Ciò che colpisce nell'affaire Tanzi, al di là della vicenda giudiziaria in sé, è la curiosa funzione a cui sono state ridotte le numerose opere d'arte coinvolte. Il ricco imprenditore non le compra per gusto estetico o per costoso vezzo artistico, ma per sfruttarle come merce di scambio. Monet, Manet, Van Gogh, Ligabue, De Nittis e via dicendo stipati nel garage del genero come le croste ereditate insieme al salotto tarlato di una vecchia zia. Capolavori sottratti alla meraviglia dei nostri occhi per costituire una sorta di cassa d'emergenza del magnate. In effetti quando i soldi incontrano l'arte e quando, più in generale, il capitalismo di qualsiasi risma incontra l'arte, questo fa dell'arte stessa il solo uso che conosca: quello di investimento monetario. Il capitalismo non considera l'arte come un valore in sé e per sé, ma come un bene di scambio da soppesare, stimare e possibilmente vendere. Perché si sa, un bene per essere tale deve avere un valore di scambio. Comprare e scambiare tele, allora, diventa una mera operazione finanziaria, dove c'è anche qui un maledetto mercato che detta le sue regole e i suoi prezzi, favorendo scambi e transazioni, listini e rendiconti. Quanto ci vuole per capire che tutto questo è una sconfitta? E il bello è che il ricco magnate non sospetta nemmeno di macchiarsi di un crimine che va al di là di qualsiasi codice penale: è solo business, è un'operazione come un'altra. Si investe in oro, nel mattone, si investe in quadri d'autore. Messi in garage, insieme all'olio minerale e alle gomme da neve, fuori dalla portata di qualsiasi vista, l'oggetto d'arte non esiste più, sostituito dal suo prezzo. Non mischiate i vostri soldi schifosi con una delle poche cose che abbiano ancora un senso, per favore. Continuate ad occuparvi di palazzine e di discariche.
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