In una società ottusa e ipocrita come poche altre - quella italiana degli ultimi tempi - il meno che si possa fare è ripetere solfe, anche dieci volte al giorno, per darsi la carica, nascondere i problemi, raccontarsi l'ennesima favola. La sai l'ultima? La storia del talento. I ragazzi con il talento, i giovani di talento, i talenti che fuggono. Ma quanto talento che abbiamo. Che cos'è il talento? Beh, questo non è ben chiaro. Cantare a rotta di ugola in un programma televisivo? Può darsi, e allora dai, ammantiamo di credibilità anche l'ultimo dei contenitori per massaie in secca: chiamiamo professori dei tizi dietro un bancone e facciamo cantare un po' di ragazzi delle periferie, perché se il talento è sofferto, lo sanno anche i sassi, vende di più. Mettiamo poi che dalla fucina di talenti di non so che fuoriesca a mo' di eccedenza involontaria una qualche figliola predisposta, tra le varie, anche a occupare un seggio in politica: vai col tango, perfetta. Eccola là: pagina istituzionale, pagina Facebook, curriculum, perdiana, è laureata, che avete ancora da dire, sporchi invidiosi? E poi il meglio: "E' madrelingua inglese", e se la prima lingua di socializzazione non è l'inglese, come vorrebbe una sinistrorsa e pedante definizione linguistica, pace e amen, il messaggio è arrivato comunque. Che resta da fare? Ah, sì, scappiamo all'estero e poi inviamo un po' di mail ai giornali: Italia, fai schifo, che sarebbe poi l'aggiornamento meno romantico e più postindustriale del patria ingrata non avrai le mie ossa. Le vie del talento sono infinite; tutti ne hanno almeno un poco, tutti ne parlano, convinti di possederne una certa dose. Ci sono anche i portatori sani di talento: i genitori, specie quelli tendenti al mediocre, certi però che dai loro lombi siano scaturite delle creature geniali, o almeno meritocratiche: figli dottori, ingegneri, astronauti, fisici, male che vada cantanti, toh, giusto per rimanere in tema. Questi genitori non provano il minimo desiderio di avanzare di un millimetro sulla strada del sapere, ma si ripromettono di far studiare il figlio, per fargli ottenere il posto fisso e vantarsene dal pizzicagnolo. Era la definizione che Flaiano dava dell'uomo mediocre. Ma di talento, potrei aggiungere.
i conformisti
sabato 29 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Credo che il frutto più malato degli ultimi vent'anni di malgoverno, al di là dello spregio di qualsiasi regola e di un conformismo pauroso, sia il totale disprezzo della cultura, fattore che, alla lunga, produrrà anche i mostri peggiori. Nella favola anni cinquanta di cui stiamo vivendo le ultime, penose battute, per la cultura c'è stato uno spazio inconsistente: non ha mai fatto parte dei piani del governo di centrodestra: sarà meglio che ce ne facciamo una ragione. Mai un riferimento colto, mai una politica volta ad avvicinare le persone comuni al patrimonio artistico italiano, mai un accenno alla qualità intesa come possibilità di crescita intellettiva. L'eccellenza, altra parola abusata, è sempre stata applicata alla produttività più immediata e scontata; la creatività è stata appannaggio degli stilisti e di qualche strambo designer. Ma la cultura nella sua forma più complessa e articolata è stata sistematicamente elusa, dimenticata, relegata all'ambito delle stranezze improduttive, dei vezzi per buoni a nulla. E con che risultati, mi viene da dire. D'altra pare, in questi lunghi anni, non ho mai sentito mezzo ministro adoperare qualche riferimento un pochino alto, rifarsi a qualche concetto che non fosse elementare e ripreso a viva forza dal frasario imposto dal capo: basta sentire i balbettii dei reggenti di pubblica istruzione e cultura per rendersi conto della miseria verbale, concettuale e finanche semantica in cui versano i nostri. Una forma di ristrettezza mentale e di conformismo che impressiona e lascia sgomenti, perché ci mette di fronte in modo inequivocabile a come la mancanza di cultura produca opinioni in serie, azzeramento delle facoltà critiche e, diciamocelo, anche un'insopportabile ripetitività: sempre e solo ovvietà, ripetute alla perdizione. Il fatto è che questo centrodestra ha prodotto quello che sa produrre: una sottocultura televisiva, da Bagaglino, dove la pluralità dei modelli è stata cancellata, la conoscenza derisa e sbeffeggiata, i libri messi lì come arredamento, intonsi. Le lauree sono state la foglia di fico di questa classe dirigente: dottore di qua, dottoressa di là e sotto il vuoto più totale, un vuoto che ci ha resi sprovveduti e manovrabili, pedine in un gioco spietato, rovinosamente inutile.
