Non si sa perché ma ogni tanto il monito arriva, un poco distratto, un poco distante. Abbassare, obliare, confondere. Ma sì, in fondo chi ce lo fa fare di urlare? Abbassiamoli questi toni. Ma dietro una frase così banale, così inutile in fondo, che cosa si cela? A me sembra tanto un desiderio di dimenticanza, di flaccida rimostranza di fronte al chiasso del volgo: basta casino per piacere, stiamo facendo cose importanti qui. Sfugge la sostanza di questo abbassamento, e mai nessuno che ne parli, come se, in fondo, fosse una questione di bon ton, un po' come il tè nel boudoir della dama. Forse qualche volta vale la pena di alzare la voce, quando, per esempio, c'è in gioco il destino della democrazia parlamentare, oppure la libertà di stampa, oppure la sacrosanta antipatia di tutti noi nei confronti della repubblica autoritaria. Ma la mano istituzionale di tanto in tanto si posa: abbassa la tua radio per favor. Paterna, padronale, rassicurante. Non importa quello che accade o non accade, basta non fare rumore, non "dare adito a polemiche". Meraviglioso il commento dell'onorevole: "Opportuno questo richiamo alla pacatezza dei toni". Ma se è una vita che ci raccomandiamo a vicenda toni pacati, fregandocene pacatamente del merito del contendere? Ma forse bisogna abituarsi a questa solfa. Siamo in pieno bon ton: è il come che trionfa sul cosa; la moina che soppianta la sostanza. Forse (altra dubitativa) la dialettica politica si basa su queste sottili alchimie, che sono giochi di parole, gabbie verbali in cui amiamo dimenarci, oggi come cinquant'anni fa. Oggi si dice qualche parolaccia in più, ma insomma, rispetto ai tristi speaker Rai anni sessanta non so quanta strada avanti si sia fatta in quanto a contenuti. Oggi si può anche litigare. Ma a bassa voce, mi raccomando.
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