Le dichiarazioni di poetica sono una sorta di genere nel genere. Sarebbe curioso pubblicare una raccolta di prefazioni in cui gli autori descrivano le linee tematiche del proprio lavoro, le speranze, le illusioni, i passi avanti e quelli indietro. Non c'è niente di male nel dire i perché e i percome del proprio lavoro. Spesso i lettori stessi sono curiosi, vorrebbero sapere il perché di una data scelta, di un certo registro. In linea di massima sono una lettura piacevole oltretutto. Quali non possiamo ammettere? Verrebbe da dire quelle in cui l'autore sostiene di odiarle (ma già questa non è una dichiarazione poetica, o antipoetica o comunque in negativo?). Ma un altro a mio avviso è il caso più irritante: quello in cui lo scrittore esordisce con la fatidica frase: "Non amo parlare del mio lavoro, ma..." per poi lasciarsi andare ad un poema epico incentrato su se medesimo. Stile Claudio Magris, per intendersi. E' come dire che scriviamo troppo per poi continuare a scrivere. Sono tutte storie che non mi convincono. Chi sa scrivere deve continuare a scrivere finché ne ha voglia: dire ad uno scrittore che scrive troppo è come dire ad un cuoco che deve cucinare di meno, ad un avvocato che deve smettere di sostenere cause. E il bello è che sono gli scrittori stessi a dire, in età avanzata e a danno fatto: "Nella mia vita ho scritto troppo". Buona notte. Ma alcuni amano mortificarsi, come dire che scrivere è una vergogna. Scrivere in malafede è una vergogna, essere dei pennivendoli è una vergogna. Pensare al lucro e solo al lucro truffando le ragazzine è una vergogna. Lo scrivere in sé no. Meglio specificare anche l'ovvio, perché l'ovvio non lo controlla mai nessuno. Scrivere è una liberazione, è una fatica, è un lavoro, perché smettere, autocontrollarsi, autopunirsi? E' una mania probabilmente partita da quelli che scrivono poco perché non hanno niente da dire. Può capitare, per carità. Harper Lee ha scritto un solo romanzo. Ma che c'entrano gli altri? In fondo anche l'ambito di una storia è una proprietà privata, forse la più privata che si possa pensare, quella in cui provare ad essere liberi, senza che qualcuno venga a dire in che misura.
incontri ravvicinati
domenica 27 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Augurare il male fisico al proprio avversario politico è una pratica incivile; auspicare aggressioni incivile e stupido; sperare che invece certi suoi comportamenti parecchio oscuri vengano chiariti dalla legge, senza altri escamotage, senza l'uso privato dei mezzi pubblici e senza l'intercessione dei troppi maggiordomi al suo servizio, è il minimo che possa essere consentito. E non è terrorismo, non è campagna d'odio, è semplice richiesta di confronto paritario. Tutto qui, senza molta enfasi. Del resto l'evocazione di bieche minacce, di infausti complotti e sotterranee manovre è qualcosa che sconfina dai territori della politica e perfino del buonsenso per giungere in piena fiction, in piena manipolazione delle masse attraverso una narrazione, che è tutto fuorché veritiera. E' una storia che abbiamo ripetuto un milione di volte: quella dell'abnorme conflitto d'interesse, della disgregazione culturale della nazione, dell'uso perlomeno disinvolto delle istituzioni pubbliche per finalità private. Dire di no, opporsi a questa banalizzazione (perché questo è fondamentalmente il berlusconismo), non è violenza né tanto meno odio: significa esprimere un'opinione, con buona pace della maggioranza. Sarebbe forse ora di ricordare anche chi è stato il primo a parlare in termini bellici di "scelta di campo", di buoni e di cattivi, di comunisti giustizialisti, di "andare a morire ammazzati" (ministro, proprio lei...), perché altrimenti si perde il senso delle parole, si lascia passare un messaggio che è semplicemente falso. Anche il povero Papa è stato oggetto di attenzioni particolari da parte di una ragazza non proprio in pieno possesso di sé: gli va dato atto di non aver enfatizzato l'accaduto e di aver tirato dritto, senza strumentalizzare, senza generalizzare, senza tentare di sfruttare politicamente un atto che è di per sé imprevedibile come il gesto di uno squilibrato. Nessuna voglia di passare per un martire, nessuna evocazione di improbabili complotti. Si può essere d'accordo o meno con il Papa, ma la signorilità del comportamento va riconosciuta. Ogni confronto è puramente casuale.
treni & co.
