la democrazia del fatto compiuto


C'è un mistero, che in questi giorni non sono ancora riuscito a chiarire: perché si debba dimettere un segretario di partito votato da tre milioni di cittadini alle primarie e il suo vice votato da nessuno debba diventare Presidente del Consiglio. Vice che tra l'altro si era dimesso in seguito alla debacle quirinalesca di pochi giorni fa, e nella quale un qualche grado di responsabilità, in quanto vice, ce l'avrà pure avuto. Questo è il primo mistero. Il secondo è come sia possibile che il voto di un elettore del Pd sia servito per nominare dei ministri della parte politica antitetica alla sua. Se poi vogliamo chiamare questo pateracchio democrazia, facciamo pure. Se poi siamo disposti ad unirci al giubilo compatto di tanta stampa per l'avvenuto inciucio, fiat voluntas vestra, a patto che nessuno si illuda di aver votato per una qualche ragione. Io per primo, pur avendo sempre sostenuto la necessità del voto come l'ultima arma a disposizione per dire qualcosa in un paese dove solo i furbi, i raccomandati e gli urlatori hanno una qualche possibilità di essere ascoltati. Certo diventa un po' complicato avere fiducia in una democrazia del fatto compiuto, dove i governi, le politiche, i presidenti se li fanno e se li disfano con misteriose riunioni notturne, dove tre o quattro decidono in base a criteri che giuro mi sfuggono e chi s'è visto s'è visto. Molto alla Grillo pensare tutto questo, lo so. O forse no. Nel senso che tanti, come me, non giocano allo sfascio sperando  nel disastro che garantirebbe il cinquanta percento dei voti. E nemmeno sognano parlamenti eterodiretti o deputati sotto il diktat delle segreterie e giudicano le profezie di Casaleggio delle fesserie, o peggio ancora delle televendite (o internet vendite) che sostituiscono il principio di realtà con il suo avatar dove tutto è possibile basta ignorare l'esistente. Solo appartengo alla schiera di quelli che chiederebbero una mediazione, non tanto politica se proprio non si può, quanto intellettuale: un parlamento dove il voto corrispondesse grossomodo alle idee degli elettori che lo esprimono, e non un miscuglio di vero vecchio e finto nuovo dove alla fine i governi si fanno a tavolino, e le necessità da tutelare non sono quelle dei cittadini ma quelle di Berlusconi. Un parlamento che soprattutto fosse il corrispettivo politico della società onesta, e non, guarda caso, l'equivalente generale di banche e consorzi di miliardari, che vai a capire com'è sbucano sempre non appena si gratta via la patina illusoria della gioventù e del nuovo. Due categorie rifugio che sono state usate dal Potere - abilmente, va detto - per garantirsi la continuità in perfetta similitudine con il disastroso passato e al tempo stesso per assicurarsi l'appoggio mediatico di un'informazione che salvo qualche caso non chiede altro che conformarsi alla legge del più forte. 

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