Via Gemito è una strada di Napoli. In una palazzina anonima si svolge la vita di una famiglia come tante. La voce narrante è il figlio maggiore, Mimì, che ormai adulto racconta la sua saga familiare, incentrando gli eventi attorno a Federì, suo padre, "principe della strafottenza", figura ingombrante e patetica, tenera e violenta. Tra le mura del piccolo appartamento si snodano le vicende tutt'altro che eroiche di una famiglia nata dalle ceneri della guerra, tra povertà e difficoltà di ogni genere. Federì è un pittore, sente dentro di sé la vocazione dell'artista, e in ragione di questa supposta superiorità vessa la moglie Rusiné, donna semplice, accusata dal marito di essere un freno al suo luminoso destino artistico. Le conseguenze di questa tensione cadranno sui figli, in particolare su Mimì, il più sensibile. La trama, molto sommariamente, potrebbe essere questa. Eppure, in Via Gemito, c'è anche molto di più: è un romanzo di detti e contraddetti, di passioni brucianti e non dette, di parole trattenute, di rancori maturati a lungo e mai confessati. Mimì matura negli anni una vera e propria ossessione nei confronti dell'odiato padre: è la pietra di paragone per ogni suo ragionamento, il suo antimodello che a tratti, inconfessabilmente, diventa l'esempio da seguire. Dopo libri incentrati sulle vicende scolastiche, Starnone produce un romanzo molto importante, forse il romanzo della vita: si destreggia tra tematiche diverse, registri diversi (il colto del suo italiano e il dialetto nelle sue forme più brutali) senza per questo diventare dispersivo. La storia si svolge su due piani: Mimì adulto che cerca, senza quasi mai trovarle, tracce del suo passato nella Napoli di oggi, e il Mimì bambino che rievoca quegli anni tremendi, segnati da scoperte dolorose, da privazioni più psicologiche che materiali, in quella casa troppo piccola, stretto tra i litigi dei familiari e le vanaglorie del padre, le sue fisse, le sue paranoie. Via Gemito è un romanzo senza speranza. Una voce composta, analitica, che disseziona infanzia e adolescenza fino a rivelarne il misero midollo, depurando il discorso della memoria da ogni fronzolo ed eliminando con gesto rabbioso qualsiasi aura mitica. Non c'è niente di mitico nell'infanzia; di più: non c'è niente di mitico nella famiglia, luogo isolato e sperduto in cui accade di tutto e in cui si consumano le abiezioni e le vigliaccherie che segnano per tutta la vita. L'autore riesce a tratteggiare una figura imponente nella sua sguaiataggine: quella di Federì, in bilico tra l'eroismo della propria ostinazione (riuscirà a diventare un grande pittore) e il suo carattere iniquo, fanfarone, apertamente violento nei confronti della moglie. Via Gemito è lo sguardo sconsolato di un figlio che raccatta i cocci della propria infanzia senza riuscire a ricomporli, senza trovare altro che qualche macchia di serenità sulle incrostazioni di una vita vissuta male, rifiutata. Il mondo di via Gemito è un microcosmo dolente, dove i bambini, per quanto vezzeggiati, non contano. Sono nutriti, sbandierati, ma non ascoltati. E il Mimì adulto ricorda tutto, annota, ricerca, pur sapendo bene che il ricordo "è il primo stadio della menzogna". A fare da contraltare allo strapotere chiassoso di Federì, la placida e mansueta Rusiné: animale sacrificale, predestinata al martirio e all'incuria, incapace di imporsi nella memoria del figlio se non per la sua colpevole mansuetudine, e per il persistente senso di pena che le ispira la sua ingenua e rassegnata accettazione, visto che nonostante le botte e le umiliazioni ama il marito. Il romanzo, per quanto corposo, è ambientato in quattro mura, come in una tragedia da camera. Scritto con il sangue, ma anche con la ragione, scorrevole quanto basta, colto, ma con un retroterra popolare che l'autore, giustamente, non fa nulla per nascondere. Non so dire se Via Gemito sia il romanzo italiano più importante degli ultimi vent'anni. Di sicuro è uno dei più significativi che ho letto io negli ultimi dieci. Lo è per la sua forza compressa, per la sua straordinaria capacità mimetica. Si sente l'influenza di Proust, ma in termini rovesciati, senza redenzione finale, senza comprensione né perdono; forse c'è anche il Controcorrente di Huysmans, per la sensibilità rivolta al disagio interiore.
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