Il vero cinema, mi sono convinto, non è nella cerimonia dell'Oscar. Lì ci sono solo damazze in bilico sui tacchi, attori col trucco pesante, lacrime alla glicerina, cinema che è solo una rassegna di americanate (va bene, bravo Colin Firth, vorrà dire che il suo Oscar pareggia quello scandalo dato a Cage nel '96), major che si spartiscono la torta in un tripudio di cartapesta e scemenze. Il cinema se vuole avere un senso deve rischiare qualcosa, deve essere giocato sulla pelle. Altrimenti non è arte, è uno spot. Ci sono due registi iraniani, Jafar Panahi e Mohammad Rasulov, che sono stati condannati a sei anni di reclusione e a venti di interdizione artistica (non potranno più realizzare film), da un regime violento e incivile. In tutta onestà mi sembra più degno di nota questo aspetto della questione cinema, che non i premi dorati di un gruppo di divi fuori dal mondo, confinati in un universo parallelo - quello americano - sempre più autoreferenziale e sempre più propenso a darsi premi addosso. Credo, con altrettanta onestà, che la macchina infernale delle statuette non possa essere considerata cultura, ma un modo tremendo e ipocrita di fabbricare affari, in un movimento macchinale che ormai sopravvive a se stesso, scevro di contenuti originali, lontano mille miglia dai cambiamenti di un mondo in ebollizione. Impossibile è anche paragonare gli stenti e le difficoltà realizzative dei cineasti indipendenti, che rischiano la pelle spesso in senso non metaforico, con le cialtronate dei pubblicitari americani, adagiati in poltrone di pelle umana, in mezzo a dive di plastica, a storie di amorazzi e a tutta quella paccottiglia che ormai rende buona parte del cinema americano la parodia del se stesso che fu.
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