dichiarazioni di poetica

Le dichiarazioni di poetica sono una sorta di genere nel genere. Sarebbe curioso pubblicare una raccolta di prefazioni in cui gli autori descrivano le linee tematiche del proprio lavoro, le speranze, le illusioni, i passi avanti e quelli indietro. Non c'è niente di male nel dire i perché e i percome del proprio lavoro. Spesso i lettori stessi sono curiosi, vorrebbero sapere il perché di una data scelta, di un certo registro. In linea di massima sono una lettura piacevole oltretutto. Quali non possiamo ammettere? Verrebbe da dire quelle in cui l'autore sostiene di odiarle (ma già questa non è una dichiarazione poetica, o antipoetica o comunque in negativo?). Ma un altro a mio avviso è il caso più irritante: quello in cui lo scrittore esordisce con la fatidica frase: "Non amo parlare del mio lavoro, ma..." per poi lasciarsi andare ad un poema epico incentrato su se medesimo. Stile Claudio Magris, per intendersi. E' come dire che scriviamo troppo per poi continuare a scrivere. Sono tutte storie che non mi convincono. Chi sa scrivere deve continuare a scrivere finché ne ha voglia: dire ad uno scrittore che scrive troppo è come dire ad un cuoco che deve cucinare di meno, ad un avvocato che deve smettere di sostenere cause. E il bello è che sono gli scrittori stessi a dire, in età avanzata e a danno fatto: "Nella mia vita ho scritto troppo". Buona notte. Ma alcuni amano mortificarsi, come dire che scrivere è una vergogna. Scrivere in malafede è una vergogna, essere dei pennivendoli è una vergogna. Pensare al lucro e solo al lucro truffando le ragazzine è una vergogna. Lo scrivere in sé no. Meglio specificare anche l'ovvio, perché l'ovvio non lo controlla mai nessuno. Scrivere è una liberazione, è una fatica, è un lavoro, perché smettere, autocontrollarsi, autopunirsi? E' una mania probabilmente partita da quelli che scrivono poco perché non hanno niente da dire. Può capitare, per carità. Harper Lee ha scritto un solo romanzo. Ma che c'entrano gli altri? In fondo anche l'ambito di una storia è una proprietà privata, forse la più privata che si possa pensare, quella in cui provare ad essere liberi, senza che qualcuno venga a dire in che misura.

incontri ravvicinati

Augurare il male fisico al proprio avversario politico è una pratica incivile; auspicare aggressioni incivile e stupido; sperare che invece certi suoi comportamenti parecchio oscuri vengano chiariti dalla legge, senza altri escamotage, senza l'uso privato dei mezzi pubblici e senza l'intercessione dei troppi maggiordomi al suo servizio, è il minimo che possa essere consentito. E non è terrorismo, non è campagna d'odio, è semplice richiesta di confronto paritario. Tutto qui, senza molta enfasi. Del resto l'evocazione di bieche minacce, di infausti complotti e sotterranee manovre è qualcosa che sconfina dai territori della politica e perfino del buonsenso per giungere in piena fiction, in piena manipolazione delle masse attraverso una narrazione, che è tutto fuorché veritiera. E' una storia che abbiamo ripetuto un milione di volte: quella dell'abnorme conflitto d'interesse, della disgregazione culturale della nazione, dell'uso perlomeno disinvolto delle istituzioni pubbliche per finalità private. Dire di no, opporsi a questa banalizzazione (perché questo è fondamentalmente il berlusconismo), non è violenza né tanto meno odio: significa esprimere un'opinione, con buona pace della maggioranza. Sarebbe forse ora di ricordare anche chi è stato il primo a parlare in termini bellici di "scelta di campo", di buoni e di cattivi, di comunisti giustizialisti, di "andare a morire ammazzati" (ministro, proprio lei...), perché altrimenti si perde il senso delle parole, si lascia passare un messaggio che è semplicemente falso. Anche il povero Papa è stato oggetto di attenzioni particolari da parte di una ragazza non proprio in pieno possesso di sé: gli va dato atto di non aver enfatizzato l'accaduto e di aver tirato dritto, senza strumentalizzare, senza generalizzare, senza tentare di sfruttare politicamente un atto che è di per sé imprevedibile come il gesto di uno squilibrato. Nessuna voglia di passare per un martire, nessuna evocazione di improbabili complotti. Si può essere d'accordo o meno con il Papa, ma la signorilità del comportamento va riconosciuta. Ogni confronto è puramente casuale.

treni & co.

Il tracollo del sistema ferroviario italiano è la fotografia esatta e in un certo senso complessiva di molte contraddizioni. E' il fatale contrappeso gravitazionale che ci riporta a terra. Viviamo in un sistema che ama offuscare con quantità spropositate di fumo: il ponte sullo stretto, l'alta velocità, il nucleare spacciati come pasticche di Lsd, che promettono un viaggio dei sensi nell'immobilità del reale. Poi bastano ventotto centimetri di neve, e tutto va a ramengo. La colpa? Di nessuno. Sono quindici anni di berlusconismo che hanno portato a niente. Quindici anni alternati con la modesta forza del centrosinistra, va bene, ma sono ugualmente quindici anni di promesse, di bolle di sapone e fuochi artificiali. La gente del fare, che cosa ha fatto? A parte il tentativo di privatizzare l'Italia, di smontare lo stato sociale, di illuderci con qualche gioco di prestigio (leggi il ponte sullo stretto, il tardivo e folle ritorno al nucleare...) che cosa ha fatto? Siamo una nazione che si crede forte, ma che alla prova dei fatti non lo è. Ci siamo detti addosso troppe cose, ci siamo forse imbrogliati a vicenda, ma ad ogni modo abbiamo preso un granchio: abbiamo creduto alla pubblicità. E abbiamo comprato, abbiamo votato. Le cose vanno male? Colpa dei comunisti. Non sei d'accordo con me? Mandante morale, comunista, eversivo! Eppure bisogna ribadire il concetto a più non posso: non sono d'accordo, non sono d'accordo. Non sono d'accordo con la politica dell'immagine, del ritorno al grembiule, dei tagli alla cultura, della cartapesta con cui si coprono le magagne e si fanno rientrare in Italia i capitali evasi con un pizzicotto sulla guancia del 5%. Non sono d'accordo con la politica degli yes man, dei maggiordomi, dei ministri di scarso spessore. Ma soprattutto bisogna avere abbastanza igiene mentale da dire un secco no alla repubblica plebiscitaria e populistica. Quella che dice che stai volando, anche quando stiamo saltando su un tappeto elastico.

neve

Noi popolo del grande Nord, noi diretti discendenti dei Celti e di Odino, noi grande ricco popolo messo in ginocchio da ventotto centimetri di neve. Noi ricco nord, noi popolo ribelle, ubriaco di acqua del Po, in mutande per qualche ora di neve. In ginocchio, in mutande, nel senso che qui, quando nevica, non funziona più una mazza. I treni si fermano, le strade sono spesso abbandonate a loro stesse, i mezzi pubblici vanno in letargo. E allora sorrido di fronte alle baracconate di ispirazione barbarica, con copricapi corniformi, lance e carretti. Sogni nordici che non ci sono, una lingua, quella italiana, figlia del latino. Ma non basta: il dialetto stesso, sia bergamasco, milanese, lagheé, o quello che vi pare, è derivato dal latino; è l'evoluzione locale del latino parlato. Tutto qui. La percentuale di biondi? Inferiore a quella della Sicilia, con il suo forte ceppo Normanno (è più nordica la Sicilia della Lombardia, sta' un po' a vedere...). E allora? E allora, da lombardo quattro quarti da svariate generazioni, nato e cresciuto in questa terra, sono arrivato alla conclusione che il mito nordico del Nord Italia è una fesseria. Bonaria fino a un certo punto tra l'altro. Sicuramente discutibile. Perché è meraviglioso essere figli della cultura latina; è un onore parlare una lingua come quella italiana, ed è una grande sensazione quella di poter vantare il trenta percento del patrimonio culturale mondiale. Se qualcuno preferisce le lingue ugrofinniche (nobilissime, per carità), è pregato di fare sul serio, e di impararsele, perché il nostro caro dialetto non viene certo da ascendenti scandinavi. La neve l'ha capito, e si diverte e prenderci per i fondelli. Ciapa va'.

