BEAMS
(tratto da Romances sans paroles - Aquarelles, traduzione dal francese
di Ariberto Terragni)
Lei volle andare sui flutti del mare,
e siccome un vento benevolo soffiava il sereno,
tutti noi ci prestammo alla sua bella follia,
ed eccoci in marcia per il cammino amaro.
Il sole riluceva alto in un cielo calmo e liscio,
e nei suoi capelli biondi c'erano dei raggi d'oro,
sicché noi seguivamo il suo passo più calmo ancora
dello sciabordio delle onde, oh delizia!
Uccelli bianchi volavano intorno blandamente
e in lontananza si inclinavano vele bianche.
Talvolta grandi alghe filavano in lunghi rami,
i nostri piedi scivolavano in un largo e puro movimento.
Lei si volse, dolcemente inquieta
di non saperci pienamente chetati,
ma vedendoci felici di essere i suoi prediletti,
riprese la sua strada, a testa alta.
Paul Verlaine è il mistero della poesia. Un uomo incoerente, sfilacciato, che si è perso e ritrovato decine di volte nel corso della sua vita, bevitore accanito, dalla vita disordinata. Un uomo non particolarmente attraente, di carattere difficile, un uomo che è stato un grande poeta. Viene spesso affiancato ad Arthur Rimbaud, l'angelo infernale, e in qualche modo il suo nome risulta sempre, nelle biografie meno attente, un passo dietro rispetto a quello del giovane amante. Eppure Verlaine è stato più grande di Rimbaud. Lo dico seguendo il gusto personale e amando comunque anche l'autore delle Illuminazioni. Verlaine ha avuto dalla sua il tocco della disperazione: quella rara e particolare facoltà poetica che asciuga fino alle ossa il verbo fino a renderlo simile ad un suono; il suo insegnamento è: essenza, immagine. Rimbaud è il cantore del dionisiaco, della bellezza, della giovinezza; Verlaine vive una dimensione interiore dilatata all'infinito, dove altrettanto infiniti sono il dolore, il disagio, l'offesa continua. E' stato un autore disorganizzato, che ha fatto di tutto per dissipare e sprecare il suo talento, non riuscendoci, come di solito accade ai grandi artisti. Verlaine il talento lo umiliava, lo calpestava, lo disprezzava, sapendo di poterlo ritrovare intatto e ancora più splendente un momento dopo. La lirica del poeta di Metz si presenta come non mai tersa, perfettamente bilanciata, un atollo di parole sul bianco del foglio. Mai una parola di troppo, mai una dissonanza. Non c'è ombra di ridondanza nei suoi scritti, che ugualmente sanguinano, ora di rabbia impotente, ora di dolce decadenza: è un poeta degli addii, da i Premiers vers passando per la tormentata e precaria conversione di Sagesse fino all'ultima, drammatica poesia, Mort!, commiato a pochi mesi dalla tragica e malinconica dipartita, preconizzata e quasi invocata nell'ultima strofa: "La mort que nous aimons, que nous êumes toujours...". Nonostante gli eccessi, le delusioni, e probabilmente anche le ingiustizie patite, il corpus della sia opera risulta come non mai coeso, focalizzato su alcuni nodi tematici che l'autore porterà sempre con sé: la sensualità frustrata, l'idea di morte, e in senso più ampio il concetto di fine. Fu un decadente duro e puro, nonché uno degli ultimi figli del simbolismo.
0 commenti:
Posta un commento