ipotesi per un saggio

Ricomincio a scrivere in modo pubblico perché vorrei provare a ragionare ad alta voce su un argomento che vado sviluppando da circa quattro mesi in un quaderno rosso a spirale: il luogo comune. Prendo appunti, note di lettura, riflessioni personali. Che cos'è il luogo comune? La meta di un viaggio o la zona grigia in cui abita la distrazione? Finora ho trovato più domande che risposte. Risposte zero per la precisione, o forse mezza: sotto al fogliame della banalità si nasconde sempre una forma occulta di Potere. No, niente teorie della paranoia. Il Potere è quello che serviamo tutti i giorni, anche quando siamo convinti di fare quello che ci pare: sono le informazioni che vengono colate goccia a goccia nelle nostre vene con l'intento di renderci brave persone. Famiglia, Scuola, Istituzione. C'è una catena di montaggio della banalità che ha connotati formativi. Il buonsenso comune che sostituisce il ragionamento critico e surroga la capacità di discernere è la materia trascersale della formazione di Stato o se si vuole il cemento stesso di ogni patto sociale. Da qui, forse la natura ambigua del Banale. Non solo sconcerto filosofico di fronte al male che si incarna in una pratica impiegatizia, ma Male che diventa Bene perché così fan tutti; Male che diventa Bene perché "così si dice" e "così si fa". Quanto sia necessaria questa banalità affinché il concetto stesso di Società sia possibile è una delle domande inquietanti che agitano il percorso di questo libro non libro che ancora non ha preso forma. Ci sono degli elementi cardine attorno a cui ho sviluppato delle piccole ossessioni personali; sono parole calde, mantra, correlativi oggettivi che si annodano nelle ipotesi che passo al setaccio: Conformismo, Massa, Opinione. C'è un filo rosso che lega la possibilità di dire la propria con le parole a vanvera e la sindrome del gregge con la relatività di ogni Legge. Assiomi sacri sessant'anni fa che oggi sono il Male Assoluto, fondamenti sociali che oggi non contano più niente. Il tutto fuso nella retorica che ogni Stato impone alla massa come nucleo fondante di ogni realtà. Dalla cultura orale del periodo mimetico/poetico alla retorica della Famiglia: due estremi che a migliaia di anni di distanza pongono la verità costitutiva della vita nel culto della tradizione. E tutto questo senza una vera ragione per scrivere e senza un pubblico, ma anche senza un interruttore che possa interrompere questo ammasso di congetture.

in morte di Gabriel García Márquez


Muore Gabriel Garcia Marquez. Muore dopo un lungo periodo di fragilità e malattia. Il baffo, il sigaro, il piglio da Zapata gentile, e quel sentore di Latinoamerica aromatico come foglie di tabacco. Lo stile affollato, convulso che poi per le glorie della critica venne reclutato nelle fila del realismo magico era in realtà la materia di un modo di essere, una forma espressiva, che per un artista ha lo stesso valore del codice fiscale per un bravo compilatore di dichiarazioni di reddito. Per pochi altri scrittori lo stile è coinciso con la sostanza nello stesso modo tenero e barbarico con cui Gabo ha voluto raccontarsi. E allora la saga dei Cent'anni di solitudine, con il repertorio familiare dei Buendia, il decrepito decadimento del Patriarca nelle note dolciastre e stilisticamente imponenti dell'Autunno. Più racconti, reportage, osservazioni ai quattro angoli del mondo. Era uno scrittore nato con il giornalismo, ossia con curiosità e voglia di capire, ma con un fondo, un segreto ritmico della parola che andava crescendo in lui come le volute di una cattedrale gotica: la forma della parola nella sua veste più ricca di ridondanze e segni, di accenni e coloriture. E' stato un grande scrittore perché non si è limitato a imprimere il mondo come una carta carbone, ma da artista ha saputo ricreare un universo tutto suo, con i difetti e gli eroismi che servono a tenere in equilibrio tutti gli ecosistemi, anche quelli letterari. Chi lo ricorda solo per il Nobel commette un errore grossolano. Lo stesso Marquez divideva gli amici in due categorie: quelli conosciuti prima del Nobel e quelli conosciuti dopo. Non ci vuole molto a capire perché. Un grande scrittore? Sì. Un grande scrittore. Uno che rientra nel novero fatale che a torto o a ragione sopravviverà alla polvere del tempo per essere consegnato agli annali della letteratura come uno dei massimi del Novecento, e per ragioni che sono contigue e allo stesso tempo vanno al di là delle pompe accademiche che non tarderanno a palesarsi. Il ricordo di Gabo si inscrive nella memoria per la sua capacità di averci accompagnato, con saggezza, furberia, intelligenza, approssimazione, nel percorso di lettura di tutto un secolo e di molto altro tempo a venire: la sua arte è un testamento umano. E' umana. Non è un prodotto editoriale, e non è nemmeno un calcolo accademico. E' scrittura fatta per essere letta, e prima ancora materia umana che aveva bisogno di essere scritta. Il senso del suo insegnamento, se fosse solo questo, potrebbe già essere abbastanza. Il fatto che poi Marquez fosse un narratore di razza ha fatto il resto. Controverso, a volte ai limiti del comunicativo, ma sempre personale: con uno stile solo suo. Con molti e disgraziati emuli, ma con pochi eguali. In definitiva mancherà. Perché era libero. 

