Il mondo viene squassato da un terribile virus creato in laboratorio che sfugge al controllo delle autorità. In pochi giorni una terribile influenza mutante distrugge la razza umana. Si salvano in pochi, e questi pochi si focalizzano in due schieramenti: i buoni e i cattivi. Proprio così. Il primi guidati da una specie di dio miscuglio di vari cristianesimi in salsa yankee, i secondi da un tizio in jeans e stivali da buttero forse emissario di Satana. Questa in due parole la trama de L'ombra dello scorpione, di Stephen King. Prima parte descrittiva, avvincente, coinvolgente. C'è realismo, c'è presa diretta. La seconda è un minestrone che non finisce più: una torrenziale sequenza di parole. I personaggi sono caratterizzati così così. I buoni sono di rara antipatia: dei rocciosi Chuck Norris tutta buona volontà e senso pratico, puro american style, mai un ripensamento, mai un ragionamento complesso se si eccettuano le pedanti lezioni di un sociologo raccattato per strada. I cattivi sono decisamente più interessanti. Ma perdono, e si capisce subito che contro dei buoni così buoni non potranno mai farcela. Il finale è così pazzesco che non posso non raccontarlo, e mi perdonerà chi ha intenzione di leggere il romanzo: quattro di questi buoni ricevono ordine da una vecchia sdentata, che si autonomina profeta di un non meglio identificato dio, di andare nel territorio dei cattivi. Come mai? Boh, l'ha detto il mio dio. Oh my God, andiamo. Arrivano sul posto, vengono catturati dai cattivoni, ma poi un cattivone particolarmente pirla, giusto un momento prima che i buoni vengano giustiziati, pensa bene di far brillare un'atomica. Così, proprio così. Storia finita. Al di là della seconda parte (allucinante), e delle innumerevoli parti inutili, c'è un dato che allarma: al di fuori degli Stati Uniti non esiste niente. La partita si gioca tutta negli Usa. Tutti i buoni sono lì concentrati e anche tutti i cattivi. Dio ha deciso che la sfida finale si giocherà da zio Sam. Non a Gerusalemme, non nella piana di Giza, non al Partenone, ma a Las Vegas. C'è in questo tutta la follia dell'autoreferenzialità culturale americana, la quale non sospetta nemmeno che esista qualcosa di notevole al di fuori dei propri confini. Una follia inquietante e grottesca, assurda e insieme vaneggiante: un sogno di potenza cieco, al limite della farneticazione. Viene voglia di pensare: meglio che vincano i cattivi piuttosto di questi calvinisti middle class; meglio un po' di anarchia satanica di queste sterminate lande di villette a schiera e tacchini imbottiti.
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