con gli occhi di Kafka

La scrittura di Pietro Citati è sempre un'esperienza culturale. In pochi sanno accarezzare le parole come lui, quasi nessuno è in grado di strappare al linguaggio note più dolci e ricche delle sue. Il saggio Kafka ha qualche cosa di paradigmatico e inconfessabile: qui il grande critico letterario incontra uno dei più grandi scrittori del novecento: le due personalità si confondono, si scambiano, diventano parti di un mosaico fluido, osmotico. Kafka visto con gli occhi di Citati è una lettura felice, disincantata, delicatissima: è il racconto appassionato della vita di un uomo speciale, sensibile, colto, capace di raggiungere profondità omeriche, ma anche costretto in una vita che non gli apparteneva, in un mondo che non sapeva affrontare. Il ritratto di Kafka che ne esce è un quadro composito, ricco di sfumature, con un denominatore comune, costante e inquietante: la presenza dei demoni che hanno funestato tutta la vita dello scrittore praghese. Demoni che lo hanno perseguitato, inseguito, scovato e infine distrutto. Un uomo complesso, nel vero senso della parola: in lui i pensieri correvano veloci, e si frapponevano, si mischiavano, davano luogo ora a idee ora a veri e propri incubi; Franz Kafka era un artista tormentato, schivo, solitario. Un uomo che riuscì a dormire il sonno migliore della sua vita quando ebbe la certezza della tisi, e quindi della probabile morte. Citati ci accompagna passo per passo nella ricostruzione storica e culturale della vita dell'autore, ci suggerisce i principali nodi tematici, ci spiega i meccanismi che sottendono alla creazione delle opere, e spesso si tratta di ingranaggi sottili, delicati, che potrebbero andare a pezzi al minimo contatto. La letteratura diventa un gioco delle parti, serio, come tutti i giochi che si rispettino: uno scambio continuo tra il reale e il narrativo, dove la sostanza dell'arte inevitabilmente si confonde con la coazione a ripetere della vita. Kafka sta in questa terra di mezzo, dolce e disperato, indifeso ma anche capace di macerazioni interiori senza precedenti, e di capolavori introspettivi altrettanto inediti. Ciò che ci rimane è un enigma, una narrazione che, se non fosse vera, avrebbe tutti gli ingredienti per appartenere essa stessa al dominio romanzesco. Definire Kafka un libro di critica letteraria mi pare riduttivo: si tratta piuttosto di un'avventura letteraria, di un percorso ora sognante ora febbrile, che alla fine ci fa sentire parte di quel mondo, come testimoni partecipi e attoniti. Potenza della scrittura.

per Antonio Porta, poeta

rinchiuso nell'armadio
l'aquilone
vola nella mia mente

28.2.1982

Ad una prima analisi la poesia di Antonio Porta suggerisce una potente metafora esistenziale: il vivere come brama vorace, ora esplicitata in forme esterne, ora intima e immanente, rivolta al sé in modo quasi cannibalesco. Antonio Porta ha saputo raccontare, in oltre trent'anni di lavoro poetico, una trama incentrata sulla coerenza: dalle prime prove de I rapporti, fino a l'Airone, ultima lirica dell'ultima raccolta. Il suo accento si fa potente e insinuante, si fa concreto laddove tratta di temi comunemente considerati impoetici: la forte presa sulla realtà e sul rapporto tra l'uomo e il reale lo conduce verso un territorio inesplorato, e, forse, inospitale. Sono versi intessuti di carnalità, ma anche di partecipazione alla carne, di vita vissuta, osservata, spesso incompresa, incomprensibile, amata e odiata: Porta è un poeta degli estremi opposti, un artista delle forme involute, degli abbozzi, ma anche delle ampie volute e dei voli lirici; è uno scrittore che ha saputo manipolare la poesia anche graficamente, rompendo, a livello di disposizione testuale, quello che, più per consuetudine che per altro, era stato assunto a canone. Ecco che i versi si intrecciano, salgono a colonne, si interrompono, fanno a meno della punteggiatura (ma non del ritmo, piccolo miracolo del poeta) e delle maiuscole, eppure le parole escono addirittura rinvigorite: sono lì, fragranti, intatte in tutta la loro sostanza. La sua tensione lirica, come Porta stesso ci dice, ha come fine una forma di ordine: nel caos esistenziale e in fondo privo di senso, il poeta si incarica di cercare delle linee di contorno, di riorganizzare la materia casuale in materia poetica. Da qui forse la precisione nelle date: date che accompagnano quasi ogni componimento, riferimenti temporali che non sono esornativi, ma che fanno parte in modo esclusivo e assoluto di ogni componimento; date che ci guidano, cercano di farci capire, di darci delle coordinate temporali e spaziali. Abbiamo modo allora di capire come certi lavori abbiano richiesto una lunga gestazione e come invece altri siano nati sulla scia emotiva di una particolare sensazione. Alla fine, "come può un poeta essere amato?" La domanda rimbalza, senza una risposta, lasciando un'inquietante ombra lunga che Porta aveva intuito e forse temuto. Qualcuno lo ha definito un poeta con l'ossessione della narrazione. Non mi sembra un'esagerazione. Ce ne fossero di ossessioni così belle.

immaginare Paul Verlaine

BEAMS

(tratto da Romances sans paroles - Aquarelles, traduzione dal francese
di Ariberto Terragni)

Lei volle andare sui flutti del mare,
e siccome un vento benevolo soffiava il sereno,
tutti noi ci prestammo alla sua bella follia,
ed eccoci in marcia per il cammino amaro.

Il sole riluceva alto in un cielo calmo e liscio,
e nei suoi capelli biondi c'erano dei raggi d'oro,
sicché noi seguivamo il suo passo più calmo ancora
dello sciabordio delle onde, oh delizia!

Uccelli bianchi volavano intorno blandamente
e in lontananza si inclinavano vele bianche.
Talvolta grandi alghe filavano in lunghi rami,
i nostri piedi scivolavano in un largo e puro movimento.

Lei si volse, dolcemente inquieta
di non saperci pienamente chetati,
ma vedendoci felici di essere i suoi prediletti,
riprese la sua strada, a testa alta.

Paul Verlaine è il mistero della poesia. Un uomo incoerente, sfilacciato, che si è perso e ritrovato decine di volte nel corso della sua vita, bevitore accanito, dalla vita disordinata. Un uomo non particolarmente attraente, di carattere difficile, un uomo che è stato un grande poeta. Viene spesso affiancato ad Arthur Rimbaud, l'angelo infernale, e in qualche modo il suo nome risulta sempre, nelle biografie meno attente, un passo dietro rispetto a quello del giovane amante. Eppure Verlaine è stato più grande di Rimbaud. Lo dico seguendo il gusto personale e amando comunque anche l'autore delle Illuminazioni. Verlaine ha avuto dalla sua il tocco della disperazione: quella rara e particolare facoltà poetica che asciuga fino alle ossa il verbo fino a renderlo simile ad un suono; il suo insegnamento è: essenza, immagine. Rimbaud è il cantore del dionisiaco, della bellezza, della giovinezza; Verlaine vive una dimensione interiore dilatata all'infinito, dove altrettanto infiniti sono il dolore, il disagio, l'offesa continua. E' stato un autore disorganizzato, che ha fatto di tutto per dissipare e sprecare il suo talento, non riuscendoci, come di solito accade ai grandi artisti. Verlaine il talento lo umiliava, lo calpestava, lo disprezzava, sapendo di poterlo ritrovare intatto e ancora più splendente un momento dopo. La lirica del poeta di Metz si presenta come non mai tersa, perfettamente bilanciata, un atollo di parole sul bianco del foglio. Mai una parola di troppo, mai una dissonanza. Non c'è ombra di ridondanza nei suoi scritti, che ugualmente sanguinano, ora di rabbia impotente, ora di dolce decadenza: è un poeta degli addii, da i Premiers vers passando per la tormentata e precaria conversione di Sagesse fino all'ultima, drammatica poesia, Mort!, commiato a pochi mesi dalla tragica e malinconica dipartita, preconizzata e quasi invocata nell'ultima strofa: "La mort que nous aimons, que nous êumes toujours...". Nonostante gli eccessi, le delusioni, e probabilmente anche le ingiustizie patite, il corpus della sia opera risulta come non mai coeso, focalizzato su alcuni nodi tematici che l'autore porterà sempre con sé: la sensualità frustrata, l'idea di morte, e in senso più ampio il concetto di fine. Fu un decadente duro e puro, nonché uno degli ultimi figli del simbolismo.

riletture

Riprendere in mano i Promessi sposi è una scelta dettata da una certa disposizione d'animo. L'inverno, il bisogno della riscoperta, la necessità pratica di rivedere alcune tematiche per riformulare un giudizio. Ma sono solo alcune delle motivazioni. Forse questa specie di rilettura programmata è dovuta anche al desiderio di rimediare agli sfracelli scolastici, con quella letteratura insegnata così male, così in fretta, sempre dal punto di vista sbagliato. Con quella tremenda voce adenoidale, poi, che leggeva così male, senza cognizione di causa. Ricordo molto poco, per fortuna; il cervello tende a cancellare gli eventi più insopportabili. Campeggia ogni tanto una donnetta smilza, truccata per il circo, con degli orrendi pendagli attaccati al lobo dell'orecchio, oscenamente teso da cotanto bigiottame. Amen. Ora, il ritorno ai Promessi sposi, a tutta quella serie di personaggi ormai entrati a far parte del linguaggio comune: Azzeccagarbugli, l'Innominato, Don Rodrigo, Donna Prassede. Una carrellata di caratteri, ora capziosamente indimenticabili, ora studiati a tavolino per risultare patetici. Un romanzo, appunto, il primo romanzo storico italiano. Un romanzo scritto e riscritto almeno tre volte, per via di modifiche soprattutto stilistiche e linguistiche, che alla fine risulta come una specie di pastiche dove dei popolani lombardi parlano un fiorentino mediamente colto, senza inflessioni dialettali tipiche del lago e del nord Lombardia. Un romanzo strano quindi, inusuale. Anche Manzoni era un personaggio strano. Figlio della Milano bene, cresciuto un po' qua e un po' là, di padre dubbio, di madre eccentrica, di vita dissoluta o irreprensibile a seconda delle biografie. Cattolico e illuminista, di brucianti passioni e di altrettanto infiammati conservatorismi: un colto signore autodidatta che parlava l'italiano solo come terza lingua, dopo il dialetto milanese e il francese. I luoghi manzoniani ci sono ancora. C'è il lago, ci sono le sue alture. La collina del Brusuglio, dove il don Lisander soggiornava in vacanza, è ancora là, assieme alla casa avita. C'è anche qualcosa che serpeggia e che non è chiaro nella vita di questo scrittore d'altri tempi; letterato osannato e odiato, sempre e comunque racchiuso in un'inquietante bolla di privilegio che non lo rende troppo simpatico e che però gli conferisce anche il fascino dell'enigma. Ha avuto la fortuna/sfortuna di diventare un monumento: istituzionalizzato come un altare della patria da cui nessuno lo toglierà più. Vittima dell'indecenza professorale e del dileggio degli studenti, imbalsamato in una prospettiva nozionistica e libresca che, ora ho capito, non gli ha reso giustizia. Leggiamo, vediamo perché Manzoni è Manzoni.