io non credo nei guerrieri

Non partirei dal brillante laureato che ha sfondato in qualche università inglese o americana (capisco l'America, ma la Gran Bretagna è un ex impero che traccheggia quanto o peggio di noi); non parlerei del coraggioso imprenditore del nord est; non metterei in sequenza i primi piani di un impiegato, di un fuochista ottuagenario, di una in impermeabile giallo sulla metropolitana, di un travet in coda sulla tangenziale dicendo che sono guerrieri (al massimo schiavi come me e come tutti, ma chiamiamo le cose con il loro nome). Non girerei nemmeno un corto dove il solido padre di famiglia fa gli straordinari per godersi la laurea del pargolo, perché mi fa venire in mente Flaiano quando diceva che il vero ignorante è quello che si consola pensando che tanto studierà il figlio. 
Non lo farò perché non ho mezzi di alcun genere per farlo, ma se fosse possibile raccontare l'Italia di oggi, se fosse possibile farlo senza retorica, senza auto elogi o auto denigrazioni, partirei dagli uomini che sono rimasti impigliati tra le reti. I falliti, i vinti, gli sconfitti. Non gli invisibili della retorica populista Mediaset, ma la schiera interminabile dei Mario Rossi in bancarotta esistenziale. Gente che non ce l'ha fatta, che si è arresa. Gente che ha perso e non si è rialzata. Gente sopravvissuta a se stessa. Gente che non ha smesso quando ha voluto. Gente che è andata a sbrendolo insieme a un paese intero, a una cultura intera. Non so se il paragone con i vinti di Verga sia adatto, ciascuno giudichi come vuole. 
Forse il paragone più giusto è un altro: il ragionier Fantozzi. Specie in quella sua frase drammatica e vera insieme: 
« ...Io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande "perditore" di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto - dico otto! - campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d'acquisto della lira, fiducia in chi mi governa... e la testa, per un mostro e per una donna come te. »
Veramente, non crediamo alla retorica del guerriero, perché se continuiamo a raccontarci di mitici recuperi e di grandi rimonte, se continuiamo cioè ad appoggiarci ad una simbologia calvinista che non è nostra, non andremo da nessuna parte. E' il ragioner Ugo il nostro referente. Quello con la targhetta Fantozzi rag. Ugo, anche se oggi il ragioniere è stato sostituito da una triennale in marketing. Il racconto non potrebbe che partire da Ugo, non dai guerrieri sulla tangenziale di qualche squallida pubblicità. Non dalla volgare felicità americaneggiante che con noi c'entra meno di niente. Se c'è un dato comune tra Classicità e Cristianesimo sta proprio nella sostanziale inesistenza del termine felicità, perché non è quella la partita. 
La partita è lì, nel momento della perdita. Gli uomini impigliati tra le reti. Quelli che perdono, di cui nessuno si occupa. Quelli che non hanno grande talento, che non hanno grandi idee, che non erano brillanti a scuola. Che non vogliono fare in cantanti, che non sono ricercatori in fuga all'estero, che non saprebbero nemmeno come fare per andarsene da questo paese. Che hanno smesso da un pezzo di credere alla paccottiglia dei sogni nel cassetto e a tutto questo ciarpame televisivo che ha inquinato le menti più insospettabili. Gli uomini impigliati nelle reti come l'ossatura della società, che se non recuperiamo in qualche modo, magari anche solo certificandone l'esistenza e la dignità, si sgretolerà come terracotta. Perso il senso di comunità, e quindi di società non restano che tanti esseri impauriti che si raccontano di essere guerrieri. Ma non è così, e questo spavento senza fine si annida come un tarlo nei retropensieri di quasi tutti gli esseri pensanti. Fu la tanto magnificata Margaret Thatcher a rivelare al mondo intero che per la politica conservatrice (che domina il mondo da decenni) "Una cosa come la società non esiste". Quindi la retorica del guerriero, la fraseologia bellica, lo slogan aziendale, hanno una precisa origine: il conservatorismo politico. 
Scrive Zygmunt Bauman: "I politici di ogni colore dicono chiaro e tondo che, data la forte richiesta di competitività, efficienza e flessibilità, non possiamo più permetterci reti di sicurezza collettive". 
Lo sfracello collettivo non è stato causato dagli uomini feriti, ma dai combattenti da pic nic, e da tutta la schiera di uomini senza mente che hanno pensato bene di credere alla pubblicità. 
Quindi Fantozzi. Per capire, per capirci. Fantozzi con i suoi "Servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo", Fantozzi con l'elegante visiera verde con la scritta Casinò Municipale di Saint Vincent. 
Ecco, se mai dovessi girare questo documentario partirei proprio da chi ha rischiato e ha perso tutto. Da chi non ha rischiato e ha perso comunque. Ma senza finali rocamboleschi: la gente di solito perde in silenzio, qualche volta nemmeno se ne accorge, perché non è un tiro a freccette. Perdi, e non lo sai, o se lo sai non sai il perché. Sei al palo, e basta. Non puoi appellarti a nulla, nemmeno al fatto che in questo paese non c'è meritocrazia, perché tu non meriti niente. Sei caduto e non ti sei rialzato. La fortuna non ti ha aiutato perché non sei stato audace. 
Ma senza il ricircolo di tutte le forze, anche di quelle a perdere che ripeto sono la maggioranza, non ci sarà possibilità di dignità. Non parliamo più di ricchezza o di benessere, parliamo di dignità. Non parliamo nemmeno di solidarietà, che è solo carità e coscienza sedata, parliamo di comunità. Parliamone prima che sia troppo tardi.

