscanner e del plexiglas (con una esse sembra sia il modo giusto di scriverlo con buona pace del Ministro o Ministra, non ho ancora capito come si dice). Qualche slide, un po' di paternalismo sul futuro che incombe e sulla società del domani e via andare. Poco importa se da questo sistema scolastico usciranno tanti cittadini incapaci di senso critico, che conoscono poco e male l'italiano, che non hanno la minima idea di che cosa sia parlare una seconda o una terza lingua. Tutto rientra nello specchio dell'Italia di oggi. Confusa, vacua, in crisi perenne. Dominata da innominabili lotte di potere interne, da media idioti, da un senso della cultura ridotto a prêt à porter delle terrazze romane e milanesi. Senza questa retorica tenuta in piedi dai media, il fantasma della maturità non esisterebbe nemmeno più, al pari di tanti altri fantasmi letteralmente inventati dalla stampa. 
La condivisione del sapere forse non avviene neanche più a scuola. Di sicuro non avviene entro i meccanismi novecenteschi tramite cui il sistema scolastico italiano ancora si articola. La struttura è fatiscente, come tutte le istituzioni italiane, per quanto mesmerizzate da chiacchiere e nuove terminologie, perlopiù adattate in modo ridicolo dall'inglese che la maggior parte degli italiani, inclusi quelli al potere e di presunta cultura, non sa parlare. Serviranno interventi molto più seri di revisione dei saperi in questo Paese, che certamente non hanno niente a che vedere con l'uso scanzonato della didattica online o con i consigli della nonna di qualche guru dell'informazione. La trama che ci aspetta è in realtà molto più complicata e riguarda la necessità di tramandare l'immenso sapere che l'Italia rappresenta come corpo vivente (a prescindere dai meriti inesistenti degli attuali attori sociali) in accordo con le possibilità di veicolazione contemporanea, cioè la rete, sicuramente, ma anche la capacità di organizzare i contenuti culturali in modo virtuoso e selezionare la classe degli insegnanti in modo radicale, sia in termini di conoscenza che di capacità comunicativa della conoscenza. In concreto: far sopravvivere il patrimonio scientifico/culturale italiano in modo attivo, non museale, ma allo stesso tempo rigoroso, lontano dalla specie di ciarla da salotto dove discutibili maestri discettano in podcast sul senso della vita. E per fare questo serve la capacità di usare le tecnologie senza diventarne schiavi. Tra le tante possibili definizioni di cultura, la società dei media attuale ha scelto quella dei divini maestri che esprimono la loro opinione, che per l'appunto è al massimo la loro opinione. Mentre servono le basi, serve anche la capacità di dare un senso alla noia della grammatica e di inscriverla in uno scenario di senso: perché serve, perché pensare serve, perché non possiamo pensare di gestire il Paese e l'Europa a colpi di twit e di slide. E in questa confusione, la miseria dell'esame di maturità. Un esame che di fatto non certifica più niente, ma che viene fatto risorgere dai media tanto per parlare di qualcosa e soprattutto far parlare i politici di turno, con le loro frasi fatte e i convenevoli imbarazzanti. 

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