Niente da nascondere, di Michael Haneke
venerdì 28 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Una coppia borghese benestante riceve per posta delle videocassette in cui la loro vita è spiata. Nessuna rivendicazione, nessuna ragione apparente. Solo un lungo e doloroso lavoro di scavo aprirà forse uno spiraglio. Niente da nascondere, diretto da Michael Haneke, si pone come uno dei film più importanti degli Anni Zero: ritratto sobrio ed essenziale delle fobie inconfessate di un'intera classe sociale, marasma affettivo raggelato, reso con pochi, magnifici gesti della macchina da presa: lunghe riprese con camera fissa, silenzi, dialoghi. L'assurdo entra nella vita di questa coppia in modo sinuoso, lento, senza particolari sussulti eppure con un movimento che appare sempre più inesorabile, e quindi minaccioso. In una Parigi scabra e marginale, che potrebbe essere tranquillamente scambiata per qualsiasi altra città europea, si snoda una vicenda familiare che poco o nulla concede alla riconciliazione, o se si vuole ad una purificazione dopo il dolore: tutto quello che accade è inscritto nel cerchio delle cose, un movimento macchinale che soffoca corpi e azioni senza nessuna ragione precisa, solo perché così deve essere, perché portiamo l'assurdo nel sangue, perché in fondo non esistono spiegazioni. Il film di Haneke cela nelle pieghe del non detto i tratti caratteristici di una società, quella occidentale, sempre più smarrita in se stessa, nei propri fantasmi, nei traumi che nemmeno l'ipocrisia è riuscita a cancellare, e lo fa attraverso una storia paradigmatica, che nella sua forma minimale dice molto di più di quanto non possa fare un ponderoso trattato. Niente da nascondere è paragonabile ad un apologo, ad una dipinto di Guttuso, di Otto Dix, ad una presa diretta del reale che però al tempo stesso lo trasfigura, in una presa d'atto di noi stessi e della nostra impotenza che è ugualmente minimale e tragica. E' un film necessario, da vedere, anche per operare un confronto tra cinematografia francese e italiana sul tema della borghesia, caro ad entrambe, ma in cui i cugini d'oltralpe dimostrano una superiorità di mezzi espressivi e narrativi da fare paura. Daniel Auteuil si conferma uno degli interpreti più significativi della sua generazione.