questione di sinestesia

E' una parola difficile e poco conosciuta che designa in realtà un espediente retorico usato e abusato: quello cioè di riferire una sensazione, per esempio uditiva, ad un'altra sensazione, appartenente ad un altro campo sensoriale. Per esempio: suono terso, o ancora gusto chiaro. Possiamo definire la sinestesia come un tipo di metafora. Ullman distingue la sinestesia dalla pseudosinestesia, spesso confusa con l'ipallage o lo zeugma mettiamola lì per senso di completezza. Ma non è questo il punto; il linguaggio della pubblicità ha abbondantemente attinto dal fenomeno linguistico allo scopo di venderci delle merci. Ora, questo procedimento è qualche cosa che la mente umana ha conosciuto da relativamente poco tempo. La figura retorica a scopo di lucro è un procedimento nuovo, spiazzante, che è andato a sostituire il sostrato emozionale e comunicativo con un whisky per il dopocena o una scatola di cracker "dal sapore esclusivo" (e questa del sapore esclusivo non è una sinestesia, ma una più abbordabile stronzata). Schiere di menti intente a escogitare furbate ed espedienti vari per vendere qualcosa. Con buona pace della metrica classica che, denigrata e umiliata dalla verve degli uomini del fare, deve accontentarsi di questi sbocchi insoliti e anche un po' sconci per vedere ancora la luce. La figura retorica nasce per infondere ai concetti un impatto maggiore, o ancora per far collimare la parola scritta con il suono di ciascuna parola; la figura retorica ha più senso infatti nella lettura ad alta voce. E questo perché nel mondo classico il testo scritto equivale ad una partitura musicale, che deve avere il suo equilibrio, le sue regole, le sue eccezioni, i suoi brani corali e i suoi assolo. Ecco perché anche l'esperienza della lettura non può dirsi banale; leggere bene è come saper cantare. Prendiamo lettori come Carmelo Bene, o Vittorio Gassman e confrontiamoli con quelli che ripetono a memoria la Commedia di Dante per far vedere quanto sono bravi. Vedremo che non è la stessa cosa.

l'ombra a stelle e strisce

Il mondo viene squassato da un terribile virus creato in laboratorio che sfugge al controllo delle autorità. In pochi giorni una terribile influenza mutante distrugge la razza umana. Si salvano in pochi, e questi pochi si focalizzano in due schieramenti: i buoni e i cattivi. Proprio così. Il primi guidati da una specie di dio miscuglio di vari cristianesimi in salsa yankee, i secondi da un tizio in jeans e stivali da buttero forse emissario di Satana. Questa in due parole la trama de L'ombra dello scorpione, di Stephen King. Prima parte descrittiva, avvincente, coinvolgente. C'è realismo, c'è presa diretta. La seconda è un minestrone che non finisce più: una torrenziale sequenza di parole. I personaggi sono caratterizzati così così. I buoni sono di rara antipatia: dei rocciosi Chuck Norris tutta buona volontà e senso pratico, puro american style, mai un ripensamento, mai un ragionamento complesso se si eccettuano le pedanti lezioni di un sociologo raccattato per strada. I cattivi sono decisamente più interessanti. Ma perdono, e si capisce subito che contro dei buoni così buoni non potranno mai farcela. Il finale è così pazzesco che non posso non raccontarlo, e mi perdonerà chi ha intenzione di leggere il romanzo: quattro di questi buoni ricevono ordine da una vecchia sdentata, che si autonomina profeta di un non meglio identificato dio, di andare nel territorio dei cattivi. Come mai? Boh, l'ha detto il mio dio. Oh my God, andiamo. Arrivano sul posto, vengono catturati dai cattivoni, ma poi un cattivone particolarmente pirla, giusto un momento prima che i buoni vengano giustiziati, pensa bene di far brillare un'atomica. Così, proprio così. Storia finita. Al di là della seconda parte (allucinante), e delle innumerevoli parti inutili, c'è un dato che allarma: al di fuori degli Stati Uniti non esiste niente. La partita si gioca tutta negli Usa. Tutti i buoni sono lì concentrati e anche tutti i cattivi. Dio ha deciso che la sfida finale si giocherà da zio Sam. Non a Gerusalemme, non nella piana di Giza, non al Partenone, ma a Las Vegas. C'è in questo tutta la follia dell'autoreferenzialità culturale americana, la quale non sospetta nemmeno che esista qualcosa di notevole al di fuori dei propri confini. Una follia inquietante e grottesca, assurda e insieme vaneggiante: un sogno di potenza cieco, al limite della farneticazione. Viene voglia di pensare: meglio che vincano i cattivi piuttosto di questi calvinisti middle class; meglio un po' di anarchia satanica di queste sterminate lande di villette a schiera e tacchini imbottiti.

dediche

Da una persona intelligente e coraggiosa come Roberto Saviano mi sarei aspettato una frase un po' più aggraziata. Ritirare un premio a Milano e dire che i veri milanesi sono i meridionali e non i milanesi da sempre mi pare una caduta di stile. Mi sarebbe piaciuto di più sentire: siamo tutti milanesi, siamo tutti italiani. I meridionali aiutano il nord e i settentrionali aiutano il sud, perché siamo una nazione. Quella dedica così smaccata, così tranciante, così inutilmente polemica mi è sembrata proprio una nota stonata in una giornata che invece avrebbe potuto essere occasione di confronto e di collaborazione. Non c'ero, magari è andata proprio così, ma viste quelle parole la sensazione è che ci sia stato un qualcosa di troppo. Non ho il culto degli antenati né dell'appartenenza geografica (figurarsi, è un terno al lotto), ma credo che i miei nonni e bisnonni non siano meno lombardi degli amici che sono immigrati dal sud. Forse qualche volta le parole andrebbero misurate, non fosse altro per quei milanesi che non ci sono più, e che la storia di questa terra l'hanno fatta, anche se la Storia non si ricorderà mai di loro. Creare a parole uno steccato (un altro) determina fatalmente un'altra divisione, due parti. Saviano gode di una tale popolarità che dovrebbe sapere ciò che ogni suo intervento significa, il rumore che comporta, la portata che assume. Non è uno scandalo ciò che ha detto, è solo una frase superficiale e un po' sciocca, che si può perdonare al bar, ma che è destinata ad avere tutt'altra eco quando a pronunciarla è uno scrittore in prima linea come lui.

presentazione Un uomo da abbattere

La differenza tra avere un romanzo in testa e avercelo tra le mani, scritto, rilegato, con il suo codice e il suo indice, significa molto per uno scrittore. Significa varcare una linea di accesso, superare un confine e trovarsi in un campo in cui tutto è uguale eppure difforme. Sarà perché io non scrivo per hobby, ma perché sono in qualche modo condannato a farlo. Le storie pretendono di essere scritte, e i libri, qualche volta, chiedono di vedere la luce in una pubblicazione. Non sempre, perché è vero che si scrive anche per se stessi, ma qualche volta capita di non potersi rassegnare al cassetto. Scriviamo in molti, in troppi probabilmente, e anche questo è un grosso problema. Credo sia una questione di pudore, che si può affrontare solo ponendo l'onestà intellettuale al primo posto: sono sicuro di quello che scrivo o si tratta di vanità e basta? Ovviamente è il giudizio del lettore che può dare una risposta. Ma anche qui: sono tanti i lavori scoperti i ritardo: penso a Morselli, o alla Ortese. Il pubblico non è sovrano e, piaccia o no, assecondare i gusti dei potenziali lettori è quanto di più laido e disonesto si possa fare. Opinioni personali ovviamente. Molti scrittori ragionano in modo opposto al mio: amano la melassa, la micidiale combinazione di "cuore amore anima sentimento amicizia". Io no. E nemmeno pretendo di parlare a nome di una generazione, anche perché io non so che cosa sia una generazione. Non so che cosa siano le mode, le tendenze, il fashion e il trendy. Scrivo di conseguenza. Non ambisco ai premi letterari. Devo molto alla letteratura, questo sì. E preferisco il classico al pop; il postmoderno al giovanilismo. Per ricevere delle copie mandatemi una mail, oppure telefonate allo 0362-231824

