C'erano sul palco quei due vecchi ragazzi, con le chitarre, il sassofono, il pianoforte. Hanno suonato per due ore e mezza, riuscendo a comporre un significativo, ma per forza di cose incompleto, mosaico delle rispettive carriere. Francesco De Gregori e Lucio Dalla hanno miscelato la loro storia, combinando voci e sangue, impastando lacrime e sorrisi, fino a servire sul piatto una fetta non indifferente della storia di ciascuno dei presenti. Vederli all'opera, sentire le loro voci e la loro arte è stato come guardarsi allo specchio, almeno per quello che mi riguarda. Trentuno anni dopo la loro prima esperienza concertistica insieme, ci hanno riprovato, ed è stato un successo; non è stato un revival, non "una messa cantata" come ha affettuosamente avvertito Francesco prima dell'inizio, ma una sorta di percorso cantato, dove il repertorio si è sposato ai moderni arrangiamenti e le parole hanno trovato in ogni caso la loro esatta collocazione. Con naturalezza, con stile, con amore. Niente è stato casuale ma tutto è stato felicemente spontaneo in questo Work in progress tour. Le canzoni sono fluite lievi ma dense agli Arcimboldi, e ci hanno lasciato nudi, tutti quanti, di fronte ad un pezzo della nostra vita collettiva che si è palesato sotto i nostri occhi, senza infingimenti, senza inutili preamboli. Il suono è stato pieno, elegante, rinnovato rispetto al passato, ma con una carica ugualmente sincera, e molto colta. La sonorità è cambiata rispetto a Banana Republic: è meno secca, meno "di corda" e ha virato piuttosto verso tonalità jazzistiche, come dimostra anche la formazione musicale, composita e ricercata, rigorosa ma allo stesso tempo libera e improvvisa. Il repertorio ha spaziato dai superclassici come La donna cannone e
Caruso a brani meno noti, come Henna e I matti, rappresentazioni significative della storia personale dei due autori che si scambiano con la cronaca e con la letteratura, allergiche alla melodia facile, ai concetti facili e in generale a qualsiasi forma di accatto melodico o sentimentale. Impressionante l'impatto di brani come L'anno che verrà, Futura, Buonanotte fiorellino in un nuovo, ispirato e potente arrangiamento. E poi c'erano loro due. Dalla e De Gregori. Due giganti. A De Gregori devo moltissimo in termini umani e culturali, ma non starò qui a farla lunga. Sono ormai qualcosa di più che cantautori, anche se loro rifiutano qualsiasi etichetta che non sia segnatamente musicale. Il loro repertorio è sconfinato, imprevedibile, tanto che ad ogni brano si è costretti ad ammettere: sì, anche questa l'hanno scritta loro. E l'hanno fatto con passione, mi viene da dire senza secondi fini: l'hanno fatto perché era giusto farlo, perché le loro canzoni sono esperienze che hanno a che vedere con l'esistenziale, e che non hanno nulla da spartire con i ricatti del sentimentalismo, con il motivetto orecchiabile, ma accedono ormai ad un territorio fatto di idee e di immagini. Dalla e De Gregori sono in grande forma. Voce (tanta, veramente tanta), competenza musicale, voglia di divertirsi, ma anche di rimettersi in discussione. Possono permettersi di fare quello che vogliono. Nessuna scuola televisiva alle loro spalle. Niente pop. Niente professori televisivi. Niente televoti. Niente talent show. Ci sono solo loro, una chitarra, un clarinetto. E che Dio li protegga per il bene di noi tutti.
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