Qual è la distinzione che passa tra disfattismo e critica, tra cattiva pubblicità e libertà di dire quello che si vuole? Le recenti polemiche in merito al docufilm di Sabina Guzzanti riaprono un capitolo che in qualsiasi paese normale sarebbe rimasto chiuso. Ossia: un governo, qualunque esso sia, accetta la critica, anche pesante, anche a suo dire ingiusta. Incassa e presenzia. La difesa del "ci dileggiano coi soldi pubblici" non attacca. Si potrebbe dire che anche il Tg1 dileggia noi tutti e ogni buonsenso ogni sera, eppure lo sopportiamo, così come sopportiamo la lottizzazione Rai da parte dei partiti e di un partito in particolare. Uno Stato, se non è un regime, sovvenziona anche quelli che la pensano in modo differente, mi viene da dire: soprattutto quelli che la pensano in modo differente, per essere al di sopra di ogni sospetto. Se per assurdo fosse stato presentato a Cannes uno spropositato panegirico in elogio del governo italiano, il ministro dei beni culturali sicuramente avrebbe applaudito alla prima. Ed è qui che si scopre il giochino: comodo sostenere gli amici e sputare su chi ti dice che sei in torto, dando sempre più l'impressione che i ministri italiani siano ogni giorno di più ministri di una parte d'Italia, di un partito, di una fazione, e non piuttosto i ministri di tutti, che agiscono nell'interesse di tutti. Anche i film sono prodotti italiani da difendere, al pari dell'olio di oliva e dei vestiti. Censurare la voce di qualcuno, chiunque sia, è sempre uno scandalo; tentare di farlo giustificandosi con l'onor di patria è addirittura spregevole. Di questo passo non potremo più fare le corna ai nostri vicini nelle foto ufficiali e non potremo più lasciarci andare ad apprezzamenti alle donne ministro degli altri paesi. Si sa che l'onore prima di tutto.
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