Niente da nascondere | |
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Titolo originale | Caché |
Paese | Francia/Austria/Germania/Italia |
Anno | 2005 |
Durata | 117 min |
Colore | colore |
Audio | sonoro |
Genere | drammatico, thriller |
Regia | Michael Haneke |
Sceneggiatura | Michael Haneke |
Casa diproduzione | Les Films du Losange, BIM Distribuzione, Wega Film, Bavaria Film, Le Studio Canal+, France3 Cinema, Arte France Cinema, Eurimages Fund of the Council of Europe, CNC |
Fotografia | Christian Berger |
Montaggio | Michael Hudecek, Nadine Muse |
Effetti speciali | Philippe Hubin |
Musiche | Jean-Paul Mugel, Jean-Pierre Laforce |
Scenografia | Emmanuel de Chauvigny,Christoph Kanter |
Costumi | Lisy Christl |
Interpreti e personaggi | |
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London fields di Martin Amis
giovedì 27 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Di solito scrivo di libri che mi hanno colpito, nel bene o nel male. Stavolta scrivo a proposito di un romanzo che mi ha colpito proprio perché non mi ha colpito per nulla. Curioso, ma tant'è. Si tratta di Territori londinesi, o London Fields a seconda delle edizioni, mostruoso affresco putrescente partorito dalla penna di Martin Amis, scrittore inglese di qualche talento e smisurata eccentricità. La storia se ho capito bene è più o meno questa: in una Londra di fine millennio (scorso), tre anime perse si incontrano. Sono una donna, il suo assassino, e un terzo incomodo. Seguono vicende sgangherate, con tentativi di introspezione ora patetici ora incomprensibili, lungaggini assortite e via discorrendo per cinquecento pagine abbondanti. La ricostruzione distopica (riferita cioè ad un presente alternativo e se possibile ancora peggiore di quello reale) è accennata qua e là, senza mai arrivare ad un punto decisivo, e sulla falsariga di questo universo indefinito, i personaggi si perdono in allusioni sessuali, chiacchiere, partite a freccette e bizzarre vicissitudini familiari. Un romanzo, un romanzo qualsiasi, di solito dovrebbe lasciar trapelare l'esigenza profonda, basilare che l'ha motivato; ecco, in questo caso l'operazione si rivela ardua: qual è il movente dell'autore? In base a quale calcolo o a quale frenesia ci racconta tutto questo? Non siamo di fronte ad una prosa incendiaria, non abbiamo a che far con una qualche post avanguardia, e allora con che cosa ci misuriamo? Verrebbe da dire con un immenso giacimento di parole tenute insieme con poche pretese e con pochissime idee, come nella peggiore tradizione anglosassone, che, anche nelle sue figure più celebrate (penso chissà perché a Philip Roth), cede alla tentazione del tutto, ficcando qualsivoglia frattaglia nella trama al solo scopo di ingrassarla. Per renderla interessante? Per dare la possibilità a qualche critico di gridare al capolavoro psicologico? Domande inevase, che restano sul bordo del bicchiere come una patina di sporco.
giochi di parole
martedì 25 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Le parole sono un'arma potente: se adeguatamente adoperate, lo sappiamo, possono sostituirsi alla realtà, o perlomeno piegarla, manipolarla, fiaccarla. Abbiamo parole per tutto, parole che definiscono tutto, parole che di ogni lingua e linguistica che si assimilano al nostro modo di comunicare e che servono a rendere concetti e idee sempre più nello specifico. Viviamo una sorta di titanica opera aperta, sempre in aggiornamento, che le possibilità di un mondo globalizzato potenziano in modo esponenziale. Eppure in molti casi i concetti stessi che queste parole evocano, o pretendono di definire, in fin dei conti sfumano, vengono meno. Prendiamo per esempio un termine come "libertà": che ne è stato fatto? Viene usato come slogan da partiti di ispirazione personale e autoritaria, viene sbandierato da quelle potenze (economiche) occidentali, che si insediano militarmente in un paese per fare non si capisce bene cosa. Meritocrazia? Non esiste. Viene citata di continuo, nel borsino delle parole abusate sta registrando una risalita inarrestabile, ma nasconde un vuoto: sono un pugno di sillabe che colmano un'assenza. Il giochino potrebbe continuare a lungo: il bene comune che cos'è, per esempio? La legalità invece? Il sospetto che nasce è che ci sia un'immane dose di malafede nel diffondere questi mantra, quando invece regna la perfetta consapevolezza che le magagne sottese ai concetti rimarranno tali: sempre magagne, intrallazzi, opacità. Come regola generale e un po' sommaria potremmo semplicemente constatare che tanto più una parola viene abusata, tanto più dietro di essa c'è un'assenza, che nemmeno le tonnellate di cattiva informazione, di censure di regime e di pochezza del giornalismo possono celare in eterno.
