Di solito scrivo di libri che mi hanno colpito, nel bene o nel male. Stavolta scrivo a proposito di un romanzo che mi ha colpito proprio perché non mi ha colpito per nulla. Curioso, ma tant'è. Si tratta di Territori londinesi, o London Fields a seconda delle edizioni, mostruoso affresco putrescente partorito dalla penna di Martin Amis, scrittore inglese di qualche talento e smisurata eccentricità. La storia se ho capito bene è più o meno questa: in una Londra di fine millennio (scorso), tre anime perse si incontrano. Sono una donna, il suo assassino, e un terzo incomodo. Seguono vicende sgangherate, con tentativi di introspezione ora patetici ora incomprensibili, lungaggini assortite e via discorrendo per cinquecento pagine abbondanti. La ricostruzione distopica (riferita cioè ad un presente alternativo e se possibile ancora peggiore di quello reale) è accennata qua e là, senza mai arrivare ad un punto decisivo, e sulla falsariga di questo universo indefinito, i personaggi si perdono in allusioni sessuali, chiacchiere, partite a freccette e bizzarre vicissitudini familiari. Un romanzo, un romanzo qualsiasi, di solito dovrebbe lasciar trapelare l'esigenza profonda, basilare che l'ha motivato; ecco, in questo caso l'operazione si rivela ardua: qual è il movente dell'autore? In base a quale calcolo o a quale frenesia ci racconta tutto questo? Non siamo di fronte ad una prosa incendiaria, non abbiamo a che far con una qualche post avanguardia, e allora con che cosa ci misuriamo? Verrebbe da dire con un immenso giacimento di parole tenute insieme con poche pretese e con pochissime idee, come nella peggiore tradizione anglosassone, che, anche nelle sue figure più celebrate (penso chissà perché a Philip Roth), cede alla tentazione del tutto, ficcando qualsivoglia frattaglia nella trama al solo scopo di ingrassarla. Per renderla interessante? Per dare la possibilità a qualche critico di gridare al capolavoro psicologico? Domande inevase, che restano sul bordo del bicchiere come una patina di sporco.
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