Il problema dello stile, nella stesura di un testo, rappresenta uno scoglio consistente almeno quanto quello dell'idea di base: la scelta dello stile comporta un certo livello di consapevolezza, una certa permeabilità alle influenze, un concetto letterario piuttosto ampio. Ma che cos'è, in fin dei conti, lo stile? Si può provare a dare una definizione sintetica: il registro linguistico unito al respiro e al contesto culturale entro cui il testo nasce. La linguistica parla di preferenza di stilemi, di norma individuabili e analizzabili sulla base di un vettore stilistico, di cui si può accettare senza riserve la precisa definizione di Cesare Segre: "...quei tratti di stile, generalmente parole ed espressioni, che palesano più esplicitamente e direttamente caratteri e idee dominanti del testo. " Si potrebbe parlare a lungo di variazioni stilistiche e di approcci più o meno adeguati al problema; di certo la prima considerazione è che la questione dello stilema ha subito la sua maggiore e repentina evoluzione in ambito novecentesco, o al massimo tardo ottocentesco. Il concetto di lingua parlata, per esempio, mutuata dalla prosa teatrale, è un fenomeno abbastanza recente: la ricostruzione della lingua parlata è rimasta nell'ambito della sperimentazione linguistica fino agli anni cinquanta, tanto per dire. La frantumazione della prosa, da composto di subordinate a frammenti nominali, è un'operazione di pieno novecento. Un'evoluzione portata avanti principalmente da autori angolofoni, ma anche da italiani (penso al d'Annunzio del Notturno). La questione si presenta alquanto varia e di ardua classificazione. Innegabile è il fatto che lo stilema sia di norma riconducibile al genere di cui tratta il testo: vero per molti casi, ma non sempre; prendiamo H.P. Lovecraft, scrittore horrorifico e gotico ma dalla prosa bizantina, preziosa, sintatticamente e semanticamente complessa. Oppure Edgar Allan Poe, per il quale si potrebbe dire lo stesso. Esempi che oggi come oggi sono forse difficili da afferrare. La prosa che leggiamo oggi è figlia di un lento processo di riduzione che ha di fatto abolito le subordinate, privilegiando una struttura paratattica, che guarda con sospetto i periodi più lunghi. Da un lato è un bene (nessuno si esprime con subordinate del quinto grado) ma anche gli eccessi sono fastidiosi, e il periodare spezzettato di certi autori ne è la prova. Credo si stia giungendo ad un compromesso tra le varie istanze, o almeno è quanto io cerco di fare quando scrivo: abusare della prima persona, il presente storico tirato per centinaia di pagine sono derive che molti autori di oggi cercano per fortuna di evitare. Un'ultima notazione. Credo sinceramente che la buona narrativa americana della prima metà del novecento abbia avuto un'influenza benefica sulla produzione narrativa del resto dell'occidente. Hemingway, Dos Passos, Steinbeck, Sherwood Anderson, Fitzgerald ci hanno in un certo senso aiutato a ripulire la nostra lingua da molti cascami, ad indirizzarla verso il moderno. Un'operazione impensabile solo pochi decenni prima.
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