giovedì 24 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Il tracollo del sistema ferroviario italiano è la fotografia esatta e in un certo senso complessiva di molte contraddizioni. E' il fatale contrappeso gravitazionale che ci riporta a terra. Viviamo in un sistema che ama offuscare con quantità spropositate di fumo: il ponte sullo stretto, l'alta velocità, il nucleare spacciati come pasticche di Lsd, che promettono un viaggio dei sensi nell'immobilità del reale. Poi bastano ventotto centimetri di neve, e tutto va a ramengo. La colpa? Di nessuno. Sono quindici anni di berlusconismo che hanno portato a niente. Quindici anni alternati con la modesta forza del centrosinistra, va bene, ma sono ugualmente quindici anni di promesse, di bolle di sapone e fuochi artificiali. La gente del fare, che cosa ha fatto? A parte il tentativo di privatizzare l'Italia, di smontare lo stato sociale, di illuderci con qualche gioco di prestigio (leggi il ponte sullo stretto, il tardivo e folle ritorno al nucleare...) che cosa ha fatto? Siamo una nazione che si crede forte, ma che alla prova dei fatti non lo è. Ci siamo detti addosso troppe cose, ci siamo forse imbrogliati a vicenda, ma ad ogni modo abbiamo preso un granchio: abbiamo creduto alla pubblicità. E abbiamo comprato, abbiamo votato. Le cose vanno male? Colpa dei comunisti. Non sei d'accordo con me? Mandante morale, comunista, eversivo! Eppure bisogna ribadire il concetto a più non posso: non sono d'accordo, non sono d'accordo. Non sono d'accordo con la politica dell'immagine, del ritorno al grembiule, dei tagli alla cultura, della cartapesta con cui si coprono le magagne e si fanno rientrare in Italia i capitali evasi con un pizzicotto sulla guancia del 5%. Non sono d'accordo con la politica degli yes man, dei maggiordomi, dei ministri di scarso spessore. Ma soprattutto bisogna avere abbastanza igiene mentale da dire un secco no alla repubblica plebiscitaria e populistica. Quella che dice che stai volando, anche quando stiamo saltando su un tappeto elastico.
neve
martedì 22 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Noi popolo del grande Nord, noi diretti discendenti dei Celti e di Odino, noi grande ricco popolo messo in ginocchio da ventotto centimetri di neve. Noi ricco nord, noi popolo ribelle, ubriaco di acqua del Po, in mutande per qualche ora di neve. In ginocchio, in mutande, nel senso che qui, quando nevica, non funziona più una mazza. I treni si fermano, le strade sono spesso abbandonate a loro stesse, i mezzi pubblici vanno in letargo. E allora sorrido di fronte alle baracconate di ispirazione barbarica, con copricapi corniformi, lance e carretti. Sogni nordici che non ci sono, una lingua, quella italiana, figlia del latino. Ma non basta: il dialetto stesso, sia bergamasco, milanese, lagheé, o quello che vi pare, è derivato dal latino; è l'evoluzione locale del latino parlato. Tutto qui. La percentuale di biondi? Inferiore a quella della Sicilia, con il suo forte ceppo Normanno (è più nordica la Sicilia della Lombardia, sta' un po' a vedere...). E allora? E allora, da lombardo quattro quarti da svariate generazioni, nato e cresciuto in questa terra, sono arrivato alla conclusione che il mito nordico del Nord Italia è una fesseria. Bonaria fino a un certo punto tra l'altro. Sicuramente discutibile. Perché è meraviglioso essere figli della cultura latina; è un onore parlare una lingua come quella italiana, ed è una grande sensazione quella di poter vantare il trenta percento del patrimonio culturale mondiale. Se qualcuno preferisce le lingue ugrofinniche (nobilissime, per carità), è pregato di fare sul serio, e di impararsele, perché il nostro caro dialetto non viene certo da ascendenti scandinavi. La neve l'ha capito, e si diverte e prenderci per i fondelli. Ciapa va'.