per esempio
venerdì 21 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
All'ennesima volta in cui ho sentito pronunciare la fatidica frase: "Che esempio è per i giovani?" Mi sono sentito male. Vorrei riuscire a rendere con parole semplici un concetto abbastanza ostico. Vorrei dire: un giovane di cultura media o medio alta non va a cercare esempi nella scatola televisiva, nei rotocalchi e nemmeno nei giornali. Di esempi, per fortuna, l'umanità ne ha prodotti parecchi nel corso dei millenni, e tutto ciò di cui abbiamo bisogno, in termini di formazione, è già pronto, pubblicato e disponibile. Non c'è nessuna necessità di andare a scovare emblemi di buona umanità nel curriculum di un politico o di un giornalista asservito al potere. Gli esempi davvero alti sono altrove, e dispiace che qualche megafono televisivo insista nel fare la paternale ripetendo con fare contrito: "Ma gli esempi per i giovani dove sono?" Ci sono, basta essere in grado di leggere: da Platone a Marco Aurelio, da Montaigne a Proust, siamo pieni di esempi, in tutti i campi, in tutti i settori, perché per fortuna il sapere è ormai condiviso, fruibile da chiunque. Quindi la conduttrice televisiva che con fare saccente e voce querula pone la fatidica - e retorica - domanda, commette un atto di presunzione duplice: sia perché suppone di dover indicare in qualche modo la via, sia perché, implicitamente, ritiene di aver vissuto in un'epoca (gli anni settanta, diciamolo subito e togliamoci il pensiero) in cui invece gli esempi c'erano e in abbondanza. Non è necessariamente così. E se proprio di crisi si tratta, se proprio di decadenza si tratta, allora viviamola per quello che è, senza rifarci continuamente ad un passato che non solo è morto e sepolto, ma con ogni evidenza è anche responsabile del banchetto selvaggio che ha esaurito a suo tempo le risorse pubbliche. Qualche volta, tra una celebrazione e l'altra del passato, bisognerebbe ricordare anche questo. Così, giusto per fare un esempio.
Gli angeli del male
giovedì 20 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Ho visto il nuovo film di Michele Placido, Vallanzasca - Gli angeli del male, cercando, per quanto possibile, di mettere tra parentesi ogni polemica preventiva, sia per una questione di salute mentale, sia per evitare di guastarmi la visione del film alla luce di pregiudizi. La trama della pellicola è nota: in un susseguirsi di sangue e violenza, viene narrata la vita criminale di Renato Vallanzasca, celebre bandito milanese a cavallo tra gli anni settanta e ottanta: una lunga corsa verso l'inferno, una cavalcata nelle tenebre lastricata di morti ammazzati, rapine, sequestri. Il personaggio che Placido tratteggia è quello di un uomo che ha consapevolmente scelto il male, pur essendo pienamente in possesso delle proprie facoltà mentali e non provenendo da un retroterra familiare disastrato (alcune delle scene più toccanti riguardano proprio il rapporto tra Renato e la i genitori). Il film è veloce, incalzante, segue in tutto e per tutto quei principi stilistici che Placido ha adottato nei suoi ultimi lavori; non è per nulla un racconto agiografico, né tantomeno la santificazione di un demone: viene posto l'accento unicamente sulla, chiamiamola così, coerenza del personaggio, che in nessuna circostanza ha mai cercato sconti o inscenato rumorosi e tardivi pentimenti allo scopo di ottenere sconti o favori. Punto. Il resto è una folle corsa. Folle e, bisogna dirlo, un po' superficiale: lo sfondo storico di quegli anni passa in secondo piano, i rapporti tra mala milanese e altre organizzazioni criminali sono omessi, le motivazioni di fondo vengono sistematicamente eluse, e tutto sembra avvenire sotto la luce di una inquietante e ottusa casualità. I crimini si susseguono, il computo degli anni di carcere aumenta (fino allo sconcertante totale di quattro ergastoli e centinaia di anni di galera), ma, secondo la logica del film, senza un vero perché. E' un buon film, molto godibile, ma non un capolavoro. Peccato perché gli ingredienti c'erano tutti: una storia molto forte, una fotografia eccezionale e suggestiva, un protagonista, Kim Rossi Stuart, che ha dato prova di una sottile capacità mimetica. La sua è forse una delle interpretazioni migliori degli ultimi anni di cinema italiano: così sofferta, così viscerale, così addentro alla chimica del personaggio. Gli angeli del male resta un'incompiuta. Di valore, di carattere, ma un'incompiuta: un difetto che solo il tempo potrà trasformare in un successo a venire o in un'irrimediabile colpa.
