Molti politici amano dedicarsi all'arte del pamphlet: pubblicazioni di solito di scarso valore e di mediocre fattura che propugnano le loro idee, le loro visioni, i loro progetti. Operazioni commerciali il più delle volte, atte ad ingrassare le già ben fornite tasche (non in tanto in diritti quanto in immagine), a fungere da pretesto per comparsate televisive, a servire da cavallo di Troia per lanciare il messaggio cifrato a questo o quell'alleato. La prima domanda è: perché lorsignori non mettono in pratica in prima persona i propri suggerimenti e si sentono in dovere di venirceli a dire a noi? Seconda: ma siamo sicuri che valga la pena di ascoltare le dritte di chi ci ha trascinato al punto in cui siamo? Non so onestamente che cosa stia sotto alla logica del libro del politico, a parte la suddetta smania di immagine e di visibilità. Altri motivi non ne vedo. L'editoria è subissata da pubblicazioni inutili come queste: centinaia di libri usa e getta, buoni forse una settimana, bene che vada un mese. E poi? Poi niente. Cassonetto, sacco viola. Tra dieci anni il nome di molti di questi personaggi non se lo ricorderà più nessuno. Riscopriamo Macchiavelli, Hobbes, Mill, non questi signori prodighi, mi pare tanto, solo di strane strategie e di accordi da bassa cucina. Altro aspetto: spesso questi libelli richiamano concetti come "ripartire", "ricostruire", "tornare a...", come se si rifacessero ad una presunta età dell'oro che non c'è mai stata o se c'è stata è durata pochissimo (ancora questa favola del Boom economico e la Lambretta e il frigorifero? No, dai spero che l'oro non sia quello...). E' una notazione così: a me fa morire di rabbia questo ricorso al rimpianto di un passato che non esiste. Uno di questi indispensabili manuali recita bellamente nel sottotitolo "perché l'Italia deve tornare a pensare in grande". Sarebbe un bell'esercizio ritrovare il momento in cui abbiamo pensato in grande. Colonialismo? Oddio, speriamo di no.
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