La malia tecnocrate non è passata sul campo della politica italiana senza conseguenze. La più vistosa, se posso permettermi, è quella di aver condizionato in modo pesante e univoco gli argomenti della campagna elettorale, che sì sono sotto molti punti di vista obbligati, ma che in questa tornata sono stati addirittura esclusivi. In pratica l'unico tema presente è l'economia. Non c'è altro che tenga banco. Ognuno con la sua ricetta, ed è curioso notare come diversi cuochi - B da Arcore in primis - siano tra i principali artefici del disastro politico finanziario che trascinò l'Italia a un passo dal fallimento. Ma è roba di tredici, quattordici mesi or sono: tradotto in italiota un'era geologica fa. Ed è così che ognuno può dire la sua: tracciare strategie, disegnare scenari. Le informazioni fornite in dibattiti e dichiarazioni sono spesso astruse, in qualche caso contraddittorie, ma fa niente, tanto è vero tutto come non è vero niente. Il punto è che è difficile stabilire un criterio: sono argomenti tecnici che solo in pochi padroneggiano, e che tante volte nemmeno i politici stessi hanno ben presenti. Figurarsi la media dei cittadini. Chi è europeista, chi è liberista, chi sbraita di tornare a battere moneta in proprio. Ma sì. Come per la nazionale di calcio, ognuno, nel tabernacolo del proprio tinello, è convinto di saperla lunga. Ma ogni certame ha il suo tema principe, e l'economia ha sempre e giustamente occupato un posto di rilievo, solo che mentre in altri luoghi e altre epoche il suo ruolo era ancora quello di strumento, ora è passata ad essere materia autoriferita e autosufficiente. Chi se ne frega dei diritti, della sicurezza, dell'integrazione, della salute, della cultura. Per paradosso, potremmo dire che persino il lavoro, inteso come mezzo di realizzazione di sé, non ha alcun peso nelle parole della classe politica, salvo rarissime eccezioni; ha senso il lavoro come fattore economico. E si sa che il fattore economico è del tutto disinteressato al fatto che chi lavora siano uomini e donne: se si parlasse di frigoriferi e bulloni sarebbe la stessa cosa. L'economia così come ci viene presentata in questi anni non ha niente più a che vedere con la "legge che regola la casa" (definizione etimologica): manca sia la legge che la casa che chi la abita.
telepsicovision
mercoledì 9 gennaio 2013
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Ariberto Terragni
Era chiaro che l'ubriacatura da internet avesse le ore contate, e che la televisione, con tutto il suo peso psicopolitico, si sarebbe imposta con pachidermica imponenza nelle trame dei flussi elettorali. Va bene le primarie, va bene il movimentismo via web, ma quando le cose si fanno sul serio, allora ci si fida della televisione e dei suoi santuari: talk, dibattiti, giornalisti talvolta compiacenti, ridda di affermazioni dette e contraddette, proclami, populismo. E i risultati omologanti e in questo senso rassicuranti della tv non sono una sorpresa, anzi: sono la paciosa conferma che tutto va come è sempre andato, al punto che non solo B. è più presente che mai (dire vivo sarebbe troppo) con tutto il suo armamentario da piazzista, ma perfino il compassato e ingrigito Professor Monti è stato costretto ad adeguarsi alla danza, berlusconizzandosi, assumendo cioè le pose del populismo facile sulle tasse (in tono minore però, vanno ridotte un pochino) e sobbarcandosi lo stakanovismo televisivo, da un salotto all'altro, senza tregua. E anche lui si sente in dovere di trattare, di dare qualcosa a tutti, promettere, consentire, illudere. E nell'offrire uno sfondo, la televisione resta imbattibile, perché sa essere invasiva e subdola come nessun altro mezzo di comunicazione: a pranzo, mentre la massaia spadella, a cena, mentre il ragioniere ingolla la pastina. E poi tutto il giorno, lo schermo ha sempre la sua televendita da fare, il suo spazio autogestito da vendere come libera informazione. E in un paese come il nostro, arretrato, il messaggio più efficace resta quello più superficiale, perché l'italiano medio che fino a una settimana fa urlava dalle piazze ladri ladri vergogna vergogna, ora è lì che compra, e vota. E così B. recupera - incredibilmente, in un paese civile - terreno, la Lega è ancora in pista e i vari gruppi di pressione si sono ammassati al centro, in farinosi partitini arraffa briciole. La memoria corta degli italiani fa il resto: ogni quarto d'ora c'è un reset generale, un grande blackout che è anche il ritorno alla verginità di amministratori, imprenditori, uomini di partito già ampiamente deflorati, ma sempre pronti a darsi come il nuovo, anche quando sono sempre le stesse passeggiatrici che hanno solo ritoccato la tariffa.
