Può un film avere le stesse ambizioni di un romanzo? Credo che la risposta sia negativa. Un film deve avere ambizioni di altro genere. Né più alte né più basse, solo diverse. Ecco perché si parla di "riduzioni" cinematografiche quando ci si riferisce alla traduzione filmica della narrativa pura. Riduzioni, la semantica non inganna. Allora basta prendere in considerazione un altro tipo di discorso: il cinema per il cinema. Una storia cioè pensata e scritta per le immagini: una scrittura cinematografia, appunto. Il miglior esempio che mi venga in mente è Professione reporter di Michelangelo Antonioni, con Maria Schneider e un grande Jack Nicholson. Sarò di parte, perché è un film che amo molto. Ma l'esempio funziona, eccome, basta riferirsi alla trama: un reporter stanco (?) della sua vita la scambia con quella di un altro signore morto per cause naturali nella camera a fianco alla sua. Siamo nel deserto, in una zona sperduta. Il morto assomiglia in modo impressionante al reporter. Perché non farlo in fondo? Da qui tutte le conseguenze, disastrose. Il morto, per esempio, è un trafficante d'armi. Il resto è una lunga discesa nella disperazione, fino allo sconcertante epilogo. Non c'è una goccia di sangue, non c'è un'immagine cruenta. Eppure si muore dall'angoscia. Come in tutti i film di Antonioni, le parole sono pochissime. I dialoghi scarnificati. Questa è scrittura cinematografica. Se questa idea fosse stata trattata in forma di romanzo anziché di film non avrebbe funzionato: un romanzo ha bisogno, ovviamente, di parole, di descrizioni, di dialoghi. Il famoso piano sequenza del finale (quasi sette minuti senza stacchi) non sarebbe stato possibile da rendere a parole, così come l'ambiguità della Barcellona di Gaudì. Antonioni ci ha lasciato qualche anno fa, ma non credo gli sia stato riconosciuto quanto meritava. Sì, il tritume dell'incomunicabilità, e va bene. Qualche intelligente ha anche detto che tutto sommato era meglio Dino Risi, proponendo un paragone del tutto insensato. Questa mania del confronto. Ad Antonioni andrebbe riconosciuto il merito di aver inventato una scrittura cinematografica, dove al posto delle parole e della loro significazione, c'è l'immagine con il suo significante, il che porta il cinema ad un livello di indipendenza dalle altre arti che altrimenti non potrebbe mai avere. Ritorno al famoso piano sequenza, impossibile da dire in prosa. Forse in poesia, ma questo è un altro discorso che porterebbe molto lontano. La poesia può anche il silenzio, è vero, prendiamo Mallarmé per esempio, ma qui mi fermo: non basterebbe un saggio a dire di questo.
Si può concludere dicendo che Antonioni è arrivato dove gli altri hanno avuto paura, ha rischiato dove i più sono rimasti col cero in mano. Forse anche il maestro ha fallito, ma ce ne fossero di fallimenti così, dove tutta la tensione verso l'infinito è intatta, visibile.
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