stop

IL BLOG E' CHIUSO FINO A DATA INDEFINITA.

GRAZIE.

A.T. 

un uomo chiamato Blatter

Secondo l'indefinibile Blatter, il calcio viene prima. Prima della povertà, prima di un popolo in lotta contro lo spreco di denaro pubblico. Prima, insomma, della realtà. E il bello è che nelle parole del vecchio padre padrone del calcio mondiale non c'è nessun tentativo di paradosso, nessuna provocazione: è davvero il suo pensiero. Il pensiero di uno dei tanti privilegiati eletti da nessuno aggrappati con i denti alla poltrona che ormai non hanno più nessun titolo per occupare. Un pensiero che nella senilità ormai avanzata lascia intravedere, come spesso accade, un infantilismo di ritorno, ma nell'istantanea deforme e indecente di una parodia. E allora la frase folle e bellamente irresponsabile di un anziano potente serve anche a gettare una luce sulla fitta trama di poteri che si intrecciano e si sostengono a vicenda nelle varie politiche mondiali. Economia, finanza, industria, ma anche calcio a quanto pare, che sotto la sua veste puerile e innocua nasconde la sintesi perfetta di tutte e tre le cose: economia, finanza, industria. Il calcio, e in senso lato lo sport se pensiamo al grande baraccone olimpico, rappresenta una delle grosse pedine dello scacchiere politico/affaristico di questo scorcio di epoca: un veicolo dal volto friendly che serve per fare altro. Blatter con i suoi modi disinvolti e la sua certezza di impunità, non fa che esercitare un potere, e lo fa nell'unico modo in cui il potere sa manifestarsi: in modo arrogante e anarchico. Ora si dice che Blatter, al pari degli altri vertici del calcio mondiale, sia fuori dal mondo, fuori dalla realtà, fatto probabilmente vero. Ma l'anziano manager non è certo più fuori dal mondo di tutti i papaveri dello sport che giusto un annetto fa si facevano promotori della candidatura italiana alle Olimpiadi, candidatura poi fortunatamente cassata dal governo Monti, che di fatto ha scongiurato un bagno di sangue finanziario e un grasso banchetto per la speculazione malavitosa. Essere fuori dal mondo è un privilegio di chi il mondo non è costretto a frequentarlo, di chi può permettersi di fare finta che la miseria e le diseguaglianze sociali esistano solo nelle raccolte fondi e nella carità organizzata. Di quella ristretta percentuale che può ancora contare su una liquidità spropositata anche in tempi di sprofondo come questi. Una ristretta percentuale che può permettersi di tenere in piedi un circo abnorme finanziandolo con quei soldi che tutti ci stavamo domandando dove fossero finiti.