correre

La proposta è elettrizzante: portare (su certi tratti e a certe condizioni) il limite di velocità a 150 km/h. Chi non è d'accordo? In un sondaggio probabilmente la proposta raccoglierebbe un consenso plebiscitario. Come abolire le tasse, più o meno. Ma è una decisione sbagliata. Mi spiego: una delle clausole per poter accedere ad una velocità maggiore sarebbe quella di possedere un'auto adeguata. Più potente e più sicura. E chi ha meno soldi e quindi non se la può permettere? Resta indietro, col rischio oltretutto di venire travolto da un suv più bello e potente della sua spregevole utilitaria. Non è una semplificazione: stiamo costruendo una società malata in cui, un passo alla volta, i maggiori diritti corrispondono alle maggiori entrate economiche. E' un'Italia allegramente idiota, beotamente ottimista, che ama le vacanze, che ama non pensare, che apprezza i culi alla tv. E' l'Italia di Mediaset, che intervista i guidatori raggianti di fronte alla possibilità di correre un po' di più e impunemente. Chiediamo alle associazioni di vittime della strada se ritengono che sia una norma giusta; chiediamolo alle forze di polizia. Poco importa se è limitata e consentita a pochi: apre una breccia, e di fatto impone una nuova discriminazione tra chi ha e chi non ha. Chi ha di più ha anche il diritto di correre di più. E' l'Italia di Berlusconi, delle privatizzazioni, dell'acqua che diventa bene privato quasi senza che nessuno se ne sia accorto. Non voglio allargare il discorso eccessivamente, ma basta ampliare di poco lo sguardo per vedere che è tutto collegato: l'edonismo, la banalizzazione, la cementificazione, il disprezzo per il meno abbiente, per il diverso, sono tutti sintomi di un'unica malattia. Spegniamo questa fottuta televisione, facciamoci del bene.

pezzi di scambio

Ciò che colpisce nell'affaire Tanzi, al di là della vicenda giudiziaria in sé, è la curiosa funzione a cui sono state ridotte le numerose opere d'arte coinvolte. Il ricco imprenditore non le compra per gusto estetico o per costoso vezzo artistico, ma per sfruttarle come merce di scambio. Monet, Manet, Van Gogh, Ligabue, De Nittis e via dicendo stipati nel garage del genero come le croste ereditate insieme al salotto tarlato di una vecchia zia. Capolavori sottratti alla meraviglia dei nostri occhi per costituire una sorta di cassa d'emergenza del magnate. In effetti quando i soldi incontrano l'arte e quando, più in generale, il capitalismo di qualsiasi risma incontra l'arte, questo fa dell'arte stessa il solo uso che conosca: quello di investimento monetario. Il capitalismo non considera l'arte come un valore in sé e per sé, ma come un bene di scambio da soppesare, stimare e possibilmente vendere. Perché si sa, un bene per essere tale deve avere un valore di scambio. Comprare e scambiare tele, allora, diventa una mera operazione finanziaria, dove c'è anche qui un maledetto mercato che detta le sue regole e i suoi prezzi, favorendo scambi e transazioni, listini e rendiconti. Quanto ci vuole per capire che tutto questo è una sconfitta? E il bello è che il ricco magnate non sospetta nemmeno di macchiarsi di un crimine che va al di là di qualsiasi codice penale: è solo business, è un'operazione come un'altra. Si investe in oro, nel mattone, si investe in quadri d'autore. Messi in garage, insieme all'olio minerale e alle gomme da neve, fuori dalla portata di qualsiasi vista, l'oggetto d'arte non esiste più, sostituito dal suo prezzo. Non mischiate i vostri soldi schifosi con una delle poche cose che abbiano ancora un senso, per favore. Continuate ad occuparvi di palazzine e di discariche.

mater lacrimarum

Ultima annotazione sui condotti lacrimali del Magnifico. Quando uno dice una boiata e si accorge, più per la reazione altrui che per il proprio senso critico, di averla fatta fuori dal vaso, di solito ricorre alla formula salvavita: "Le pernacchie erano calcolate, la mia era una provocazione." Beh, personalmente non ne sentivo il bisogno, di questa provocazione, vivevo bene anche senza. In primis perché quelle poche righe non mi hanno lasciato nulla, secondo perché degli elogi di papà al suo divin figliolo non so che farmene. Si parla tanto, e giustamente, di privacy nei confronti del carattere privato della vita di ciascuno, ma è una norma che dovrebbe valere anche al contrario: bisognerebbe vietare per legge di inondare a mezzo stampa le vite di tutti noi con i fatti privati di un singolo (già ne abbiamo a sufficienza sul versante giudiziario...). Un padre vuole inviare una lettera al figlio? Bellissimo, che lo faccia, ma in privato. Non può una persona sentirsi in dovere di smuovere l'intero sistema mediatico della nazione per quattro smancerie (perché di questo si tratta) tra l'altro scritte malissimo, con una prosa indegna di un prontuario di pedagogia dell'ottocento. Quella lettera è stata l'ennesimo trionfo del luogo comune, del solito, lasso paternalismo italiota, quello dei padri incapaci di correggersi ma smaniosi di drizzare la schiena alla loro prole. Che perlomeno sia solo la loro di fligliolanza a doverli sopportare.

Altra piccola nota.

Siamo alle porte del No B - day. Il giorno della protesta non tanto contro una persona (mister B) ma contro un sistema di regole e di principi che proprio non ci piace: il berlusconismo. La copertura televisiva dell'evento è stata nulla. Mamma Rai non seguirà la manifestazione e con tutta probabilità non la degnerà di nota nemmeno in un trafiletto delle sue tante (e sempre meno interessanti) trasmissioni. Come mai? Manca un padrino politico? Forse. Il solo fatto che il No B - day sia stato il frutto di una iniziativa indipendente, nata sul web e senza il patrocinato di alcuna formazione politica fa arrabbiare. Ma soprattutto rappresenta la sostanza di un movimento che non si sa dove incasellare. A chi lo riconduciamo? Come lo interpretiamo? Non si sa, e allora la Rai si astiene, pur avendo tutte le capacità per potere sviscerare il problema e per poterlo presentare ai cittadini. Meglio il solito panino di dichiarazioni allora. E' il problema di sempre: la Rai avrebbe tutti i mezzi per essere migliore di Mediaset, ma non lo fa, non muove mai quel passo decisivo. Perché è in ritardo sui tempi in modo impressionante. Perché è lottizzata e fa della lottizzazione politica una regola di vita, un Moloch a cui nessuno, né a sinistra né a destra, vuole rinunciare.

lacrime dal rettorato

Piange il rettore. Invia una commovente lettera al buon figliolo: "Sei tanto bravo amore di papà, ma lascia questa terra ingrata, vattene via. Finisci gli studi presto e bene però." Io non so più come prenderli questi professori, questi rettori, questi magnifici. Ho tanta, tanta rabbia addosso. Mi verrebbe voglia di vomitargliela tutta in faccia a questi individui inflanellati, entità adenoidali che spargono il seme del sapere sui nostri poveri capi, che ci indicano la retta via e ci vezzeggiano con un sorriso di sufficienza tutte le volte che qualcuno li contesta. Questa lettera, così lessicalmente sciatta, così retorica, così intellettualmente involuta, suona come una brutta presa in giro. Segna innanzi tutto un discrimine: mio figlio può andare all'estero, i figli di tutti gli altri che hanno meno possibilità si arrangino, ma soprattutto segna l'ormai disincantata e quasi romantica accettazione con cui un'intera generazione (quella seduta in poltrona) si sta un po' alla volta assolvendo, dicendo: sì, abbiamo sbagliato, ma almeno ci abbiamo provato, abbiamo sognato un mondo migliore, anche se oggi votiamo Pdl e siamo peggio dei peggiori padri reazionari che abbiamo tanto combattuto e maledetto. Accettazione disincantata e quasi romantica, mi piace ripeterlo. E alla fine: assoluzione. Tanto noi il culo lo abbiamo ben piantato nei nostri sacelli, e pazienza se il sistema è allo sfascio per colpa nostra. Pazienza se abbiamo banchettato con le risorse di almeno due generazioni posteriori alla nostra. E' andata così. Formidabili quegli anni, formidabili davvero, per loro. Ci mancavano i rettori universitari a fare i malinconici, seduti su una poltrona in pelle umana, nel loro bell'ufficio, al riparo di una pianta di ficus. Non credo di avere parole a sufficienza per descrivere il senso di nausea che questa lettera risibile e povera mi ha trasmesso. In quelle poche righe c'è tutto il fardello che sta affossando la società italiana: paternalismo, familismo, retorica, faciloneria. Sono anche gli ingredienti che, personalmente, faccio più fatica a digerire. Queste paternali non sono più ammissibili. Finisci gli studi prima di andartene, buon figliolo, mi raccomando.