lo scempio
martedì 18 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Tra i vari disastri causati dal governo con la complicità effettiva delle opposizioni, se ne aggiunge uno, sempre dimenticato ma di dimensioni sconcertanti: la questione ambientale. In un crescendo di rabbia e sgomento, ho letto l'articolo di Carlo Petrini (qui il link) in cui, con la disarmante forza delle cifre, viene tratteggiata la situazione in cui versa l'Italia in questo momento: c'è poco da stare allegri, siamo ad un passo dal baratro. E non solo o non tanto per l'insipienza politica e la sconfinata arroganza di questo centrodestra, ma per tutto un sistema politico amministrativo che ha taciuto, si è accodato, docile, sottoscrivendo l'assassinio del bene pubblico. Perché l'acqua è pubblica, il suolo è pubblico, il territorio è pubblico. Un pugno di signori eletti non si sa bene come ha disposto, in tutti questi anni, del patrimonio comune come se si trattasse di una proprietà personale: un gigantesco mostro edilizio, mosso dai più spietati e infimi interessi personali, che sta letteralmente divorando il paese. Nel silenzio più totale. Una porzione di territorio pari a Lazio e Abruzzo messi insieme è sparita, inglobata nel calcestruzzo, nel giro di qualche anno: un'immagine che fa rabbrividire. Altro che buon governo, altro che valori. E forse proprio per questo motivo le nomine politiche delle cariche pubbliche risultano ancora più insopportabili, perché, ormai è acclarato, non offrono (non hanno mai offerto) alcuna garanzia qualitativa, ma solo un sordido sottobosco di clientelismo e favore, una palude malsana di interessi incrociati, di comprevendite a danno della Nazione. Il risultato: lo stuolo di capannoni, centri commerciali, inguardabili palazzacci, immonde colate di cemento che possiamo vedere intorno a noi ogni giorno. In cambio, ovviamente, il nulla: non un'infrastruttura che serva davvero, non un'opera pubblica degna di questo nome. Autostrade inadeguate, rete ferroviaria imbarazzante, totale emergenza abitativa. E i posti di potere dati alle cortigiane in cambio dei loro favori. Allegria.
a fondo
domenica 16 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
L'ultimo capitolo della patetica pochade in cui il nostro paese sta annegando, è quasi scontato, al limite del banale. Il Nostro è incorreggibile, e tanto vale che ci rassegniamo a questo desolante dato di fatto; non basteranno cortei, sollevazioni popolari, prese di posizione: il personaggio è questo e la sua corte dei miracoli resta invariata. Invariato resta anche il consenso di cui gode, ma qui si apre un capitolo che è meglio lasciare dov'è. Ora, consideriamo per un attimo l'impossibile, ossia che il Nostro cada per colpa di questa specie di puttanopoli sardanapalica, per questa sottospecie di lupanare smisurato e aperto più o meno a tutte le peripatetiche disponibili su piazza (o viale o vicolo o carrugio): a me quasi dispiacerebbe. Dico quasi perché in fondo ne sarei lieto, ma, insomma, con un briciolo i realismo bisogna pure ammettere che il vero motivo della Sua disfatta dovrebbe essere un altro: il suo fallimento politico e umano; il non aver in buona sostanza combinato nulla in quasi vent'anni di promesse e cialtronerie; l'aver massacrato i cervelli degli italiani con la paccottiglia televisiva; l'aver ridotto la politica ad un fatto privato, per squali, per speculatori; l'aver infarcito la politica stessa di figuri di basso profilo; l'aver tentato di instaurare un regime semiautoritario a sfondo televisivo. Il tutto condito da figuracce internazionali, da palle di ogni genere, da battute indegne del Bagaglino, da parentopoli, da un'evasione fiscale fuori controllo, da uno sbaraglio culturale senza precedenti nella storia repubblicana, da un divario Nord Sud mai così netto e inaccettabile, dalla mancanza di qualsiasi pudore e di qualsiasi senso di comunità, di Stato, di Unità nazionale. Questo dovrebbe essere il motivo della sconfitta. A quanto pare invece le ragioni che più prudono all'opinione pubblica sono altre. Tra i comandamenti quello che interessa di più, da che mondo è mondo, sono gli atti impuri.