con gli occhi di Kafka
lunedì 21 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
La scrittura di Pietro Citati è sempre un'esperienza culturale. In pochi sanno accarezzare le parole come lui, quasi nessuno è in grado di strappare al linguaggio note più dolci e ricche delle sue. Il saggio Kafka ha qualche cosa di paradigmatico e inconfessabile: qui il grande critico letterario incontra uno dei più grandi scrittori del novecento: le due personalità si confondono, si scambiano, diventano parti di un mosaico fluido, osmotico. Kafka visto con gli occhi di Citati è una lettura felice, disincantata, delicatissima: è il racconto appassionato della vita di un uomo speciale, sensibile, colto, capace di raggiungere profondità omeriche, ma anche costretto in una vita che non gli apparteneva, in un mondo che non sapeva affrontare. Il ritratto di Kafka che ne esce è un quadro composito, ricco di sfumature, con un denominatore comune, costante e inquietante: la presenza dei demoni che hanno funestato tutta la vita dello scrittore praghese. Demoni che lo hanno perseguitato, inseguito, scovato e infine distrutto. Un uomo complesso, nel vero senso della parola: in lui i pensieri correvano veloci, e si frapponevano, si mischiavano, davano luogo ora a idee ora a veri e propri incubi; Franz Kafka era un artista tormentato, schivo, solitario. Un uomo che riuscì a dormire il sonno migliore della sua vita quando ebbe la certezza della tisi, e quindi della probabile morte. Citati ci accompagna passo per passo nella ricostruzione storica e culturale della vita dell'autore, ci suggerisce i principali nodi tematici, ci spiega i meccanismi che sottendono alla creazione delle opere, e spesso si tratta di ingranaggi sottili, delicati, che potrebbero andare a pezzi al minimo contatto. La letteratura diventa un gioco delle parti, serio, come tutti i giochi che si rispettino: uno scambio continuo tra il reale e il narrativo, dove la sostanza dell'arte inevitabilmente si confonde con la coazione a ripetere della vita. Kafka sta in questa terra di mezzo, dolce e disperato, indifeso ma anche capace di macerazioni interiori senza precedenti, e di capolavori introspettivi altrettanto inediti. Ciò che ci rimane è un enigma, una narrazione che, se non fosse vera, avrebbe tutti gli ingredienti per appartenere essa stessa al dominio romanzesco. Definire Kafka un libro di critica letteraria mi pare riduttivo: si tratta piuttosto di un'avventura letteraria, di un percorso ora sognante ora febbrile, che alla fine ci fa sentire parte di quel mondo, come testimoni partecipi e attoniti. Potenza della scrittura.
per Antonio Porta, poeta
domenica 20 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
rinchiuso nell'armadio
l'aquilone
vola nella mia mente
28.2.1982
Ad una prima analisi la poesia di Antonio Porta suggerisce una potente metafora esistenziale: il vivere come brama vorace, ora esplicitata in forme esterne, ora intima e immanente, rivolta al sé in modo quasi cannibalesco. Antonio Porta ha saputo raccontare, in oltre trent'anni di lavoro poetico, una trama incentrata sulla coerenza: dalle prime prove de I rapporti, fino a l'Airone, ultima lirica dell'ultima raccolta. Il suo accento si fa potente e insinuante, si fa concreto laddove tratta di temi comunemente considerati impoetici: la forte presa sulla realtà e sul rapporto tra l'uomo e il reale lo conduce verso un territorio inesplorato, e, forse, inospitale. Sono versi intessuti di carnalità, ma anche di partecipazione alla carne, di vita vissuta, osservata, spesso incompresa, incomprensibile, amata e odiata: Porta è un poeta degli estremi opposti, un artista delle forme involute, degli abbozzi, ma anche delle ampie volute e dei voli lirici; è uno scrittore che ha saputo manipolare la poesia anche graficamente, rompendo, a livello di disposizione testuale, quello che, più per consuetudine che per altro, era stato assunto a canone. Ecco che i versi si intrecciano, salgono a colonne, si interrompono, fanno a meno della punteggiatura (ma non del ritmo, piccolo miracolo del poeta) e delle maiuscole, eppure le parole escono addirittura rinvigorite: sono lì, fragranti, intatte in tutta la loro sostanza. La sua tensione lirica, come Porta stesso ci dice, ha come fine una forma di ordine: nel caos esistenziale e in fondo privo di senso, il poeta si incarica di cercare delle linee di contorno, di riorganizzare la materia casuale in materia poetica. Da qui forse la precisione nelle date: date che accompagnano quasi ogni componimento, riferimenti temporali che non sono esornativi, ma che fanno parte in modo esclusivo e assoluto di ogni componimento; date che ci guidano, cercano di farci capire, di darci delle coordinate temporali e spaziali. Abbiamo modo allora di capire come certi lavori abbiano richiesto una lunga gestazione e come invece altri siano nati sulla scia emotiva di una particolare sensazione. Alla fine, "come può un poeta essere amato?" La domanda rimbalza, senza una risposta, lasciando un'inquietante ombra lunga che Porta aveva intuito e forse temuto. Qualcuno lo ha definito un poeta con l'ossessione della narrazione. Non mi sembra un'esagerazione. Ce ne fossero di ossessioni così belle.
immaginare Paul Verlaine
venerdì 18 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
BEAMS
(tratto da Romances sans paroles - Aquarelles, traduzione dal francese
di Ariberto Terragni)
Lei volle andare sui flutti del mare,
e siccome un vento benevolo soffiava il sereno,
tutti noi ci prestammo alla sua bella follia,
ed eccoci in marcia per il cammino amaro.
