Stupisce, piacevolmente, il forte riscontro popolare che le celebrazioni per il 150° dell'Unità hanno raccolto un po' in tutta la penisola. Stupisce, e giustifica qualche riflessione. La prima è la più lampante: c'è una grande voglia di identità che serpeggia nel paese. Una voglia di identità che non ha nulla a che vedere con le favole della Lega, ma che piuttosto c'entra con dei riferimenti storici precisi, e sotto molti aspetti emozionanti: le Cinque Giornate di Milano mi vengono in mente, ma anche il sacrificio di tanti, tantissimi giovani provenienti da ogni parte d'Italia che si sono immolati in nome di un'ideale dal 1848 fino alla Grande Guerra. Mi viene in mente che La leggenda del Piave fu scritta non da un veneto, ma da un napoletano; mi viene in mente anche che Alessandro Manzoni, che conosceva meglio il francese dell'italiano, sentì l'esigenza di scrivere la sua opera principale, I promessi sposi, dopo un periodo di studi a Firenze, per meglio padroneggiare la lingua, arrivando al paradosso di far parlare due popolani del Lago di Como in un curioso idioma più vicino al fiorentino che al lombardo. Sono esempi sparsi che mi suggeriscono una cosa sopra ogni altra: la narrazione che avverte la gente, o comunque una consistente fetta di popolazione, ha poco o nulla a che vedere con la visione deformata che ne dà il Palazzo. Tanto che, alla prova dei fatti, l'affetto che la popolazione, gli italiani, hanno nei confronti della loro casa suona quasi come una stranezza, mentre invece è solo la naturale conseguenza di un processo storico lento e difficile, ma che nonostante tutto ha mosso dei passi avanti nel corso di questo secolo e mezzo. Ritrovare questo spirito di cooperazione potrebbe essere la chiave di volta per partire, una buona volta, in una direzione comune, scrollandoci di dosso questi anni schifosi che con il tempo e il sacrificio potranno essere messi tra parentesi come un momento di sbandamento collettivo e di bancarotta spirituale. Come recita Mameli: "Uniti, perdio!"
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