indietro tutta

A pensarci adesso magari non è proprio il massimo delle aspettative, ma così, in astratto, si può anche provare a ragionarci sopra. Viviamo in una fase storica di conclamato basso impero, di crisi ideale e morale, di generale sfiducia; serpeggia una buona dose di cattiveria, il cinismo dilaga, i confini tra le categorie sono impalpabili. Tutto vero. E allora? Qualcuno ci prova con il revanscismo, con l'arroccamento su posizioni conservatrici che di più non si può; qualcuno cerca la salvezza nelle maglie della religione. Eppure la sensazione è che tutto questo non servirà a niente: la Storia ci insegna che siamo noi stessi il frutto di continui rimescolamenti etnici, culturali, politici. L'Impero Romano è crollato, il Sacro Romano Impero idem; la Francia napoleonica è tramontata, così come l'epoca coloniale. Opporsi alle trasformazioni storiche strappa al massimo un sorriso, perché è un'operazione anacronistica, non politica. Diciamo piuttosto che ci sono buone ragioni per tenere alta la bandiera degli unici due pilastri che possono salvare i nostri tranquilli sonni borghesi: la legalità (e qui ti voglio) e la laicità. La legalità per vincere il pregiudizio e mettere davvero tutti sullo stesso piano e la laicità per creare un humus civile che sia fondato su concetti condivisi, su caposaldi inequivocabili per chiunque voglia dirsi cittadino italiano. Non basterà certo inserire la croce nel tricolore per farci sentire meglio, tanto per intenderci; nella storia del pianeta si sono susseguite migliaia di religioni, migliaia di forme politiche. Le etnie si sono mescolate, si sono estinte, e in ogni caso la specie è andata avanti, con diverse sovrastrutture e soprattutto con valori diversi, e diverse idee di valore. Lo diceva Nietzsche un secolo abbondante fa. Stiamo sperimentando che cosa sia questa genealogia della morale.

la soluzione è a portata

Molti politici amano dedicarsi all'arte del pamphlet: pubblicazioni di solito di scarso valore e di mediocre fattura che propugnano le loro idee, le loro visioni, i loro progetti. Operazioni commerciali il più delle volte, atte ad ingrassare le già ben fornite tasche (non in tanto in diritti quanto in immagine), a fungere da pretesto per comparsate televisive, a servire da cavallo di Troia per lanciare il messaggio cifrato a questo o quell'alleato. La prima domanda è: perché lorsignori non mettono in pratica in prima persona i propri suggerimenti e si sentono in dovere di venirceli a dire a noi? Seconda: ma siamo sicuri che valga la pena di ascoltare le dritte di chi ci ha trascinato al punto in cui siamo? Non so onestamente che cosa stia sotto alla logica del libro del politico, a parte la suddetta smania di immagine e di visibilità. Altri motivi non ne vedo. L'editoria è subissata da pubblicazioni inutili come queste: centinaia di libri usa e getta, buoni forse una settimana, bene che vada un mese. E poi? Poi niente. Cassonetto, sacco viola. Tra dieci anni il nome di molti di questi personaggi non se lo ricorderà più nessuno. Riscopriamo Macchiavelli, Hobbes, Mill, non questi signori prodighi, mi pare tanto, solo di strane strategie e di accordi da bassa cucina. Altro aspetto: spesso questi libelli richiamano concetti come "ripartire", "ricostruire", "tornare a...", come se si rifacessero ad una presunta età dell'oro che non c'è mai stata o se c'è stata è durata pochissimo (ancora questa favola del Boom economico e la Lambretta e il frigorifero? No, dai spero che l'oro non sia quello...). E' una notazione così: a me fa morire di rabbia questo ricorso al rimpianto di un passato che non esiste. Uno di questi indispensabili manuali recita bellamente nel sottotitolo "perché l'Italia deve tornare a pensare in grande". Sarebbe un bell'esercizio ritrovare il momento in cui abbiamo pensato in grande. Colonialismo? Oddio, speriamo di no.

abbassare i toni

Non si sa perché ma ogni tanto il monito arriva, un poco distratto, un poco distante. Abbassare, obliare, confondere. Ma sì, in fondo chi ce lo fa fare di urlare? Abbassiamoli questi toni. Ma dietro una frase così banale, così inutile in fondo, che cosa si cela? A me sembra tanto un desiderio di dimenticanza, di flaccida rimostranza di fronte al chiasso del volgo: basta casino per piacere, stiamo facendo cose importanti qui. Sfugge la sostanza di questo abbassamento, e mai nessuno che ne parli, come se, in fondo, fosse una questione di bon ton, un po' come il tè nel boudoir della dama. Forse qualche volta vale la pena di alzare la voce, quando, per esempio, c'è in gioco il destino della democrazia parlamentare, oppure la libertà di stampa, oppure la sacrosanta antipatia di tutti noi nei confronti della repubblica autoritaria. Ma la mano istituzionale di tanto in tanto si posa: abbassa la tua radio per favor. Paterna, padronale, rassicurante. Non importa quello che accade o non accade, basta non fare rumore, non "dare adito a polemiche". Meraviglioso il commento dell'onorevole: "Opportuno questo richiamo alla pacatezza dei toni". Ma se è una vita che ci raccomandiamo a vicenda toni pacati, fregandocene pacatamente del merito del contendere? Ma forse bisogna abituarsi a questa solfa. Siamo in pieno bon ton: è il come che trionfa sul cosa; la moina che soppianta la sostanza. Forse (altra dubitativa) la dialettica politica si basa su queste sottili alchimie, che sono giochi di parole, gabbie verbali in cui amiamo dimenarci, oggi come cinquant'anni fa. Oggi si dice qualche parolaccia in più, ma insomma, rispetto ai tristi speaker Rai anni sessanta non so quanta strada avanti si sia fatta in quanto a contenuti. Oggi si può anche litigare. Ma a bassa voce, mi raccomando.

domenica

Domenica, lo struscio in centro. Casino per i negozi aperti, il Natale si festeggia in anticipo con i negozi aperti; bastano questi, in fondo, a creare tutta l'atmosfera di cui c'è bisogno. L'inserto domenicale del Sole 24 ore è in crisi nera, visto che abbondano notizie così dette di nicchia, per la serie abbecedari demodè, e a dire il vero non trovo poi molti motivi di interesse. Andamento rilassato delle ore domenicali, con l'esibizione della banda in piazza, qualche bancarella con le castagne e un freddo che non è ancor freddo, ma piuttosto tiepido. La generazione resta a mollo, in ogni caso. Ci ho fatto caso: fa molto figo definire la propria generazione "perduta" o "maledetta" o peggio ancora "eretica"; sarebbe bello svegliare questi signori che si crogiolano sulle braci di battaglie mai avvenute e comunicargli che la loro generazione (ma potremmo dire anche la nostra e la vostra e via dicendo) non solo non ha alcun alone romantico, ma che addirittura è l'antitesi del romanticismo: è squallidamente borghese. Tutti questi poeti maledetti del '68 e del '77 che bene che vada votano Pdl e lavorano in banca quali pretese di eresia potranno mai avere? L'eresia, bisogna conquistarla, meritarla. Altrettanto si può dire della "maledizione", e allora: fatevi maledire, diventate davvero maledetti e perduti, perché altrimenti è un giochino che riesce solo sui libri, e non vale. Gustatevi le caldarroste e lo struscio, che forse è quella l'unica battaglia che vi resta, la rivoluzione della castagna.