Il sole riluceva alto in un cielo calmo e liscio,
e nei suoi capelli biondi c'erano dei raggi d'oro,
sicché noi seguivamo il suo passo più calmo ancora
dello sciabordio delle onde, oh delizia!
Uccelli bianchi volavano intorno blandamente
e in lontananza si inclinavano vele bianche.
Talvolta grandi alghe filavano in lunghi rami,
i nostri piedi scivolavano in un largo e puro movimento.
Lei si volse, dolcemente inquieta
di non saperci pienamente chetati,
ma vedendoci felici di essere i suoi prediletti,
riprese la sua strada, a testa alta.
Paul Verlaine è il mistero della poesia. Un uomo incoerente, sfilacciato, che si è perso e ritrovato decine di volte nel corso della sua vita, bevitore accanito, dalla vita disordinata. Un uomo non particolarmente attraente, di carattere difficile, un uomo che è stato un grande poeta. Viene spesso affiancato ad Arthur Rimbaud, l'angelo infernale, e in qualche modo il suo nome risulta sempre, nelle biografie meno attente, un passo dietro rispetto a quello del giovane amante. Eppure Verlaine è stato più grande di Rimbaud. Lo dico seguendo il gusto personale e amando comunque anche l'autore delle Illuminazioni. Verlaine ha avuto dalla sua il tocco della disperazione: quella rara e particolare facoltà poetica che asciuga fino alle ossa il verbo fino a renderlo simile ad un suono; il suo insegnamento è: essenza, immagine. Rimbaud è il cantore del dionisiaco, della bellezza, della giovinezza; Verlaine vive una dimensione interiore dilatata all'infinito, dove altrettanto infiniti sono il dolore, il disagio, l'offesa continua. E' stato un autore disorganizzato, che ha fatto di tutto per dissipare e sprecare il suo talento, non riuscendoci, come di solito accade ai grandi artisti. Verlaine il talento lo umiliava, lo calpestava, lo disprezzava, sapendo di poterlo ritrovare intatto e ancora più splendente un momento dopo. La lirica del poeta di Metz si presenta come non mai tersa, perfettamente bilanciata, un atollo di parole sul bianco del foglio. Mai una parola di troppo, mai una dissonanza. Non c'è ombra di ridondanza nei suoi scritti, che ugualmente sanguinano, ora di rabbia impotente, ora di dolce decadenza: è un poeta degli addii, da i Premiers vers passando per la tormentata e precaria conversione di Sagesse fino all'ultima, drammatica poesia, Mort!, commiato a pochi mesi dalla tragica e malinconica dipartita, preconizzata e quasi invocata nell'ultima strofa: "La mort que nous aimons, que nous êumes toujours...". Nonostante gli eccessi, le delusioni, e probabilmente anche le ingiustizie patite, il corpus della sia opera risulta come non mai coeso, focalizzato su alcuni nodi tematici che l'autore porterà sempre con sé: la sensualità frustrata, l'idea di morte, e in senso più ampio il concetto di fine. Fu un decadente duro e puro, nonché uno degli ultimi figli del simbolismo.
riletture
mercoledì 16 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Riprendere in mano i Promessi sposi è una scelta dettata da una certa disposizione d'animo. L'inverno, il bisogno della riscoperta, la necessità pratica di rivedere alcune tematiche per riformulare un giudizio. Ma sono solo alcune delle motivazioni. Forse questa specie di rilettura programmata è dovuta anche al desiderio di rimediare agli sfracelli scolastici, con quella letteratura insegnata così male, così in fretta, sempre dal punto di vista sbagliato. Con quella tremenda voce adenoidale, poi, che leggeva così male, senza cognizione di causa. Ricordo molto poco, per fortuna; il cervello tende a cancellare gli eventi più insopportabili. Campeggia ogni tanto una donnetta smilza, truccata per il circo, con degli orrendi pendagli attaccati al lobo dell'orecchio, oscenamente teso da cotanto bigiottame. Amen. Ora, il ritorno ai Promessi sposi, a tutta quella serie di personaggi ormai entrati a far parte del linguaggio comune: Azzeccagarbugli, l'Innominato, Don Rodrigo, Donna Prassede. Una carrellata di caratteri, ora capziosamente indimenticabili, ora studiati a tavolino per risultare patetici. Un romanzo, appunto, il primo romanzo storico italiano. Un romanzo scritto e riscritto almeno tre volte, per via di modifiche soprattutto stilistiche e linguistiche, che alla fine risulta come una specie di pastiche dove dei popolani lombardi parlano un fiorentino mediamente colto, senza inflessioni dialettali tipiche del lago e del nord Lombardia. Un romanzo strano quindi, inusuale. Anche Manzoni era un personaggio strano. Figlio della Milano bene, cresciuto un po' qua e un po' là, di padre dubbio, di madre eccentrica, di vita dissoluta o irreprensibile a seconda delle biografie. Cattolico e illuminista, di brucianti passioni e di altrettanto infiammati conservatorismi: un colto signore autodidatta che parlava l'italiano solo come terza lingua, dopo il dialetto milanese e il francese. I luoghi manzoniani ci sono ancora. C'è il lago, ci sono le sue alture. La collina del Brusuglio, dove il don Lisander soggiornava in vacanza, è ancora là, assieme alla casa avita. C'è anche qualcosa che serpeggia e che non è chiaro nella vita di questo scrittore d'altri tempi; letterato osannato e odiato, sempre e comunque racchiuso in un'inquietante bolla di privilegio che non lo rende troppo simpatico e che però gli conferisce anche il fascino dell'enigma. Ha avuto la fortuna/sfortuna di diventare un monumento: istituzionalizzato come un altare della patria da cui nessuno lo toglierà più. Vittima dell'indecenza professorale e del dileggio degli studenti, imbalsamato in una prospettiva nozionistica e libresca che, ora ho capito, non gli ha reso giustizia. Leggiamo, vediamo perché Manzoni è Manzoni.