professor Sintassi
mercoledì 2 gennaio 2013
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Ariberto Terragni
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ai miei tempi si sprecava, figliolo
giovedì 27 dicembre 2012
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Ariberto Terragni
In uno dei tanti e tutti uguali telegiornali generalisti, colgo come d'incanto la frase: "Per effetto della crisi purtroppo anche gli sprechi diminuiscono." Ed è così che in un sonnolento pomeriggio natalizio finisce per materializzarsi, nell'ingenua forma di un servizio riempitivo, la prodigiosa inversione di senso: il vero peccato (religioso e laico) non è sprecare, ma non sprecare, privarsi della gioia di sbattere nel cesso il di più che non ci garba. Ecco il segno dei tempi. E la televisione, per istinto, per fiuto dello sciatto, annota meticolosa, con quella sua vocina querula. Ma come spesso accade, la voce degli stolti sa essere più puntuale di altre a verbalizzare senza pudore la realtà dei fatti: il rimpianto per lo spreco che fu fotografa le circostanze del presente senza tanti giri di parole, senza alcuna ipocrisia, e riesce a farlo proprio perché mette da parte ogni forma di ragionamento. E versando sugli avanzi del cappone questa frase becera, illumina il vero senso dell'economia su cui la nostra società si è fondata in tanti anni, un'economia fatta di sprechi e di eccedenze, dove la sovrapproduzione di beni trovava sfogo nel consumo a vanvera. Delle tante e spesso drammatiche letture che si possono fare di questi anni di crisi, la televisione ha scelto la più vicina al suo modo di essere: quella più banale e innocua, e forse per questo motivo anche la più feroce. Tanto en passant nell'intrufolarsi tra il panettone e il caffè, quanto vera come solo un calcio nello stomaco sa essere: e se per un attimo riusciamo ad andare oltre al contesto mediatico stupido e incolore, forse possiamo capire come una frase del genere in realtà abbia a che vedere con ciascuno di noi, con quel meraviglioso diritto acquisito di non aver bisogno.
cercasi destra
mercoledì 19 dicembre 2012
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Ariberto Terragni
Tra i tanti fallimenti della politica italiana ce n'è uno che ha richiesto un prezzo particolarmente alto: è la sconfitta culturale e morale della destra. Una catastrofe che prende le mosse dall'aver abdicato a qualsiasi forma di valutazione critica di sé e del mondo, alla ricerca della scorciatoia, del colpo elettorale, del populismo a oltranza. L'aver accettato il berlusconismo come parametro politico ed esistenziale ha ridotto la destra italiana a non esistere più a livello di idee, ma solo a livello di opportunità e consumo. La progettualità, l'impegno, l'onestà che la buona politica di ogni colore richiede sono stati dileggiati in questi ultimi vent'anni: lo smantellamento sistematico delle regole a cui la destra si è accodata ha portato al nulla di oggi, un nulla dove non esiste leadership, non esistono programmi, non esiste un retroterra culturale al quale attingere, proprio perché l'impostazione ideologica (non trovo altre parole per definirla) che ha caratterizzato l'area dei conservatori dal 1994 ad oggi ha fatto di tutto per negare l'importanza della cultura e dell'impegno sociale come dati fondanti dell'azione politica. Dov'erano gli intellettuali di destra? Dove sono? Ci sono ancora? Io non ho visto alzate di scudi e vesti stracciate quando i sondaggi davano il quaranta percento e l'illusione cialtrona del benessere facile faceva vincere le elezioni con maggioranze bulgare. Non ho visto ribellioni quando in parlamento si votavano le peggio leggi a colpi di maggioranza e tutti i giornali del padrone celebravano "il governo del fare" e altri slogan da Minculpop. Lo zero di oggi rappresenta il risultato di una serie di sottrazioni che nel tempo hanno spolpato il linguaggio e i contenuti di una parte politica intera, che per comodità, pavidità, accidia o che altro si è abbarbicata acriticamente sulle esigenze di un proprietario. Non è lecito lamentarsi ora, e non è lecito nemmeno stupirsi se la destra italiana è rappresentata in questo modo, un modo che non consente nemmeno di organizzare delle primarie decenti in proprio. Ulteriore fallimento.
di nuovo?
mercoledì 12 dicembre 2012
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Ariberto Terragni

il tecnico e il povero
mercoledì 5 dicembre 2012
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Ariberto Terragni
Se devo scegliere una caratteristica, tra le tante che un presidente del consiglio dovrebbe possedere, ne scelgo una che è di ordine politico e morale al tempo stesso: il saper dare dignità alla povertà. Povertà che non è miseria o peggio ancora accattonaggio, ma la dimensione dell'uomo che lotta per vivere in modo dignitoso, privato del superfluo ma desideroso di potersi mantenere al di fuori della carità di Stato. Perché ho paura sarà la povertà il grande tema dei prossimi anni, il tema non detto, inconfessabile, il fantasma che inquieta i sonni di tanta classe media che ora si vede corrodere diritti e privilegi, potere d'acquisto e gusto del di più. Gestire la povertà è una questione politica, e per una ragione molto semplice: la tecnica non prevede povertà, o al massimo la intende come una forma di inefficienza, una voce al passivo frutto di errori e incompetenza. Non ne può percepire il valore umano, la carica simbolica. Il governo Monti non è strutturalmente adeguato a prendersene cura, nonostante il sovradosaggio cattolico (o calvinista?) con cui ha irrobustito la sua legittimità e sdoganato gli aspetti più crudi e oltranzisti del suo operato: la presunzione di governare secondo criteri puramente oggettivi (in primis la necessità) diventa il paraocchi che impedisce di cogliere quanto di disarmante e inquietante serpeggi nella società che sta fuori dai dipartimenti universitari e dalle aule parlamentari. La rinuncia al welfare coincide in modo fin troppo programmatico con la decisione ideologica di annettere la solidarietà sociale alle fluttuazioni del mercato: se la scommessa di puntare tutto sul consolidamento del presente sistema economico andrà bene, bene, altrimenti ancora non si sa. L'ipotesi di ripensare l'economia in chiave di sostenibilità e giustizia sociale non appartiene agli orizzonti della tecnica, che in quanto pratica autoriferita non vede soluzioni al di fuori delle modalità che conosce. Ed è un peccato che potrebbe diventare un grave errore strategico.