un chiarimento importante

Meglio prendere il discorso alla larga. Mi sono imbattuto in Gabriele d'Annunzio molto presto, colpito da una fotografia su un libro di storia che lo ritraeva mentre arringava la folla. Era uno dei comizi che precedettero l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915. Da allora il mito d'Annunzio (o la mitologia dannunziana) ha avuto un ruolo nella mia formazione, e non da poco. Ho letto parecchi volumi e opere monografiche che lo riguardano, mi sono appassionato di storia del novecento, ho visitato svariate volte il Vittoriale di Gardone. In sintesi questi sono solo alcuni dei motivi per cui forse non posso essere del tutto neutrale quando parlo di lui e della sua vita. D'Annunzio è una di quelle figure che seducono, che colpiscono l'immaginario, che fanno capire che forse è davvero tutto possibile, che l'arte in qualche modo diventa chiave universale d'accesso ad una dimensione autenticamente vitale. La mia è stata ed è una passione estetica, dovuta, forse, ad una visione di fondo che condivido: bisogna anteporre l'opera alla vita, ma questo è un discorso che prenderebbe molto tempo. Ho letto proprio oggi un articolo sull'inserto di Repubblica, che in qualche modo accostava la temperie fiumana della Reggenza del Quarnaro ai moderni fenomeni di neofascismo, accreditando il modus vivendi dei Legionari come una specie di protofascismo. Attenzione, perché stiamo giocando con il cristallo. Mi pare tendenzioso questo paragone. Do per scontata la ricostruzione storica (il perché e il percome d'Annunzio occupò Fiume per oltre un anno), ma non posso fare altrettanto con la dinamica che la sottende. L'occupazione di Fiume fu sostanzialmente un'operazione militare fuori da qualunque canone, una scarica di energia che finì presto in nulla, ovverosia nella più totale anarchia, nel baccanale più osceno: la Legione dovette arrangiarsi con la pirateria per non morire di fame (si attuavano già gli embarghi) e le malattie veneree spopolavano tra la truppa e non solo. Ma Fiume d'Italia fu anche un laboratorio politico e creativo senza precedenti. Qui convivevano futuristi, ex arditi, studenti universitari (Giovanni Comisso, mentore a venire di Goffredo Parise), futuristi di sinistra (Mario Carli), futuri strenui oppositori alle leggi razziali come Mino Somenzi, ma anche artisti di ogni genere, donne emancipate, omosessuali (!). La Fiume dannunziana fu un gran casino, d'accordo, ma fu anche il germe di quella spinta libertaria giovane e buona che sarebbe stata la prima vittima dell'oppressione fascista; fu a Fiume che si lanciò l'idea, pazzesca e velleitaria, di una grande internazionale per la "liberazione dei popoli oppressi", a Fiume che per la prima volta si sperimentò la stampa libera e la libera circolazione delle idee (furono stampati e distribuiti decine di fogli culturali). A Fiume, sotto quella specie di anarchismo istituzionalizzato, trovò spazio forse la prima associazione di yoga italiana, lanciata da quel personaggio incredibile e fuori dagli schemi di Guido Keller. Questa è una carrellata rapida e largamente incompleta, ma mi serve come pezza d'appoggio per dire che la definizione di protofascismo affibbiata all'esperienza di Fiume è un'inesattezza storica, perché tradisce quello che fu il contesto umano in cui si svolse, in cui venne alla luce. Il fascismo attinse a piene mani dalla mitologia fiumana (camicie nere, eja eja alalà, saluto romano) ma la travisò, la castrò, si servì di quella forza giovane e anarchica, la domò e la piegò a proprio uso e consumo. Ma dire che la Reggenza italiana del Quarnaro sia un fenomeno fascista è un errore, e grossolano. L'esperienza di Fiume fu un atto di disperata vitalità, di ricerca dell'assoluto, di esperienza estetica che non può essere compreso da tutti, me ne rendo conto; d'Annunzio in quei mesi ha dato voce e vita a tutta una generazione che era uscita con le ossa rotte dalla guerra e che cercava di trovare una collocazione e forse uno sfogo in un'impresa totale e totalizzante. Questa fu Fiume, e basta informarsi seriamente per capire come tutto ciò non abbia niente niente niente a che vedere con l'infamia delle leggi razziali, con la repressione degli oppositori, con il soffocamento della libera stampa, tutt'altro. Il revisionismo dovrebbe servire a chiarire aspetti come questo: far capire la differenza, evitando di banalizzare i contenuti, sbattendo tutto insieme, senza distinguo. Basta con la favola di d'Annunzio ultrafascista, perché è un'inesattezza: come poteva un artista vero, un amante della cultura, della classicità essere fascista? Un fascismo che anni dopo si sarebbe alleato con la Germania nazista, che fu il fumo negli occhi del Vate? Sfogo finito. Ma se qualcuno ha qualcosa da ridire mi faccia sapere, sono pronto a qualsiasi contraddittorio in merito. Due letture, queste sì complete e veritiere: Alla festa della rivoluzione, di Claudia Salaris, edizioni Il Mulino; Il poeta armato, di Antonio Spinosa, Mondadori.

questione di pagine

Può la letteratura essere considerata al chilo, prendendo come parametro oggettivo il numero delle pagine? Un tempo avrei risposto recisamente di no, e ancora oggi propendo per una visione qualitativa di un'opera. Ma non basta fermarsi a questo. Diciamo che qualcuno se n'è approfittato; non un maggioranza magari, ma una consistente e tenace minoranza. Scrittori di romanzi che non sono romanzi, ma racconti gonfiati dall'apparato meramente tipografico, saggetti e saggini di risibile consistenza in cui vengono infilate sentenze e massime di vita al solo scopo di proporre magari più libri suddivisi che raddoppiano gli incassi e dimezzano le fatiche. E' in gioco anche l'onestà dell'autore in un certo senso. Capita troppo spesso di vedere questi bei libretti dai colori invitanti, la rilegatura pesante, i titoli ad effetto (amore, cuore...) le quarte di copertina che sono tutto un tripudio di elogi e di buoni sentimenti, o viceversa delle peggiori infamie (sangue, morte...) per poi scoprire, una volta aperto il volume, corpi tipografici abnormi, spaziature ingiustificate. Colpisce proprio la gestione degli spazi in certe operazioni editoriali: li chiamo libri allo stato gassoso, gonfi di bolle vaporose che ne aumentano il volume ma che lasciano invariata la sostanza. Ma guai a turbare i maestri nella loro pensosa poesia, guai a parlargli di tempi, di metodo, di costanza, di fatica. Soprattutto di fatica. Perché loro si stracceranno le vesti parlando della qualità degli aggettivi, della penosa scelta di ogni dettaglio, del travaglio morale di accenti e sinonimi. Sono quegli scrittori che in tutta la loro vita hanno scritto un libro, forse due, e per di più quai invisibili tanto sono sottili. Dicono che meno si scrive meglio è, di solito. La loro linea Maginot è: si scrive sempre troppo, bisogna leggere, non scrivere. Però poi continuano a scrivere. Poco, ma continuano. Prediligono pubblicare raccolte dei loro imperdibili articoli, aforismi vari, aneddoti, ricordi. Insomma, tutte cose estemporanee, che necessitano di qualche oretta rubacchiata qua e là. Il romanzo? Dicono sia morto. Amen. Forse è per questo che sto rivalutando la scrittura ad ampio respiro, ad alto tasso di impegno, di rischio, di fatica autentica. Pensiamo ai grandi capolavori: Guerra e pace, Delitto e castigo, Moby Dick, Viaggio al termine della notte... In letteratura è bello anche perdersi qualche volta, sia come scrittore che come lettore. Accumulare personaggi, storie, divagazioni, situazioni. Il che naturalmente non contempla minimamente la retorica o la ridondanza. Così come è altrettanto ovvio che la letteratura di taglia più snella può raggiungere vette altrettanto alte (l'opera di Simenon, oppure di Schnitzler). Ma non deve essere un pretesto a carattere venti e a venti euro di prezzo.

ho visto Videocracy

Dopo alcune peripezie sono riuscito a vedere Videocracy, il docufilm del regista svedese Erik Gandini censurato in ogni modo possibile in Italia. L'opera parla, come noto, del connubio perverso tra immagine e potere, ovverosia tra sfruttamento della credulità popolare a mezzo televisivo e il controllo delle masse. L'assunto del docufilm è chiaro: l'80% degli italiani forma la propria idea di politica e di mondo a partire dalle informazioni televisive, dunque chi detiene il potere mediatico automaticamente agguanta anche quello politico. L'operazione di Gandini ha una tesi: esiste una sottile linea rossa che lega il mondo del gossip a quello politico, il sesso alla pratica del potere. In mezzo una serie di personaggi squallidi, di approfittatori e mezzani. Un mondo di culi e tette spacciati a mezzo televisivo, una bolla di promesse non mantenute e cartapesta che distrae sistematicamente gli italiani da tutto ciò che li riguarda sul serio: politiche sociali, integrazione, lavoro, cultura e via dicendo. Per chi è italiano non c'è niente di nuovo: l'effetto devastante che il berlusconismo ha avuto e continua ad avere sulla massa italiana è noto, ma lo stesso fa un certo effetto. In poco più di un'ora abbiamo spiattellata di fronte agli occhi l'essenza stessa di ciò che non funziona in questa nazione, del cancro che si sta espandendo inarrestabile verso tutti gli organi vitali. E' una pellicola a uso estero, principalmente, ma non si può dire che non tocchi apprezzabili vette di verità cronachistica. Se Videocracy ha un difetto è quello di aver accennato appena alla punta dell'iceberg, perché il discorso potrebbe essere ancora più tremendo e umiliante per tutti quelli che, come me come noi, questa penisola la amano ancora e stanno male nel vederla ridotta ad un carnaio di ragazzine disposte a tutto in fila ai provini. Ecco, quei provini sono la sequenza che mi è rimasta più impressa. Queste poveracce truccate in qualche modo che ballano tutte nella stessa maniera, con mamma e papà che fanno il tifo con le labbra unte di patatine. Ma sono impressioni personali: la pena è un'impressione personale, ma è anche un sentimento che potrebbe e dovrebbe diventare universale. Specie se poi chi ha permesso questo strazio sventola la croce appellandosi ai valori. Il film di Gandini serve come grido d'allarme, ed è un lavoro ben fatto checché ne dica qualche maggiordomo: il dramma sta tutto nel non scandalizzarsi più, nel dire che sono cose che si sanno, perché ciò significherebbe assuefazione, e significherebbe essere ad uno stadio molto avanzato della malattia. A molti questa logica dell'apparire piace. Molti fanno vanto della propria felice ignoranza, del ritenere lecito calpestare (o modificare o creare ex novo) le leggi; molti ritengono sacrosanto calpestare il prossimo, spregiare la cultura, sfruttare il corpo femminile come una discarica ormonale. Ma non è per tutti così. Sarebbe bello se questa minoranza si facesse sentire, si opponesse, dicesse "io non sono così, e non voglio esserlo".

