make up art

Di tutti i filoni strampalati e i sottogeneri d'occasione, la novità più prepotente e al tempo stesso più tremenda che si approssima con la ripartenza delle attività editoriali è la manualistica da cosmesi. Trucchi e parrucchi alla ribalta. A farne l'elogio, volti pescati dal web, giovani guru dell'impiastro. Le parole, nella loro macchinazione più deviata e perversa, sono giunte in aiuto ancora una volta, con un'infornata di suoni privi di semantica da appiccicare al fenomeno: make up art, glamour, femminilità, cura di sé. Nell'intasamento generale del mercato editoriale, nella confusione ormai programmatica dei contenuti, il filone make up occupa uno spazio paradigmatico, eccezionalmente esemplare del momento che stiamo attraversando, con una vasta gamma di luoghi comuni da servire al pubblico dei lettori: il ritorno al vuoto pneumatico, la pericolosa e cialtronesca sovrapposizione femminilità/trucco, il sistematico ricorso alla cazzata (nell'accezione tecnica di non sense) come grande mezzo di depistaggio e dimenticanza. Ci sarebbero cose più gravi e ponderose da affrontare, ma questa incontrollata, piccola deriva di senso, mi è sembrata un segnale: è proprio così, e non c'è niente da fare, siamo condannati. Perché se case editrici di grosso lignaggio decidono di spendere soldi in questo campo significa che già prevedono degli utili, e gli utili sono rappresentati dai lettori. Che comprano, e presumibilmente approvano. E quindi ogni battaglia è persa: hanno vinto loro. Loro chi? Ma loro, no? I produttori di niente, il frivolo, il di più, l'inessenziale. Una delle grandi trovate pubblicitarie degli ultimi cinquant'anni è stata proprio questa: rendere necessario l'inutile, o, come si sarebbe detto qualche anno fa, creare il bisogno. Inutile che c'è sempre stato, ma che ora, soprattutto a partire dagli anni zero, si è mimetizzato a tal punto da essere invisibile, da essere in noi.

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