questione di sinestesia
martedì 15 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
E' una parola difficile e poco conosciuta che designa in realtà un espediente retorico usato e abusato: quello cioè di riferire una sensazione, per esempio uditiva, ad un'altra sensazione, appartenente ad un altro campo sensoriale. Per esempio: suono terso, o ancora gusto chiaro. Possiamo definire la sinestesia come un tipo di metafora. Ullman distingue la sinestesia dalla pseudosinestesia, spesso confusa con l'ipallage o lo zeugma mettiamola lì per senso di completezza. Ma non è questo il punto; il linguaggio della pubblicità ha abbondantemente attinto dal fenomeno linguistico allo scopo di venderci delle merci. Ora, questo procedimento è qualche cosa che la mente umana ha conosciuto da relativamente poco tempo. La figura retorica a scopo di lucro è un procedimento nuovo, spiazzante, che è andato a sostituire il sostrato emozionale e comunicativo con un whisky per il dopocena o una scatola di cracker "dal sapore esclusivo" (e questa del sapore esclusivo non è una sinestesia, ma una più abbordabile stronzata). Schiere di menti intente a escogitare furbate ed espedienti vari per vendere qualcosa. Con buona pace della metrica classica che, denigrata e umiliata dalla verve degli uomini del fare, deve accontentarsi di questi sbocchi insoliti e anche un po' sconci per vedere ancora la luce. La figura retorica nasce per infondere ai concetti un impatto maggiore, o ancora per far collimare la parola scritta con il suono di ciascuna parola; la figura retorica ha più senso infatti nella lettura ad alta voce. E questo perché nel mondo classico il testo scritto equivale ad una partitura musicale, che deve avere il suo equilibrio, le sue regole, le sue eccezioni, i suoi brani corali e i suoi assolo. Ecco perché anche l'esperienza della lettura non può dirsi banale; leggere bene è come saper cantare. Prendiamo lettori come Carmelo Bene, o Vittorio Gassman e confrontiamoli con quelli che ripetono a memoria la Commedia di Dante per far vedere quanto sono bravi. Vedremo che non è la stessa cosa.