ricordando Gadda

Carlo Emilio Gadda è uno degli autori più discussi del panorama letterario del novecento italiano. Autore atipico, che ha lasciato molti insegnamenti ma nessun allievo, scrittore poliedrico, molto amato ma anche assai detestato. Colpa della scelta linguistica? Certo è che Gadda parla e scrive la lingua di Gadda, che è un calderone, un minestrone ribollente di arcaismi, dialettismi, preziosismi e invenzioni sintattiche. Per dirne una lui, lombardo e brianzolo, si cimentò nella sperimentazione vernacolare: Il pasticciaccio è scritto in romanesco. Senza ombra di dubbio Gadda è unico, nonostante alcuni, scadenti emuli. Ma questa unicità ha un prezzo: una zona d'ombra, una specie di area franca entro cui le interpretazioni si sono ora sovrapposte ora apertamente contraddette. Resta la grande ricchezza espressiva, specie in La cognizione del dolore, un romanzo criptico, denso di rimandi personali e privati dell'autore; una storia ingarbugliata, qua e là incomprensibile. Le mie stesse affermazioni risultano contraddittorie, ma tant'è la sostanza variegata della letteratura di Gadda, al punto che più di una critica ha accostato la sua scrittura ad un'impostazione ingegneristica della letteratura (giocando sul fatto che Gadda era ingegnere appunto, ma sono cose stradette). Come dire: molti virtuosismi verbali, forte struttura interna, ma mancanza di autentica tensione, quasi che tutti gli intrecci mancassero della necessaria componente umana propria del fatto letterario. Sono polemiche che durano tutt'ora, e forse non sono del tutto peregrine. Per esempio: qual è la trama della Cognizione del dolore? Un ingegnere hidalgo si muove in un ipotetico Sudamerica che ricorda tanto la Brianza, sua madre muore e... L'intreccio è un viluppo di nomi, situazioni, sottintesi che ne rendono difficoltosa la comprensione. Addirittura non tutti sono sicuri che si tratti di un romanzo effettivamente incompleto, per dire fino a che punto il caso Gadda abbia assunto connotati quasi misterici. Anni fa uscì, anche qui tra molte discussioni, un volume commentato del romanzo, in cui il commento era superiore, in quanto a pagine, al testo nudo e crudo. Un paradosso, probabilmente. Ma un paradosso che vale la pena di tentare di capire. La letteratura prende strade talvolta tortuose per illuminare anche su realtà che appaiono semplici e che poi tanto semplici non sono. Ci sarebbe molto altro da dire su Gadda e non solo su lui. Per esempio: il suo libro che preferisco è una raccolta di saggi, I viaggi, la morte, ma sarebbe necessario spazio e attenzione che qui non ci sono. Basta il ricordo, giusto quello.

il lungo abbandono di Guido Morselli

La parabola di uno scrittore ampiamente incompreso, sottovalutato. La storia di un uomo abbandonato dagli affetti che alla fine ha optato per la scelta più tragica, quella del togliersi la vita, un giorno d'estate del 1973. Libri scritti e puntualmente rifiutati da tutte le case editrici: romanzi e saggi pervasi da una preparazione culturale molto alta, di livello sicuramente superiore alla media. Sono tra i pochi ad aver letto Diario di Morselli, sorta di giornale di bordo della sua deriva: breviario lucido e sofferto dei suoi travagli intellettuali, delle letture, delle scoperte. Facile capire di non trovarsi di fronte ad un uomo banale, ma anche ad uno scrittore che progressivamente sta tagliando i ponti con la vita, con quella gente che lo ha sempre trattato con sospetto e diffidenza. Si ritira nella campagna di Varese, arretra il baricentro, si rifugia nella letteratura, che però, come osserverà anche P.V. Tondelli in punto di morte, "non salva, mai." Restano le sue opere: numerose, belle, profonde. Rimane la sensazione di trovarsi di fronte ad un percorso incompiuto, che forse però ha modo di trovare la sua finitudine e completezza nell'abbraccio dei lettori postumi, che saranno tanti. In Diario non c'è traccia di compatimento, né di lamentazioni: è il lucido carnet di un intellettuale attento e preparato, che annota paziente le linee tematiche delle sue opere a venire. Le sue ossessioni troveranno spazio soprattutto nella sua opera, specie in quel cupo diamante che è Dissipatio H.g., opera ultima e definitiva dove tutti i tasselli troveranno la loro drammatica collocazione. E' un nome che per fortuna si sta riscoprendo, quello di Morselli, ad opera dell'editore Adelphi, proprio quello che tanti anni fa gli disse no. Casi della vita.

una questione genetica

Sarò anche il solito disfattista, pessimista, e via di questo passo, ma di fronte alla notizia secondo cui addirittura il National Geographic, in collaborazione con alcuni movimenti locali definitisi "apartitici", stia eseguendo dei test del DNA sulla popolazione veneziana per salvare il codice genetico a rischio estinzione mi ha fatto sonoramente ridere. Ridere amaro, beninteso. Amo Venezia, è in assoluto una delle città in cui mi sono trovato meglio e in cui torno più volentieri, mi piacerebbe che la salvaguardia della venezianità passasse attraverso la difesa del suo patrimonio storico e culturale più che tramite queste iniziative. Siamo tutti geneticamente bastardi, e il concetto stesso di purezza genetica, oltre che suonare sinistro per le note ragioni storiche, sa anche di anacronistico, di fuori dal mondo: i popoli migrano, si mischiano, si mescolano, acquisiscono impronte genetiche diverse. Ciò che conta è la crescita dell'individuo, il suo sviluppo personale, la sua possibilità di istruirsi e di apprezzare il bello. Tutto il resto, e mi si passi il tono vagamente cattedratico, sono solo sciocchezze. Quale superiorità può esserci nell'appartenere ad un ceppo piuttosto che ad un altro? Nessuna ovviamente. Il pretesto di questa ricerca è ufficialmente storico: ricostruire i movimenti del popolo veneto e capire in quale periodo esso si sia insediato nella laguna, ma aprire un discorso del genere rappresenta un rischio. Quali conseguenze potrebbero nascere da una ricerca di questo tipo? I ceppi sono fatti per disperdersi, basta pensare alla latinità, dispersa tra contatti con i celti, gli africani, gli ispanici, gli asiatici, e allora? Che fine ha fatto il DNA dei macedoni di Alessandro Magno? Boh, e chi se ne frega direi anche. Sarebbe bello riuscire finalmente a capire che l'appartenenza non è un discorso genetico, ma culturale: conoscere, studiare, diventare cittadino d'adozione, credere in certi valori. Se proprio serve qualcuno per ripopolare il centro di Venezia, ad ogni buon conto, mi candido. A canone agevolato, ovviamente.

decoder

Come definire il decoder del digitale terrestre? Bufala tecnologica? Oppure come dice il grande Uboldus esempio perfetto di "taccologia"? Fatto sta che dall'oggi al domani, con l'alibi del pluralismo, è arrivato anche questo bel fardello di latta a farci compagnia. Si può anche evitare: basta comprarsi un bel televisore "di ultima generazione", come recita diligente la vocina dello spot. Incassi decuplicati per le case produttrici, sia di decoder che ti televisori, per il momento l'unico guadagno mi sembra questo. Programmi interattivi, dicono. Ma che ce ne facciamo nell'era di internet? Anni fa, prima che esplodessero i dvd, mi ricordo della breve parabola del laser disk, specie di quarantacinque giri su cui però erano riversati i film: tanto varrebbe riproporre anche quelli, se non fosse che la distanza che intercorre tra dvd e laser disk è infinitamente minore allo iato esistente tra digitale terrestre e dvd. Questa ennesima, finta rivoluzione è in realtà un colpo di mano, permesso dalla, mi dispiace dirlo, profonda ignoranza tecnologica degli italiani, ancora una volta vittime e complici di questo sbaraglio. C'è un dettaglio che la vocina dello spot omette però. Un dettaglio piccolo piccolo, una terza via che è tutto fuorché terzista: sbattiamo via il televisore e non ricompriamolo nuovo. Niente tv, niente falsi telegiornali, niente film che decidono loro, niente pubblicità. Basterebbe pensarci per capire che è solo un gigantesco abbaglio a cui la coscienza di ciascuno, il libero arbitrio di ciascuno può dire di no. I'd prefer not. E scusate se non dico grazie.

ricordando Fenoglio

Figura complessa, quella di Beppe Fenoglio. Tempo fa scrissi un commento piuttosto articolato su uno dei suoi lavori principali, quel piccolo (e neanche tanto piccolo) gioiello di Una questione privata, storia amara e dolorosa sullo sfondo drammatico della guerra partigiana. Scrittore e partigiano, come volle scritto sulla sua tomba. Scrittore asciutto, schivo, allergico al rumore e al superfluo, partigiano badogliano lontano da qualsiasi retorica. Per conoscerlo meglio consiglio il bel saggio di Piero Negri Scaglione, Questioni private, vita incompiuta di Beppe Fenoglio, edito da Einaudi, un saggio di agile consultazione, che alterna riferimenti all'opera a testimonianze dirette, aneddoti e ricostruzioni storiche. Colpisce la malinconia di Fenoglio, quello sguardo pensoso eppure acuto, la sigaretta in bocca; un intellettuale in lotta con le piccole meschinerie di paese, con la stupidità dell'ambiente accademico, con una famiglia che raramente è stata in grado di comprenderlo. C'è quella fotografia, poi, quella che il saggio presenta nel mezzo del volume, uno scatto posato, senza pretese: c'è Fenoglio che finge di battere a macchina attorniato dai genitori. Lo sguardo un po' beota del padre, gli occhi severi della madre a cui sfugge anche una appena percepibile smorfia, come dire: "Ma guarda che cosa mi tocca fare." In quell'istantanea c'è tutto il dolore che la scrittura porta con sé, con l'isolamento e la canonica (direi quasi necessaria) ostilità dei parenti. E allora colpisce ancora di più la dolente dignità di Fenoglio, la sua integrità intellettuale e umana, ferma, decisa a dispetto di tutto. Inutile dire che probabilmente anche questo clima, così teso così disperato, abbia avuto il suo peso nella formazione dello scrittore e nella sua produzione. Mi viene in mente un confronto al volo con un suo coetaneo (i due si conobbero anche), Italo Calvino. Mi ha colpito come Fenoglio abbia dovuto costantemente scontrarsi con un muro di gomma, mentre per Calvino sia stato tutto non dico più semplice, ma senz'altro più lineare. Due scrittori della stessa generazione, ma con visioni diverse. Magari ne parlerò più avanti.

