Dopo cinque giorni di rilettura ossessiva e un po' invasata dei Cantos di Ezra Pound, mi trovo qui a volerne scrivere qualcosa, ma all'improvviso sono come bloccato, quasi che tutta la massa di sensazioni e di suggestioni prodotte da questo maremoto in forma di poesia mi abbia tolto anche la facoltà di parlarne. Probabilmente è così. Chi sono io per parlare dei Cantos? Chi potrebbe parlarne? La prima considerazione è proprio questa: il materiale critico su cui basarsi non è moltissimo. Perché Pound è un autore difficile, perché i Cantos sono materia complessa e incandescente in cui pochi si sono addentrati, spesso alla buona e con informazioni indirette.
Ovviamente io non dispongo di niente di più di quel poco di intuito che chiunque si occupi in pianta stabile di letteratura alla fine riesce più o meno a guadagnare; e visto che ci sono una definizione la tento: i Cantos sono un percorso poetico. Non un poema in senso stretto, ma un cammino, un tracciato, una lunghissima sfida storica che si articola in vari momenti e in infiniti richiami. Impossibile dire dove iniziano e dove finiscono: sono un continuum, sono la poesia nel suo farsi, ma rappresentano anche il fardello umano, estetico, esistenziale di un uomo che per almeno venti, trent'anni della sua vita si è dedicato a queste pagine criptiche e dense, scritte sotto l'effetto di una febbre inesausta, infiammate da ricordi e da passioni civili non sempre condivisibili (non starò qui a ricordare le controverse simpatie politiche del poeta).
Un'altra chiave di lettura potrebbe essere quella di considerare l'intera opera come un tentativo monumentale e fallito di dare all'America un suo poema nazionale, nel solco della tradizione di Dante, Confucio, Omero eccetera. Questa ipotesi risulta affascinante, ma sfortunatamente con pochi appigli concreti. Resta la testimonianza dell'impasto linguistico sbalorditivo che segna queste pagine: inglese, latino, greco, italiano, cinese con termini che si accavallano, si inseguono, si intersecano fino a ricreare una lingua nuova, per certi versi scandalosa, che strappa il lettore dal suo sonno per metterlo di fronte alla vitalità polisemica della poesia: vitalità che secondo me è la vera matrice distintiva di Pound. D'altra parte la cultura smisurata del poeta affonda le sue radici nella letteratura trobadorica e nello studio sistematico della letteratura italiana (dedicò in giovane età un saggio a Guido Cavalcanti).
Pound amava l'Italia. Qui formò il suo gusto, qui sposò in modo folle e quasi isterico la cattiva causa del fascismo. Qui morì, a Venezia, dove riposa tutt'ora. Avendo più spazio ci sarebbe molto da dire sul suo rapporto con il nostro paese; mi accontento di un dato di fatto: i canti che vanno dal LXXII al LXXIII sono scritti in italiano, completamente: sono la sezione che nella scansione proposta da sua figlia aprono la strada ai celebri Canti Pisani, composti durante la prigionia al termine della Seconda Guerra Mondiale, dove Pound, accusato di collaborazionismo, finì incarcerato dalle forze angloamericane.
Da lettore, ho notato un fatto: i Cantos sono un poema iniziatico. Non per tutti, direi per nessuno. L'autore mostra tutto se stesso, ma con un alfabeto di difficile decifrazione. Non possiamo capirlo, non fino in fondo almeno: si ha la sensazione della grandissima poesia, ma si fa fatica a forzarne le chiusure, come se il tesoro più intimo e prezioso restasse confinato nel nucleo, lontano dai nostri sguardi e dalla nostra capacità di comprensione. Pound, è un poeta che non ci guarda, che ha lo sguardo puntato altrove, in un assoluto, in un astratto che non ci è dato sapere. Pasolini, in un suo intervento, denunciava giustamente questa distanza attribuendola ad uno stato fondamentalmente confusionario, genialmente confusionario dell'autore. Può essere, ma non basta a spiegare questo immane intrico di segni e simbologie.
I Cantos universo per pochi. Eppure per tutti. Scriveva Pound stesso in un suo saggio del 1934, Abc del leggere: "Il ritmo è una forma incisa nel tempo, così come il disegno è una definizione dello spazio". Criptica allusione a quello che forse è l'unico modo possibile di avvicinarsi alla sua opera: quello di affidarsi alla cadenza della parola stessa, di affidarsi al suo valore, e in definitiva al ruolo intrinseco di ogni fonema. Ma ho dei dubbi anche su questa interpretazione. Quello che deve secondo me rimanere chiaro ad ogni lettore è che ci troviamo di fronte ad un poeta primitivo: primitivo perché cerca un senso nella natura storica delle cose. Da qui il richiamo alla grecità, alla Cina arcaica, al mondo perduto. Vedeva il nucleo delle cose in una pluralità di fonti, all'apparenza sparpagliate ma accomunate da un'indole premoderna. Il senso del tragico batte forte, come un cuore ingolfato, in ogni singolo verso.
In modo del tutto arbitrario, mi piace concludere questo breve approccio con un'osservazione che Nietzsche propone ne La nascita della tragedia: "Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche, l'uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente". Non è forse la migliore definizione sintetica per i Cantos? In modo sbrigativo, verrebbe quasi la tentazione di considerare Pound come un sacerdote alle prese con il dilagare dei tempi e della storia, un alchimista in comunicazione con un altro mondo che tenta di contenere una realtà dilaniante con le sue sole forze.
1 commenti:
Convengo. Chissà forse tra qualche secolo,appariranno piu' chiare queste opere.
Pisciella Roberto
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