già 10?
venerdì 14 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
E così Wikipedia ha compiuto dieci anni. Non è un traguardo da poco. Dieci anni di informazione libera, gratuita, aggiornabile, smentibile, confrontabile, il tutto in tempo reale, sotto la supervisione di quasi 80 milioni di utenti che tutti i mesi la consultano. Non è l'Enciclopedia Britannica, non è nemmeno la Treccani: non ha (ancora) il corredo storiografico, scientifico e filologico che si compete ad una pubblicazione che aspiri a diventare di riferimento, ma insomma, la strada più o meno è tracciata: d'altra parte Wiki riflette su di sé tutti i grandi pregi e le grandi contraddizioni della rete, strafalcioni e polemiche compresi. Ciò che conta, una volta tanto, è il riscontro percentuale: quali e quanti sono gli errori a fronte delle cose giuste e documentate? Credo che il computo finale sia largamente a favore della principale enciclopedia di internet, la sola che in questi due lustri abbia saputo unire praticità a completezza, versatilità a rigore. Non era una sfida facile in anni di pressapochismo e rapido consumo di fatti e informazioni, soprattutto se si pensa che la titanica impresa lanciata da Jimmy Wales è un'opera di volontariato puro, di pura e semplice condivisione di informazioni, sulla scorta di quello spirito americano ancora buono e genuino. Nel pantano degli Anni Zero, l'applicazione tecnologica si è rivelata ancora una volta molto più avanti delle lente retroguardie della politica: laddove regna incontrastato lo spirito burocratico, cartaceo, pachidermico, il web ha saputo sparigliare le carte, autogestendosi, ritagliandosi la propria isola di indipendenza, contro e in netta opposizione alle faccende di apparato. Non un'impresa di uomini al servizio delle macchine, ma un'impresa di uomini in mutuo soccorso, dove la macchina, la techné, rimane il prezioso tramite, il mezzo grazie a cui realizzarci meglio, ma niente di più. Quasi un'applicazione involontaria ma quantomai lieta delle famose leggi di Asimov.
il sottoscala
martedì 11 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Ieri sera navigavo a vista tra i numerosi e perlopiù inutili canali del digitale terrestre; ad un certo punto sono incappato in una trasmissione che più di altre mi ha colpito per la qualità superiore delle luci e della fotografia. Ho ascoltato di che cosa si trattasse: era un programma in elogio di un noto chef italiano, con testimonianze, interviste, resoconti e per finire un bello spot per il neonato locale dell'illustre gastronomo. Niente di male, c'è molto di peggio, anche se la deriva che la cucina sta assumendo è di per sé inquietante, visto il proliferare di libri e trasmissioni, quasi che i fornelli dovessero sopperire ad una mancanza, ad una carenza, ma questa è un'altra storia. La trasmissione, dicevo, non era neanche tanto male, se non fosse che dalle parole delle eminenze giornalistiche e culinarie interpellate, trapelava un tono quasi intellettualistico, da conciliabolo di educande: un tono che poco o nulla ci azzeccava con una salsa al radicchio e un tortello di zucca. Un tono che presagiva qualcos'altro: uno steccato netto e inavvertito con il mondo reale. Questi signori bene educati, questi giornalisti che viaggiano da un ristorante all'altro in nota spese, discutevano di primi e secondi come se fosse questo lo snodo nevralgico attraverso cui passerà la nostra società per dirsi moderna o meno, civile o meno, evoluta o involuta. In un crescendo di prendersi sul serio iperbolico, e quindi, in definitiva, comico. Sì, perché quando tra un'opinione e l'altra sbuca il critico d'arte che paragona un'insalata ad una risposta alla transavanguardia e al postindustriale, significa che qualcosa si è interrotto o, per contro, si è dilatato tanto da perdere di senso. Parlavano della vera Milano, la Milano della Scala, dei salotti buoni, del "risotto del dopo opera", ma che Milano è? Dove vivono questi signori? In un mondo che non esiste, o che esiste solo per una élite economicamente privilegiata. Economicamente, nemmeno culturalmente, perché qualsiasi parvenu si gode questa Milano ancora da bere, quindi smettiamo di girarci intorno e non parliamone più.