l'ombra a stelle e strisce
domenica 13 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Il mondo viene squassato da un terribile virus creato in laboratorio che sfugge al controllo delle autorità. In pochi giorni una terribile influenza mutante distrugge la razza umana. Si salvano in pochi, e questi pochi si focalizzano in due schieramenti: i buoni e i cattivi. Proprio così. Il primi guidati da una specie di dio miscuglio di vari cristianesimi in salsa yankee, i secondi da un tizio in jeans e stivali da buttero forse emissario di Satana. Questa in due parole la trama de L'ombra dello scorpione, di Stephen King. Prima parte descrittiva, avvincente, coinvolgente. C'è realismo, c'è presa diretta. La seconda è un minestrone che non finisce più: una torrenziale sequenza di parole. I personaggi sono caratterizzati così così. I buoni sono di rara antipatia: dei rocciosi Chuck Norris tutta buona volontà e senso pratico, puro american style, mai un ripensamento, mai un ragionamento complesso se si eccettuano le pedanti lezioni di un sociologo raccattato per strada. I cattivi sono decisamente più interessanti. Ma perdono, e si capisce subito che contro dei buoni così buoni non potranno mai farcela. Il finale è così pazzesco che non posso non raccontarlo, e mi perdonerà chi ha intenzione di leggere il romanzo: quattro di questi buoni ricevono ordine da una vecchia sdentata, che si autonomina profeta di un non meglio identificato dio, di andare nel territorio dei cattivi. Come mai? Boh, l'ha detto il mio dio. Oh my God, andiamo. Arrivano sul posto, vengono catturati dai cattivoni, ma poi un cattivone particolarmente pirla, giusto un momento prima che i buoni vengano giustiziati, pensa bene di far brillare un'atomica. Così, proprio così. Storia finita. Al di là della seconda parte (allucinante), e delle innumerevoli parti inutili, c'è un dato che allarma: al di fuori degli Stati Uniti non esiste niente. La partita si gioca tutta negli Usa. Tutti i buoni sono lì concentrati e anche tutti i cattivi. Dio ha deciso che la sfida finale si giocherà da zio Sam. Non a Gerusalemme, non nella piana di Giza, non al Partenone, ma a Las Vegas. C'è in questo tutta la follia dell'autoreferenzialità culturale americana, la quale non sospetta nemmeno che esista qualcosa di notevole al di fuori dei propri confini. Una follia inquietante e grottesca, assurda e insieme vaneggiante: un sogno di potenza cieco, al limite della farneticazione. Viene voglia di pensare: meglio che vincano i cattivi piuttosto di questi calvinisti middle class; meglio un po' di anarchia satanica di queste sterminate lande di villette a schiera e tacchini imbottiti.
dediche
venerdì 11 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Da una persona intelligente e coraggiosa come Roberto Saviano mi sarei aspettato una frase un po' più aggraziata. Ritirare un premio a Milano e dire che i veri milanesi sono i meridionali e non i milanesi da sempre mi pare una caduta di stile. Mi sarebbe piaciuto di più sentire: siamo tutti milanesi, siamo tutti italiani. I meridionali aiutano il nord e i settentrionali aiutano il sud, perché siamo una nazione. Quella dedica così smaccata, così tranciante, così inutilmente polemica mi è sembrata proprio una nota stonata in una giornata che invece avrebbe potuto essere occasione di confronto e di collaborazione. Non c'ero, magari è andata proprio così, ma viste quelle parole la sensazione è che ci sia stato un qualcosa di troppo. Non ho il culto degli antenati né dell'appartenenza geografica (figurarsi, è un terno al lotto), ma credo che i miei nonni e bisnonni non siano meno lombardi degli amici che sono immigrati dal sud. Forse qualche volta le parole andrebbero misurate, non fosse altro per quei milanesi che non ci sono più, e che la storia di questa terra l'hanno fatta, anche se la Storia non si ricorderà mai di loro. Creare a parole uno steccato (un altro) determina fatalmente un'altra divisione, due parti. Saviano gode di una tale popolarità che dovrebbe sapere ciò che ogni suo intervento significa, il rumore che comporta, la portata che assume. Non è uno scandalo ciò che ha detto, è solo una frase superficiale e un po' sciocca, che si può perdonare al bar, ma che è destinata ad avere tutt'altra eco quando a pronunciarla è uno scrittore in prima linea come lui.
presentazione Un uomo da abbattere
giovedì 10 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