dopo il fumo

C'era una volta B. Non bello, non colto, senza particolari competenze, ma grande istrione, grande improvvisatore e soprattutto grande venditore. Osannato come leader carismatico (mah...), addirittura indicato come l'iniziatore di un nuovo corso politico: quello dei partiti padronali. (Ricordo con terrore due sue amazzoni che non più tardi di tre o quattro anni fa si beavano in un talk show di come il loro capo fosse all'avanguardia in questo senso).  E così, con tanto fumo, l'intrepido imprenditore è riuscito a mettersi in tasca prima la destra italiana e poi tutto il paese. Distruggendo entrambe le cose. E ora che la polverina magica è finita, ora che le bugie sono andate a sbrendolo, il fumo si dirada, e scopriamo che non c'era niente. Niente ricchezza, niente novità. Solo un cumulo di fanfaluche, e tanta insipienza, quando non qualcosa di peggio. E ora fa quasi tristezza sentire i suoi lamentarsi - con non si capisce bene chi - che i voti li prendeva solo lui, B, e che questo spiega la disfatta del voto amministrativo. Pare a tratti che la destra italiana sia sul punto di riconoscere lo sbaraglio, ma è un'impressione fugace prima del solito arroccamento: servirebbe onestà intellettuale. Ma ormai i circolo vizioso è una trappola da cui questa destra non potrà più uscire, a meno di non riscriversi culturalmente e di buttare a mare tutte, ma proprio tutte, le scemenze di questi ultimi vent'anni. Dopo anni di scorciatoie, di miracoli e di altra fuffa variamente declinata, forse sarebbe ora di prendere il coraggio a due mani e cominciare da un semplice vocabolo: scusateci. Per poi ripartire da due o tre libri seri che non siano il prontuario Fininvest o altre carte protocollate dalle scuole televisive. Questa destra scoprirebbe che i partiti, anche di destra, non sono un affare personale, e che la politica non è la vinavil con cui il padrone incolla i cocci della sua disastrata esistenza. Ma bisognerà fare un po' di cose prima, e tutte agli antipodi della mentalità berlusconiana: farsi un po' di cultura, mettersi intorno a un tavolo a sviluppare delle idee serie e non i soliti slogan. Ma temo che il massimo che verrà fuori da questa attuale classe dirigente sarà il cambio del nome del partito. E l'hanno pure già fatto una volta. 

Voto Arjen Robben


Voto Robben perché non ha una triste storia alle spalle, e se ce l'ha non è andato a raccontarla a Roberto Saviano.
Voto Robben perché ha il fisico da calciatore, non da cavallo da monta. 
Voto Robben perché non è ambidestro.
Voto Robben perché non ha la media di un goal a partita.
Voto Robben perché non gioca in un campionato dove il capocannoniere segna 50 reti (e ditemi voi quanto può valere un campionato così).
Voto Robben perché non è un "I belong to Jesus". 
Voto Robben perché sa cosa significa perdere.
Voto Robben perché nonostante tutto lo massacrano di fischi.
Voto Robben perché non ama le cose semplici.
Voto Robben perché non lo candidano al Nobel per la pace. Nemmeno per provocazione.
Voto Robben perché ha un'onesta chierica.
Voto Robben perché non ha tatuaggi.
Voto Robben perché non fa la pubblicità dei Pavesini.
Voto Robben perché corre a 32 km/h senza tante scene.
Voto Robben perché quando segna non si toglie la maglia per far vedere gli addominali.
Voto Robben perché non scommette.
Voto Robben perché non si tira i calzettoni sopra alle ginocchia.
Voto Robben perché non piace ai giornalisti.
Voto Robben perché non convoca conferenze stampa. 
Voto Robben perché non è "l'erede di Maradona". 
Voto Robben perché non gioca a fare l'"esempio" in un mondo che è pieno di esempi edificanti e dove tuttavia va tutto alla malora.
Voto Robben perché in finale di Champion's ha segnato un goal così raffinato e così difficile che quasi nessuno l'ha capito.
Voto Robben perché li mette sempre nel sacco con la stessa finta, il che significa che non è mai la stessa finta. 
Voto Robben perché guardate la foto sopra.