finale di partito

E' una storia italiana questa a cui stiamo assistendo. Una storia di fantasmi e di traditori, di padroni e di ipocriti. La storia di un partito, il Partito Democratico, che ha decretato mestamente la fine della sinistra rappresentativa, ingoiata da un vuoto di valori e di prospettive che lascia sgomenti, sia per le proporzioni abnormi, sia per l'arroganza con cui questo vuoto è stato in qualche modo rivendicato dalle dichiarazioni tronfie e sconcertanti del dopo voto. “Abbiamo salvato la patria” mi è toccato sentire, dopo la tre giorni più umiliante che la sinistra italiana abbia mai vissuto nella sua lunga e non sempre facile storia.


Come dire: i quadri dirigenti del partito danno l'idea di non aver capito niente di quanto accaduto. Delle conseguenze che il loro operato – lontano, in molti casi apertamente contrario alla volontà della base – avrà sulla vita politica e istituzionale di questo paese.
Il risultato claudicante delle elezioni dopo una campagna elettorale troppo statica, il rimpiattino durato due mesi, la decisione incomprensibile e per certi aspetti pazza di riesumare Franco Marini come prima scelta per il Quirinale, il lancio, a frittata fatta, di un Prodi subito impallinato da quella stessa assemblea che poche ore prima lo aveva acclamato, sono solo i sintomi di una malattia che sta più a monte, più in là nel tempo, nei ridotti di una disputa interna e spesso personale che ha lasciato fuori dalla porta il contatto con il paese reale.
La sinistra italiana ha scelto la sua fine. L'ha scelta nel momento in cui ha pensato di potersi accreditare come forza maggioritaria senza tenere conto della gente che la votava. Ha cominciato a perdere quando ha rinunciato ai punti di forza che storicamente sono della sinistra: tutela dello stato sociale, diritti, lavoro, solidarietà, legalità. E ha continuato a perdere, fino a questo schianto finale, dicendo no alla candidatura di Stefano Rodotà, la ciambella di salvataggio lanciata da M5S che avrebbe consentito di sbloccare la situazione politica in tre modi: eleggendo un Presidente della Repubblica, lasciando aperta la concreta possibilità di un governo insieme e mettendo all'angolo l'uomo che è la plastica antitesi di ogni istanza legalitaria e sociale, Silvio Berlusconi.
Il sospetto, che pesa come un macigno, è che la strategia scombiccherata e suicida di questo partito sia sempre stata quella dell'inciucio. Come se il passato non avesse insegnato niente, e come se la stragrande maggioranza degli italiani non considerasse il compromesso con Berluscònia il peggiore dei mali. La morte, civile, politica e persino intellettuale della gauche. Una sinistra che, da vent'anni a questa parte, non ha fatto che vergognarsi di se stessa, perpetuandosi nell'orgia del potere attraverso la sostanziale accettazione del berlusconismo non solo come referente politico, ma, a seconda, come spalla, contraltare, complice, sparring partner, nemico fittizio. E ora che i cocci sono per terra, ci si ritrova con dei quadri dirigenti che a caldo non sono nemmeno capaci di ammettere lo sbaraglio, provare un po' di imbarazzo per la svendita della loro storia e della loro cultura.


Va da sé che la rielezione di Giorgio Napolitano, sulla cui persona non c'è nulla da eccepire, è una sconfitta mascherata da pareggio, e il nostro Presidente, da uomo saggio e navigato, è il primo a saperlo. Il rinnovo del mandato presidenziale ad un uomo di 88 anni che non chiedeva altro che ritirarsi certifica la liquefazione dei partiti come esponenti della democrazia. Certifica l'impotenza, l'incapacità, la mancanza di coraggio dei partiti di prendersi la responsabilità (e scusatemi se uso questo termine tanto abusato) di una scelta decisiva. Hanno scelto di non scegliere.
I paesaggi che si offrono ora sono quantomai nebulosi, e perlopiù desolanti. Un governo del Presidente, si dice: un governo cioè sotto la diretta influenza del Capo dello Stato, al di là dei poteri che la Costituzione in questo momento sancisce in modo ufficiale. Del resto, è un anno e mezzo che Napolitano aveva allargato la propria sfera di competenze fino a dirigere in modo sempre più evidente le mosse del governo. Preludio ad una Repubblica presidenziale? Nessuno può dirlo. Stravolgere la Costituzione sull'onda dei dissesti emotivi di questi tempi potrebbe essere un rischio; primo perché le riforme non si fanno a furor di popolo, secondo perché stavolta siamo stati fortunati ad avere tanto potere concentrato nelle mani di una persona come Napolitano, ma casomai la gente impazzisse (ogni tanto è provato dalla storia che lo fa) e consegnasse le chiavi di casa in mano alla persona sbagliata? Il controbilanciamento dei poteri ha un significato, come abbiamo avuto modo di verificare durante la fatiscenza dell'esperienza berlusconiana, già dimenticata dalla memoria collettiva e dalle nostre proverbiali amnesie mediatiche (chissà perché eh?).
Non sono mai stato tenero con il M5S, ma stavolta va detto che una mossa in direzione della sinistra era stata fatta. E la sensazione, purtroppo, è che il Pd abbia preso in giro i suoi elettori, inscenando una trattativa fasulla con i 5 stelle mentre sull'altro tavolo negoziava con il Pdl la vera spartizione del potere, in spregio a militanti ed elettori.
E' chiaro che con questa classe dirigente, la sinistra italiana non andrà mai da nessuna parte. Lo diceva Nanni Moretti nel lontano 2002, e con una punta di sarcasmo, siamo costretti, oggi, a prendere atto che la nomenclatura responsabile di questo disastro è sempre la stessa. Inamovibile.
Ed è su questa base che si consuma la scissione tra il Pd parlamentare e la base elettorale: dopo la pagina nera delle elezioni presidenziali l'attuale gruppo dirigente del Partito Democratico ha di fatto stracciato il patto di fiducia con i sostenitori del partito, mettendo in discussione, da un punto di vista politico ma anche morale, la legittimità a gestire il potere in nome dei cittadini. Un nodo cruciale, che in quanto tale verrà presto derubricato a bagattella da supercazzola, l'unica, vera, grande strategia che i quadri dirigenti hanno sempre saputo sfoderare con maestria.


Ed è un crimine. Perché se non esistono più dei politici di sinistra, esiste un popolo di sinistra. Esiste il bisogno di un'etica pubblica che non sia solo la facciata ipocrita del papista che va a mignotte. Esiste la ricerca di una coesistenza civile con alcuni punti cardine, quali per esempio diritti, doveri, lavoro, legalità, vita, morte. Esiste una fetta di cittadinanza che avverte ancora il proprio paese come un bene, e non solo come una vacca da spolpare, dove “prima la mia famiglia, prima io e gli altri si fottano”. Beh, se la sinistra politica non si decide a dare una voce, un corpo e soprattutto un'azione a queste istanze, il paese fatalmente, inesorabilmente e forse anche giustamente andrà alla malora una volta per tutte.
Non resta che prendere atto di una cosa, molto semplice: le due anime del Pd – post comunista e democristiana – non hanno mai trovato una sintesi, se non nel brodino tiepido che non ha mai avuto il coraggio di fare azioni concrete contro il conflitto di interessi e contro lo smantellamento dello stato sociale.
Dopo gli ultimi giorni tutte le stranezze, le debolezze, le opacità del Pd hanno trovato una risposta. Quella che in molti sospettavano. Quella che fa male anche solo pensare.   

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