La differenza tra avere un romanzo in testa e avercelo tra le mani, scritto, rilegato, con il suo codice e il suo indice, significa molto per uno scrittore. Significa varcare una linea di accesso, superare un confine e trovarsi in un campo in cui tutto è uguale eppure difforme. Sarà perché io non scrivo per hobby, ma perché sono in qualche modo condannato a farlo. Le storie pretendono di essere scritte, e i libri, qualche volta, chiedono di vedere la luce in una pubblicazione. Non sempre, perché è vero che si scrive anche per se stessi, ma qualche volta capita di non potersi rassegnare al cassetto. Scriviamo in molti, in troppi probabilmente, e anche questo è un grosso problema. Credo sia una questione di pudore, che si può affrontare solo ponendo l'onestà intellettuale al primo posto: sono sicuro di quello che scrivo o si tratta di vanità e basta? Ovviamente è il giudizio del lettore che può dare una risposta. Ma anche qui: sono tanti i lavori scoperti i ritardo: penso a Morselli, o alla Ortese. Il pubblico non è sovrano e, piaccia o no, assecondare i gusti dei potenziali lettori è quanto di più laido e disonesto si possa fare. Opinioni personali ovviamente. Molti scrittori ragionano in modo opposto al mio: amano la melassa, la micidiale combinazione di "cuore amore anima sentimento amicizia". Io no. E nemmeno pretendo di parlare a nome di una generazione, anche perché io non so che cosa sia una generazione. Non so che cosa siano le mode, le tendenze, il fashion e il trendy. Scrivo di conseguenza. Non ambisco ai premi letterari. Devo molto alla letteratura, questo sì. E preferisco il classico al pop; il postmoderno al giovanilismo. Per ricevere delle copie mandatemi una mail, oppure telefonate allo 0362-231824
correre
martedì 8 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
La proposta è elettrizzante: portare (su certi tratti e a certe condizioni) il limite di velocità a 150 km/h. Chi non è d'accordo? In un sondaggio probabilmente la proposta raccoglierebbe un consenso plebiscitario. Come abolire le tasse, più o meno. Ma è una decisione sbagliata. Mi spiego: una delle clausole per poter accedere ad una velocità maggiore sarebbe quella di possedere un'auto adeguata. Più potente e più sicura. E chi ha meno soldi e quindi non se la può permettere? Resta indietro, col rischio oltretutto di venire travolto da un suv più bello e potente della sua spregevole utilitaria. Non è una semplificazione: stiamo costruendo una società malata in cui, un passo alla volta, i maggiori diritti corrispondono alle maggiori entrate economiche. E' un'Italia allegramente idiota, beotamente ottimista, che ama le vacanze, che ama non pensare, che apprezza i culi alla tv. E' l'Italia di Mediaset, che intervista i guidatori raggianti di fronte alla possibilità di correre un po' di più e impunemente. Chiediamo alle associazioni di vittime della strada se ritengono che sia una norma giusta; chiediamolo alle forze di polizia. Poco importa se è limitata e consentita a pochi: apre una breccia, e di fatto impone una nuova discriminazione tra chi ha e chi non ha. Chi ha di più ha anche il diritto di correre di più. E' l'Italia di Berlusconi, delle privatizzazioni, dell'acqua che diventa bene privato quasi senza che nessuno se ne sia accorto. Non voglio allargare il discorso eccessivamente, ma basta ampliare di poco lo sguardo per vedere che è tutto collegato: l'edonismo, la banalizzazione, la cementificazione, il disprezzo per il meno abbiente, per il diverso, sono tutti sintomi di un'unica malattia. Spegniamo questa fottuta televisione, facciamoci del bene.
pezzi di scambio
domenica 6 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Ciò che colpisce nell'affaire Tanzi, al di là della vicenda giudiziaria in sé, è la curiosa funzione a cui sono state ridotte le numerose opere d'arte coinvolte. Il ricco imprenditore non le compra per gusto estetico o per costoso vezzo artistico, ma per sfruttarle come merce di scambio. Monet, Manet, Van Gogh, Ligabue, De Nittis e via dicendo stipati nel garage del genero come le croste ereditate insieme al salotto tarlato di una vecchia zia. Capolavori sottratti alla meraviglia dei nostri occhi per costituire una sorta di cassa d'emergenza del magnate. In effetti quando i soldi incontrano l'arte e quando, più in generale, il capitalismo di qualsiasi risma incontra l'arte, questo fa dell'arte stessa il solo uso che conosca: quello di investimento monetario. Il capitalismo non considera l'arte come un valore in sé e per sé, ma come un bene di scambio da soppesare, stimare e possibilmente vendere. Perché si sa, un bene per essere tale deve avere un valore di scambio. Comprare e scambiare tele, allora, diventa una mera operazione finanziaria, dove c'è anche qui un maledetto mercato che detta le sue regole e i suoi prezzi, favorendo scambi e transazioni, listini e rendiconti. Quanto ci vuole per capire che tutto questo è una sconfitta? E il bello è che il ricco magnate non sospetta nemmeno di macchiarsi di un crimine che va al di là di qualsiasi codice penale: è solo business, è un'operazione come un'altra. Si investe in oro, nel mattone, si investe in quadri d'autore. Messi in garage, insieme all'olio minerale e alle gomme da neve, fuori dalla portata di qualsiasi vista, l'oggetto d'arte non esiste più, sostituito dal suo prezzo. Non mischiate i vostri soldi schifosi con una delle poche cose che abbiano ancora un senso, per favore. Continuate ad occuparvi di palazzine e di discariche.