stilemi

Il problema dello stile, nella stesura di un testo, rappresenta uno scoglio consistente almeno quanto quello dell'idea di base: la scelta dello stile comporta un certo livello di consapevolezza, una certa permeabilità alle influenze, un concetto letterario piuttosto ampio. Ma che cos'è, in fin dei conti, lo stile? Si può provare a dare una definizione sintetica: il registro linguistico unito al respiro e al contesto culturale entro cui il testo nasce. La linguistica parla di preferenza di stilemi, di norma individuabili e analizzabili sulla base di un vettore stilistico, di cui si può accettare senza riserve la precisa definizione di Cesare Segre: "...quei tratti di stile, generalmente parole ed espressioni, che palesano più esplicitamente e direttamente caratteri e idee dominanti del testo. " Si potrebbe parlare a lungo di variazioni stilistiche e di approcci più o meno adeguati al problema; di certo la prima considerazione è che la questione dello stilema ha subito la sua maggiore e repentina evoluzione in ambito novecentesco, o al massimo tardo ottocentesco. Il concetto di lingua parlata, per esempio, mutuata dalla prosa teatrale, è un fenomeno abbastanza recente: la ricostruzione della lingua parlata è rimasta nell'ambito della sperimentazione linguistica fino agli anni cinquanta, tanto per dire. La frantumazione della prosa, da composto di subordinate a frammenti nominali, è un'operazione di pieno novecento. Un'evoluzione portata avanti principalmente da autori angolofoni, ma anche da italiani (penso al d'Annunzio del Notturno). La questione si presenta alquanto varia e di ardua classificazione. Innegabile è il fatto che lo stilema sia di norma riconducibile al genere di cui tratta il testo: vero per molti casi, ma non sempre; prendiamo H.P. Lovecraft, scrittore horrorifico e gotico ma dalla prosa bizantina, preziosa, sintatticamente e semanticamente complessa. Oppure Edgar Allan Poe, per il quale si potrebbe dire lo stesso. Esempi che oggi come oggi sono forse difficili da afferrare. La prosa che leggiamo oggi è figlia di un lento processo di riduzione che ha di fatto abolito le subordinate, privilegiando una struttura paratattica, che guarda con sospetto i periodi più lunghi. Da un lato è un bene (nessuno si esprime con subordinate del quinto grado) ma anche gli eccessi sono fastidiosi, e il periodare spezzettato di certi autori ne è la prova. Credo si stia giungendo ad un compromesso tra le varie istanze, o almeno è quanto io cerco di fare quando scrivo: abusare della prima persona, il presente storico tirato per centinaia di pagine sono derive che molti autori di oggi cercano per fortuna di evitare. Un'ultima notazione. Credo sinceramente che la buona narrativa americana della prima metà del novecento abbia avuto un'influenza benefica sulla produzione narrativa del resto dell'occidente. Hemingway, Dos Passos, Steinbeck, Sherwood Anderson, Fitzgerald ci hanno in un certo senso aiutato a ripulire la nostra lingua da molti cascami, ad indirizzarla verso il moderno. Un'operazione impensabile solo pochi decenni prima.

per Antonio Delfini (e non solo)

Per parlare di Antonio Delfini occorre una premessa, nella quale va introdotto un altro nome, quello di Cesare Garboli. Garboli è uno dei più importanti critici letterari italiani del secondo novecento, che ha rappresentato, per la filologia, al tempo stesso un eretico e un eroe, un eterodosso e un coraggioso, una voce che ha squadernato quello che era l'establishment culturale degli anni sessanta e settanta, dominato dal formalismo russo e nella fattispecie luckacsiano. Il suo lavoro più rappresentativo, giusto per completezza, è La stanza separata recentemente ristampato da Scheiwiller, casomai qualcuno volesse approfondire. Ma questa è solo una glossa, per meglio capire il seguito. Uno dei lavori di Garboli unanimemente riconosciuti come fondamentali è la prefazione ai Diari di Antonio Delfini, pubblicati da Einaudi all'inizio degli anni ottanta dopo un lungo travaglio editoriale: un testo acuto, scritto benissimo, fedele nel ricostruire il sostrato psicologico di Delfini più che la sua biografia, del resto povera di eventi. Garboli e Delfini si conobbero e si frequentarono, furono in un certo senso amici, nonostante la differenza d'età. Qui arrivo io con la mia modesta riflessione. Ho letto il bel libro pubblicato di recente sempre da Einaudi, Autore ignoto presenta, con l'altrettanto valido profilo critico tracciato stavolta da Gianni Celati. Sono racconti, abbozzi, in qualche caso poco più che scarabocchi. Ma i racconti sono di alto livello: sono quel che si dice divertenti in senso etimologico: portano su un'altra strada, aprono una nuova prospettiva, ora leggera ora spiazzante, mai ovvia o banale. Delfini fu soprattutto uno scrittore di racconti, cui vanno aggiunte le poesie. Uno scrittore anomalo, fuori dagli schemi e fuori dai circuiti letterari. Garboli ne dà un ritratto lieve, impalpabile come carta velina: una figura eterea, sfuggente, irrimediabilmente superficiale. Bravo scrittore sì, ma nelle parole di Garboli c'è sempre una reticenza, una riserva di troppo che sembra volerne sminuire la portata puntualmente sul più bello. Per un curioso gioco del destino io ho letto questa ampia prefazione ma non i Diari, ormai introvabili e quindi non sono in grado di dire fino a che punto leggerli mi avrebbe portato più o meno vicino alle opinioni di Garboli. Ma, stando così i fatti, questa prefazione mi lascia l'amaro in bocca, perché, per essere chiari, Delfini viene descritto come una sorta di amabile coglione, un piccolo snob fuori dal mondo che in vita sua ha perso del gran tempo senza alla fine concretizzare alcunché di apprezzabile; piacevole, a tratti arguto, ma insomma, i veri intellettuali sono altri, sembra dire il critico. Garboli dice infatti che, più che uno scrittore, Delfini è il grande personaggio di un romanzo mai scritto. Come dire: un po' poco. C'è un che di compatimento nelle parole di Garboli che alla lunga stanca, e proprio perché si ha la sensazione di una continua sottrazione al reale valore dello scrittore. Forse meno pregevole da un punto di vista strettamente stilistico ma probabilmente più vicino al vero è allora lo scritto di Celati, che restituisce le giuste prospettive e dà all'autore modenese una dimensione più condivisibile. Ad ogni modo, una lettura da affrontare, da capire, per accorgersi che il patrimonio letterario, italiano e non solo, passa anche attraverso queste voci beatamente minori, e libere.

piccoli sciovinismi tra amici

Una riflessione estemporanea su un dato di economia, materia che padroneggio decisamente poco. L'Italia, stando ai dati Ocse, ha scavalcato la Gran Bretagna nella classifica dei paesi più ricchi. Diciamo subito che le classifiche non mi piacciono e che appartengo alla schiera di coloro che diffidano del Pil, ma non è questo il nocciolo. Davvero la piccola, povera Italia ha scavalcato gli inglesi? Gli Inglesi dell'Impero, del Commonwealth, delle colonie, della potenza marittima? Pare proprio di sì, almeno su di un piano strettamente monetario. E allora mi chiedo: a che cosa sono serviti almeno quattro secoli di egemonia politico culturale sull'orbe terracqueo? A che è servito imporre la propria lingua sulle migliaia di idiomi parlati sul pianeta? Poco o nulla verrebbe da dire. O meglio: tutto ciò vale un settimo posto. Dietro ad un'Italia storicamente bistrattata, divisa su tutto, papista, mafiosa, spaghettara, oltraggiata oltre ogni decenza in ogni angolo anglofono (e non solo) della terra. Mi viene da essere sciovinista: questo nostro sgangherato paese, così intriso di iniquità e di malaffare, sta a galla a dispetto di tutto. Come mai? Analisi ardua. Mi sono risposto che ci sono delle sacche di ossigeno che consentono alla penisola di non affondare, delle riserve di menti, di braccia, di cuori che non hanno la ribalta né la chiedono ma che continuano a lavorare per il giusto, con passione, con entusiasmo. Questo sorpasso mi pare proprio una vittoria di queste persone più che della politica centralista, che anzi negli ultimi anni è stata una zavorra non indifferente. Siamo il paese europeo con il più alto numero di volontari, non mi sembra un dato da poco. Viene da chiedersi che cosa potrebbe fare questa tanto vituperata Repubblica una volta risolti i suoi annosi problemi di criminalità, corruzione, clientelismo. Chissà che cosa ne pensano i sudditi della regina.