antilibri
domenica 9 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Ho avuto modo di osservare, in questi giorni, la massiccia campagna promozionale di due libri, quelli di Daria Bignardi e Luciana Littizzetto. Stelle televisive che non disdegnano di pubblicare qualcosa di tanto in tanto. Non ho mai letto nessuna delle loro opere, e dirò anche, a dispetto di ogni deontologia critica, che non mi importa di farlo. La domanda che mi sorge spontanea è un'altra: perché queste due signore, nonostante il successo e i relativi soldi (niente di male, tutt'altro), sentono il bisogno di massacrare anche la forma scritta? Perché? Che bisogno c'è di aggiungere alle già numerose ore televisive degli altri spazi in cui pubblicizzano il loro libro, pubblicato peraltro da case editrici così grosse e potenti da non necessitare di altre forme promozionali? In un mercato già ampiamente intasato da chiacchiere di poco valore, da istant book imbarazzanti scritti da politici, presentatori televisivi e divi dello sport, non si avvertiva anzi, meglio, non avvertivo proprio il bisogno di vedere ulteriormente queste signore in tv, a parlare di sé, a rispondere a domande compiacenti come se fossero scrittrici, come se stessero svelando al mondo il segreto della loro arte. E non mi interessa andare contro ad amici e parenti che stimano la brava e spassosa Littizzetto e che certamente tenteranno di giustificarla adducendo scuse un po' patetiche del tipo: lo fanno tutti, che male c'è, però fa ridere. No, non sono disposto a farlo, perché ogni pagina che sprechiamo, ogni porta che chiudiamo in faccia ad un autore emergente per regalare un altro po' di ribalta a chi è già potente e scrive per puro e semplice diletto è un delitto. Contro noi stessi, contro la buona editoria. Sono persone potenti, non illudiamoci che siano figurine innocenti con il viziuccio di scarabocchiare qualche pagina di tanto in tanto. Non scrivete più signore, per piacere: tanto si sa che non lo fate perché lo sentite nel sangue, dunque occupatevi di ciò che avete sempre fatto, che vi riesce tanto bene e che è già di per sé una fonte economica più che soddisfacente. Non scrivete più signore, o se proprio non potete farne a meno affidatevi a qualche casa editrice artigianale: non avete bisogno di altra gloria, ma soprattutto noi non abbiamo bisogno di quello che scrivete.
