Se non rimarrà Alberto Moravia nella storia della letteratura europea del novecento, mi chiedo chi rimarrà. La riflessione mi è venuta in margine all'articolo di un giornalista che di solito si occupa di cronaca giudiziaria e che senza molti argomenti si è lanciato in un tentativo di analisi critico letteraria il cui valore non è degno nemmeno di una burla. Moravia rimarrà perché è stato uno scrittore puro, che ha attraversato il novecento dal versante letterario: lo ha sublimato e ne ha tratto alcune impressioni fondanti che riguardano non solo il nostro passato ma anche il nostro futuro. Ha capito per primo il disfacimento del mondo borghese (Gli indifferenti), è stato tra i primi a captare due temi eminentemente logici e psicologici e a travasarli in letteratura, come la tautologia e la coazione a ripetere (La noia). In generale nella sua opera c'è una grande lezione esistenzialista: l'uomo post industriale è una creatura lontana da sé. Alienata, come preconizzò Marx. Ma al di là dell'esistenzialismo Moravia è stato un genere a sé; imitato, copiato, emulato. Soprattutto, il suo italiano è stato ed è ancora uno dei migliori che siano stati espressi nelle lettere contemporanee: essenziale, preciso, ma al tempo stesso ricco di suoni e sfumature. Lo scrittore ha raccolto grandi successi, ma è anche stato trafitto da numerosi giudizi ingenerosi. Nessuno gli ha perdonato il suo successo, specie internazionale, visto che è uno di pochi italiani che abbiano varcato i confini e che si siano imposti in panorami difficili come quello francese e anglosassone. Non ha lasciato eredi; del codazzo cortigiano che lo seguiva in vita non è rimasto quasi nessuno. Tra le biografie è preferibile quella più rara ma meno agiografica di Renzo Paris: Una vita controvoglia. Meglio della lunga intervista di Elkann.
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