mater lacrimarum
sabato 5 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Ultima annotazione sui condotti lacrimali del Magnifico. Quando uno dice una boiata e si accorge, più per la reazione altrui che per il proprio senso critico, di averla fatta fuori dal vaso, di solito ricorre alla formula salvavita: "Le pernacchie erano calcolate, la mia era una provocazione." Beh, personalmente non ne sentivo il bisogno, di questa provocazione, vivevo bene anche senza. In primis perché quelle poche righe non mi hanno lasciato nulla, secondo perché degli elogi di papà al suo divin figliolo non so che farmene. Si parla tanto, e giustamente, di privacy nei confronti del carattere privato della vita di ciascuno, ma è una norma che dovrebbe valere anche al contrario: bisognerebbe vietare per legge di inondare a mezzo stampa le vite di tutti noi con i fatti privati di un singolo (già ne abbiamo a sufficienza sul versante giudiziario...). Un padre vuole inviare una lettera al figlio? Bellissimo, che lo faccia, ma in privato. Non può una persona sentirsi in dovere di smuovere l'intero sistema mediatico della nazione per quattro smancerie (perché di questo si tratta) tra l'altro scritte malissimo, con una prosa indegna di un prontuario di pedagogia dell'ottocento. Quella lettera è stata l'ennesimo trionfo del luogo comune, del solito, lasso paternalismo italiota, quello dei padri incapaci di correggersi ma smaniosi di drizzare la schiena alla loro prole. Che perlomeno sia solo la loro di fligliolanza a doverli sopportare.
Altra piccola nota.
Siamo alle porte del No B - day. Il giorno della protesta non tanto contro una persona (mister B) ma contro un sistema di regole e di principi che proprio non ci piace: il berlusconismo. La copertura televisiva dell'evento è stata nulla. Mamma Rai non seguirà la manifestazione e con tutta probabilità non la degnerà di nota nemmeno in un trafiletto delle sue tante (e sempre meno interessanti) trasmissioni. Come mai? Manca un padrino politico? Forse. Il solo fatto che il No B - day sia stato il frutto di una iniziativa indipendente, nata sul web e senza il patrocinato di alcuna formazione politica fa arrabbiare. Ma soprattutto rappresenta la sostanza di un movimento che non si sa dove incasellare. A chi lo riconduciamo? Come lo interpretiamo? Non si sa, e allora la Rai si astiene, pur avendo tutte le capacità per potere sviscerare il problema e per poterlo presentare ai cittadini. Meglio il solito panino di dichiarazioni allora. E' il problema di sempre: la Rai avrebbe tutti i mezzi per essere migliore di Mediaset, ma non lo fa, non muove mai quel passo decisivo. Perché è in ritardo sui tempi in modo impressionante. Perché è lottizzata e fa della lottizzazione politica una regola di vita, un Moloch a cui nessuno, né a sinistra né a destra, vuole rinunciare.
lacrime dal rettorato
giovedì 3 dicembre 2009
Pubblicato da
Ariberto Terragni
Piange il rettore. Invia una commovente lettera al buon figliolo: "Sei tanto bravo amore di papà, ma lascia questa terra ingrata, vattene via. Finisci gli studi presto e bene però." Io non so più come prenderli questi professori, questi rettori, questi magnifici. Ho tanta, tanta rabbia addosso. Mi verrebbe voglia di vomitargliela tutta in faccia a questi individui inflanellati, entità adenoidali che spargono il seme del sapere sui nostri poveri capi, che ci indicano la retta via e ci vezzeggiano con un sorriso di sufficienza tutte le volte che qualcuno li contesta. Questa lettera, così lessicalmente sciatta, così retorica, così intellettualmente involuta, suona come una brutta presa in giro. Segna innanzi tutto un discrimine: mio figlio può andare all'estero, i figli di tutti gli altri che hanno meno possibilità si arrangino, ma soprattutto segna l'ormai disincantata e quasi romantica accettazione con cui un'intera generazione (quella seduta in poltrona) si sta un po' alla volta assolvendo, dicendo: sì, abbiamo sbagliato, ma almeno ci abbiamo provato, abbiamo sognato un mondo migliore, anche se oggi votiamo Pdl e siamo peggio dei peggiori padri reazionari che abbiamo tanto combattuto e maledetto. Accettazione disincantata e quasi romantica, mi piace ripeterlo. E alla fine: assoluzione. Tanto noi il culo lo abbiamo ben piantato nei nostri sacelli, e pazienza se il sistema è allo sfascio per colpa nostra. Pazienza se abbiamo banchettato con le risorse di almeno due generazioni posteriori alla nostra. E' andata così. Formidabili quegli anni, formidabili davvero, per loro. Ci mancavano i rettori universitari a fare i malinconici, seduti su una poltrona in pelle umana, nel loro bell'ufficio, al riparo di una pianta di ficus. Non credo di avere parole a sufficienza per descrivere il senso di nausea che questa lettera risibile e povera mi ha trasmesso. In quelle poche righe c'è tutto il fardello che sta affossando la società italiana: paternalismo, familismo, retorica, faciloneria. Sono anche gli ingredienti che, personalmente, faccio più fatica a digerire. Queste paternali non sono più ammissibili. Finisci gli studi prima di andartene, buon figliolo, mi raccomando.