un mondo senza
giovedì 6 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
Non mi stanco mai di vedere documentari di guerra. Al fondo di tutto credo che ci sia un'inguaribile sensazione di perdita. Ci sono delle motivazioni che non riesco a trovare nello sconquasso di un conflitto, sia esso mondiale o locale. Prendiamo per esempio la Seconda Guerra: una strage immane; di militari, ovviamente, ma anche e soprattutto di civili, di prigionieri. Non bastano le motivazioni economiche per giustificare un disastro storico e umano di tali proporzioni: intervengono per forza di cose altri elementi che la storiografia ha provato, con alterne fortune, ad individuare, senza tuttavia giungere a risposte definitive e accettabili sui perché della barbarie nazista, sulle radici profonde dell'odio razziale, della logica dello sterminio. Fascismo e Nazismo. Ma anche Comunismo Sovietico, con l'orgia di sorda violenza che ha caratterizzato lo stalinismo prima e la tremenda stagione della Guerra Fredda poi. Solzenicyn insegna. La folle guerra intrapresa dal Giappone, i suoi campi di prigionia, ma anche le violenze dei vincitori sui vinti. Non sono avvenimenti lontani nel tempo, non sono episodi legati ad un passato tenebroso e remoto: sono fatti maledettamente vicini, troppo vicini, che ancora ci guardano con occhi sbarrati e vuoti, occhi che riflettono su di noi tutta l'enormità di quel buco nero in cui l'Europa si gettò a capofitto e da cui riemerse solo al prezzo di un bagno di sangue senza precedenti. E parliamo di un periodo in cui il sapere dell'umanità era praticamente quello di oggi: c'erano già stati Kant, Hegel, Montaigne, Leonardo da Vinci, Galileo e via di questo passo. Potremmo allora dire che la barbarie si è dispiegata in tutta la sua bestialità nonostante la luce di una cultura che aveva già infuso all'Europa i tratti distintivi del suo carattere. Sopratutto per questo motivo la guardia non può mai essere abbassata, dando per scontati e acquisiti dei diritti, delle garanzie. Riflessione ai limiti dell'ovvio forse, ma la dismisura tra il bello prodotto dall'umanità e l'inferno che nello stesso tempo la stessa umanità è in grado di produrre è qualcosa di indicibile. La cronologia nuda e cruda è un metro di giudizio ampiamente insufficiente se pensiamo che Les Fleurs du mal di Baudelaire precede di quasi settant'anni il Mein Kampf: un arco di tempo in cui la ragione scissa da ogni regola etica ed umana ha generato dei mostri grandi quanto tutto il mondo.
La folie Baudelaire di Roberto Calasso
martedì 4 gennaio 2011
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Ariberto Terragni
La folie Baudelaire non è solo una narrazione, ma una ricerca, una ricostruzione, l'affresco di un periodo di storia letteraria. L'autore prende spunto da Baudelaire per parlare di tutto un mondo, quel monde o demi monde che ha vissuto il suo splendore e la sua rovina tra il protosimbolismo e la sua decadenza sul finire della belle epoque. Quello che Roberto Calasso ci propone è un viaggio, con le sue tappe, i suoi approdi e la sua conclusione: Baudelaire è il nome che fa brillare il circuito, ma i personaggi sono molti: Ingres, Delacroix, Mallarmè, Valéry, Rimbaud... ci sono nomi noti della grande cultura e nomi meno noti, destinati all'oblio o se si vuole a quella nicchia in cui il tempo costringe l'artigianato di genio, come quello dell'illustratore caro a Baudelaire. Il tono del libro è divagante, prende vie inaspettate, può concedere un capitolo intero alla descrizione minuziosa di un sogno di Baudelaire - quello seducente e sulfureo del museo bordello - e saltabeccare con grazia da un artista all'altro, dall'interno dello studio di Degas al catalogo di un Salon parigino. Ciò che ne viene fuori è un mondo perduto in cui si è tentato di realizzare un sogno troppo alto: quello di una piena coincidenza tra vita e arte, tra etica ed estetica. Per un po', questa visione si è concretizzata, suggerisce l'autore: in modo confuso, totalizzante, talvolta estremo. Baudelaire rimane il simbolo di questo tentativo, l'incarnazione stessa di quel male di vivere che si sarebbe accompagnato, di lì in poi e in modo inscindibile, con il concetto stesso di modernità. Ma qui si apre una voragine: che cos'è la modernità? Le risposte sono troppe e troppo complesse. Possibile definire Baudelaire un moderno? Proprio lui che scriveva in alessandrino e il cui verso sembrava la traduzione di un testo classico? L'alchimia, proprio per l'assonanza perfetta di certi momenti storici, è stata forse possibile; ma attenzione a considerare Baudelaire un maestro: non lo fu né volle esserlo. Un eretico, un incendiario, un provocatore, piuttosto. Soprattutto, un uomo di finissima sensibilità artistica, espressa tanto nei celebri Fleurs du mal, quanto nelle numerose prove critiche dedicate all'arte.